GENOINO, Giulio
Nacque nel 1567 a Cava de' Tirreni (e non a Napoli nel 1561, come lui stesso ebbe ripetutamente ad affermare), da una famiglia di artigiani della seta. Ottenne però molto presto la cittadinanza a Napoli e abitò presso la chiesa di S. Giorgio Maggiore a Forcella.
Dopo aver preso gli ordini minori, si laureò in legge ed entrò, nel 1594, nel Collegio dei dottori di Napoli, proseguendo i suoi studi di carattere giuspolitico e storico. Furono questi ad aprirgli le porte della prestigiosa Accademia degli Oziosi e a procurargli una fama culturale utile alle sue ambizioni politiche, quando queste s'incontrarono con la realizzazione del progetto riformatore del viceré, Pedro Tellez-Girón y Guzmán duca d'Osuna.
I rapporti tra il G. e l'Osuna si consolidarono nel 1619-20, sulla base del comune disegno politico che, se realizzato, avrebbe dovuto sconvolgere l'equilibrio istituzionale del Regno, fondato sul primato del Consiglio collaterale, da sempre rappresentante degli interessi del ceto aristocratico partenopeo. Il progetto riformatore prevedeva infatti il ridimensionamento del potere dei seggi nobiliari e l'affermazione del ruolo politico svolto dal "popolo".
Nel contesto di questa lotta politica, il 2 maggio 1619 il viceré nominò il G. proeletto del Popolo, violando l'antica norma consuetudinaria secondo cui tale nomina era ratificata dalle "ottine" (contrade). Il G. durò in questa carica fino al 17 luglio successivo, quando il Consiglio collaterale costrinse il viceré ad annullare la nomina per l'illegalità della procedura. La dignità gli fu però conferita nuovamente il 7 apr. 1620, insieme con quella di giudice della Vicaria, non senza suscitare ancora il malcontento del Consiglio collaterale.
Il 6 maggio, il G. espose dinanzi al duca d'Osuna il suo progetto di "pareggiare" il potere del "popolo" (ma in realtà del "ceto civile") con quello dei nobili nella capitale del Regno, eguagliando il numero delle "piazze" popolari e di quelle nobiliari.
Questa posizione, ribadita a pochi giorni di distanza nella Lettera agli accademici Oziosi intorno alle pretensioni del popolo, conteneva, al di là degli aspetti costituzionali, una minacciosa recriminatoria contro il potere nobiliare, durissima nei contenuti sociali ed economici. I ceti inferiori, affermava il G., non avrebbero infatti più tollerato quella "leonina divisio", con cui la nobiltà si era riservata tutti i vantaggi e gli onori, scaricando sul popolo la totalità dei gravami fiscali. Qualora, poi, i nobili non avessero corrisposto a queste legittime richieste, incombeva al viceré la loro punizione a norma di legge, come "perturbatori della pace pubblica". Se neanche questo fosse avvenuto, la frattura tra il popolo ed il ceto nobiliare sarebbe stata inevitabile.
Nonostante il tono radicale di questi pronunciamenti, l'Osuna continuò a sostenere l'ascesa politica del G., nominandolo, il 28 maggio 1620, eletto della "piazza" popolare al posto di Carlo Grimaldi, personaggio ben accetto alla nobiltà partenopea. Alla notizia della nomina, il Consiglio collaterale impugnò la decisione del viceré, dichiarandolo non competente a designare le alte cariche del potere municipale e sottolineando l'incompatibilità tra la funzione di giudice della Vicaria, precedentemente attribuita al G., e la sua ascesa all'elettato. L'Osuna fece così dimettere il G. dalla carica di giudice, confermandolo però eletto, e attribuì al Grimaldi la dignità di presidente della Sommaria. Dopo un'ulteriore opposizione del Consiglio collaterale, il Grimaldi, ormai interamente guadagnato al partito nobiliare antiosuniano, rifiutò la presidenza e non lasciò la carica di eletto, rifugiandosi nella chiesa del Carmine, insieme con il segretario della città, per sfuggire all'ira vicereale.
Questa spaccatura ai vertici del potere civico, foriera di un aggravamento della crisi, non fermò il G., che il giorno 29 prese solennemente possesso della carica con una cavalcata per le vie della città, seguito da un folto corteo di amici e sostenitori armati.
Per timore di una sollevazione, nella giornata del 30, molti nobili e ottimati abbandonarono la città, mentre i mercati cittadini interrompevano la loro attività. Il G. percorse le strade di Napoli, esortando la popolazione alla calma e costringendo con l'autorità e con la forza i commercianti a riprendere i loro negozi.
Nella notte tra il 30 e il 31 maggio 1620, il nuovo eletto componeva due nuovi, importanti documenti politici: il Manifesto del fedelissimo popolo napoletano e una Supplica al monarca spagnolo. Nel primo si invitava la nobiltà a restituire al popolo il potere a esso conferito dalle "antiche capitolazioni", minacciando nuovamente, in caso di rifiuto, una secessione civile. Nella Supplica il G. elencava i dodici punti della convenzione che la nobiltà avrebbe dovuto stipulare con il popolo napoletano, tra cui spiccava la parificazione del numero dei seggi popolari e aristocratici.
Questo audace programma politico era destinato all'insuccesso. Il 31 maggio, infatti, l'Osuna aveva ricevuto il perentorio invito ad abbandonare la sua carica per cedere il governo della città al cardinale Gaspare Borgia (Borja), nominato luogotenente e capitano generale del Regno.
Intanto, la notte del 3 giugno, mentre circolavano voci di una nuova sollevazione, il Borgia, con un audace colpo di mano, raggiungeva Napoli e si arroccava con le sue truppe nel forte di Sant'Elmo, che garantiva il controllo militare della città. Il giorno successivo il nuovo luogotenente si insediava ufficialmente a Castelnuovo, obbligava l'Osuna a lasciare Napoli e confermava Carlo Grimaldi come legittimo eletto del popolo.
Sparsasi il 4 giugno la notizia che il G. sarebbe stato arrestato per alto tradimento, il giorno 9 il duca d'Osuna lo fece imbarcare per la Francia. Raggiunta Tolone, il G. si diresse a Barcellona per raggiungere Madrid e rendere conto al re del suo operato. Ma una malattia lo costrinse a sostare nei possedimenti dell'Osuna a Briones e non poté così arrivare alla corte con quella celerità che un dispaccio reale, ricevuto il 29 settembre, gli imponeva.
Intanto a Napoli il luogotenente Borgia, le magistrature cittadine e il partito nobiliare affrettavano il processo contro il G., la cui istruttoria fu affidata al consigliere Scipione Rovito. Il 9 luglio questi aveva ordinato il sequestro e la vendita dei beni dell'imputato anche in assenza di un verdetto definitivo, che venne emesso il 28 sett. 1620 e stabilì la condanna del G. in contumacia per sedizione e l'imposizione di una taglia.
Pervenuto in Spagna l'ordine d'arresto, il G. fu catturato durante il viaggio verso Madrid e rinchiuso nel carcere della capitale il 28 ottobre. Il 12 dic. 1620 Borgia venne però sostituito nella carica di luogotenente dal cardinale Antonio Zapata, che ordinava la revisione del procedimento, non nella stessa Spagna, come il G. richiedeva, ma a Napoli.
Liberato dal carcere madrileno il 20 ott. 1621, insieme con il nipote Francesco Antonio Arpaia, dopo un lungo viaggio il G. fu tradotto a Napoli e rinchiuso a Castelnuovo il 4 maggio 1622, in attesa della nuova sentenza che, emessa il 21 ottobre, lo condannò al carcere perpetuo da scontarsi nella fortezza spagnola del Pignone, sulla costa marocchina.
Liberato dal carcere marocchino nel 1634 con un atto di clemenza reale, il G. raggiunse la Spagna, dove richiese alla corte di essere reintegrato nel Collegio dei dottori. Trattenutosi per più di un anno a Madrid senza aver ricevuto risposta, il G. si trasferì a Roma, dove solo nel settembre del 1638 ricevette la missiva dell'abate Giovanni Leonardo Torrese, che gli comunicava la sua riammissione nel Collegio. Dopo questa notizia il G. ritornò a Napoli, prendendo dimora nel quartiere di Porto e facendosi consacrare sacerdote dalle mani dell'arcivescovo di Efeso, Basilio Cacace.
Di fronte alle nuove difficoltà insorte per la sua riammissione al Collegio, il G. compose un'Apologia, indirizzata all'abate Torrese, con la quale riaffermava la sua fedeltà al potere imperiale e sosteneva che la sua proposta di riforma del sistema politico si conciliava perfettamente con la conservazione del dominio della monarchia spagnola, mirando anzi al suo rafforzamento. In un Parlamento municipale dove la rappresentanza popolare fosse parificata a quella aristocratica, il potere del re avrebbe potuto infatti giocare un importante ruolo di mediazione, che gli avrebbe consentito di spezzare facilmente le resistenze nobiliari in materia fiscale alleandosi con i ceti inferiori.
Nel 1639, il G. ribadiva pubblicamente e con forza le sue tesi sul diritto del popolo alla parità con i nobili nel governo della città. Il discorso, tenuto al Collegio dei dottori, provocò la reazione dell'autorità civile e gli valse un nuovo periodo di carcere a Castelnuovo, che si protrasse dal 2 ott. 1639 all'aprile successivo. Nonostante questa ulteriore condanna, il G. restò fermo nei suoi propositi di riforma.
A tal fine il G. comincerà, negli anni successivi, a fare propaganda tra i membri della piccola e media burocrazia municipale e a tessere rapporti tra i più ascoltati esponenti dei quartieri popolari del Mercato, del Lavinaro, della Conceria. Tra questi si distinguevano i capipopolo Micaro Perrone e Giuseppe Palumbo, e soprattutto Tommaso Aniello d'Amalfi, soprannominato Masaniello, un pescivendolo che si era già distinto per alcuni atti d'insofferenza contro il fiscalismo spagnolo.
Intanto, nel 1647 il nuovo viceré spagnolo, Rodrigo Ponce de León duca d'Arcos, per finanziare la difesa di Napoli, minacciata dalla pressione francese, impose una gabella sulla frutta e la verdura, che costituivano l'elemento base dell'alimentazione del popolo minuto. Il provvedimento determinò la vasta e generalizzata insurrezione popolare del 7 luglio, guidata da Masaniello e da un ristretto gruppo di congiurati, il cui comitato direttivo era costituito da Marco Vitale, dall'Arpaia e dal G., che assunse il ruolo di "consultore" e "assistente" principale di Masaniello.
Dopo la giornata rivoluzionaria di piazza Mercato (7 luglio), il movimento insurrezionale significativamente affiancò alle sue primitive rivendicazioni antifiscali un deciso pronunciamento antinobiliare, del tutto consono agli ideali da tempo proclamati dal Genoino. I seggi nobiliari furono infatti distrutti e si intimò ai nobili di venire a patti con il popolo, pena la distruzione delle loro case, la confisca dei beni e la loro uccisione. In quello stesso giorno, Masaniello, nominato capitano generale del Popolo di Napoli, ordinò la riduzione del prezzo del grano e di ogni altro genere alimentare e decretò l'abolizione della gabella, richiamandosi, certo su suggerimento del G., ad un privilegio di Carlo V che esentava la città di Napoli dal pagamento di tale imposta.
Venuta meno ogni possibilità di una mediazione diretta tra popolo e nobiltà, dopo il fallito attentato del 10 luglio contro Masaniello, il viceré affidò il tentativo di raggiungere un accordo con gli insorti all'arcivescovo di Napoli, cardinale Ascanio Filomarino, che condusse con il G., come rappresentante del movimento popolare, la difficile trattativa per i Capitoli d'intesa, stesi dal G. il 13 luglio con la collaborazione dell'avvocato Onofrio De Palma. In essi si chiedeva l'indulto generale per la sollevazione, il ristabilimento delle antiche forme di elezione per le magistrature popolari, la pari rappresentanza tra popolo e nobiltà, l'abolizione di ogni dazio imposto dopo Carlo V, una liberalizzazione commerciale e il riconoscimento del diritto di resistenza da parte del popolo, qualora questi capitoli fossero violati dalla nobiltà.
Ma il movimento dei rivoltosi si andava scindendo in due componenti contrapposte. La prima, sostenuta da Masaniello, era formata da elementi dei più bassi strati popolari e da un gruppo di intellettuali dell'Accademia degli Oziosi (Camillo Tutini, Orazio Montano, Vincenzo D'Andrea), intenzionati a radicalizzare le richieste sociali e politiche del movimento e pronti ad accettare anche uno scontro con il viceré. La seconda, composta dagli esponenti del ceto civile, era guidata dal G., che tentava di mantenere l'insurrezione in una cornice di legalità. Di fronte a questa irrimediabile spaccatura, il G. intavolò trattative riservate con il viceré, organizzando di fatto l'uccisione di Masaniello, che avvenne durante le celebrazioni per la Madonna del Carmine, il 16 luglio. Il G. restava così l'unico capo riconosciuto del popolo napoletano. Un ruolo confermato dalla nomina a presidente della Sommaria, che lo rendeva supremo arbitro del governo cittadino. In queste vesti, il G. tentò di incanalare il movimento di rivolta nell'alveo costituzionale, riaffermando la sua fedeltà alla monarchia di Spagna e proponendo al viceré un nuovo capitolo d'intesa, che prevedeva di ristabilire una parte delle imposte, il disarmo della plebe e un donativo al sovrano di due milioni di ducati, da realizzare con una tassazione proporzionale al reddito dei più facoltosi cittadini napoletani.
Questo ritorno all'ordine si scontrò, però, con la radicale opposizione di quanto restava del movimento masanelliano, che organizzò ripetute giornate insurrezionali il 22 luglio, il 12 e il 21 agosto, tutte dirette contro il G. e i suoi seguaci. Il 24 ag. 1647, a seguito di un nuovo tumulto che costrinse il G. a rifugiarsi nel palazzo vicereale, il viceré decise di imbarcarlo, per misura precauzionale, su una galera diretta in Sardegna. La nave, che prese il largo la notte del 4 settembre, recava, insieme al G., un dispaccio indirizzato dall'Arcos al viceré di Sardegna, Luis de Montalto, in cui si raccomandava di segregare il prigioniero "in qualche luogo in cui le intemperie gli abbrevino il castigo a cui deve andare incontro".
Dopo lo sbarco del G. a Cagliari, il 16 settembre, il Montalto inviava al sovrano spagnolo una lettera in cui si dichiarava indisponibile a seguire il desiderio del viceré di Napoli, dato che la propria coscienza non gli consentiva "di togliere la vita ad un sacerdote con una ambigua clausola della lettera di un ministro". La missiva continuava, informando Filippo IV che il G. era detenuto nel palazzo vicereale, da dove il prigioniero chiedeva di essere ammesso alla presenza del re, per pronunciare la sua apologia e dare informazioni su coloro che in quel momento continuavano l'insurrezione a Napoli.
Tale desiderio non fu però esaudito. Interrogato a più riprese dal Montalto, che lo invitava a mettere per iscritto le sue rivelazioni sui nomi degli agitatori napoletani, il G. rifiutò. Tale reticenza convinse il duca di Montalto a far tradurre il G. presso il viceré di Maiorca. Partito da Cagliari il 23 dic. 1647, il G. morì durante il viaggio, all'inizio di gennaio del 1648, nel porto di Malaga.
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