GIUSTINIANI, Giulio
Nacque nel 1539, o, più probabilmente, nel 1543, a Chio, da Pietro e da Maria Giustiniani. I genitori appartenevano a due diversi rami della famiglia Giustiniani di Genova.
Oltre a esercitare la signoria dell'isola greca, la famiglia godeva di un ruolo preminente nella vita politica genovese. Lo zio paterno, Ansaldo, svolse incarichi diplomatici al servizio della Repubblica. La madre, inoltre, era sorella del cardinale Vincenzo Giustiniani e zia di un altro cardinale, Benedetto.
Trascorsa la giovinezza a Chio, il G. desiderava recarsi in Italia per completare gli studi, come già avevano fatto i fratelli maggiori: Baldassarre, poi vescovo di Venosa; Orazio, cavaliere gerosolimitano; Marco Aurelio e Pompeo. Il suo progetto, tuttavia, fu impedito dalla drammatica fine della signoria dei Giustiniani: nel 1566 il sultano Sulaimān I, prendendo a pretesto alcuni ritardi nel pagamento del tributo dovuto alla Sublime Porta, occupò l'isola e fece deportare a Costantinopoli i Giustiniani. Nella capitale ottomana la famiglia venne divisa: il G. e i membri anziani furono relegati in Crimea, a Caffa (Feodosija), mentre i fratelli minori Scipione, Cornelio, Ercole e Ippolito rimasero a corte e furono uccisi per essersi rifiutati di abiurare la fede cristiana e di entrare al servizio del sultano.
Dopo quattro anni di relegazione, il re di Francia Carlo IX ottenne dal sultano Selīm II la liberazione dei Giustiniani e la restituzione dei loro beni privati, ma non della signoria di Chio. Il G. decise a questo punto di abbandonare per sempre l'isola e partì per l'Italia insieme con il padre, che probabilmente intendeva recarsi a Genova. L'improvvisa morte del genitore indusse il G. ad affidarsi alla protezione dello zio Vincenzo, che lo incoraggiò a proseguire gli studi, prima a Perugia e poi a Pisa. Conseguita la laurea in utroque iure nel 1572, ricevette da Gregorio XIII alcuni benefici ecclesiastici, ma non riuscì a ottenere alcuna carica. Perciò, all'inizio degli anni Ottanta, si ritirò presso il fratello Baldassarre, vescovo di Venosa. Il 28 sett. 1587, piuttosto inaspettatamente, Sisto V lo nominò vescovo di Ajaccio, su istanza del cugino, il cardinale Benedetto Giustiniani. Ricevuti gli ordini da Angelo Giustiniani, vescovo di Bovino, il G. partì immediatamente per la sua diocesi, che raggiunse nel 1588.
Ad Ajaccio il nuovo vescovo trovò una situazione di povertà e disordine, a causa delle distruzioni provocate dalla rivolta di Sampiero Corso (Sampiero da Bastelica: 1684) e della vacanza seguita alla morte del vescovo Cristoforo Guidiccioni (1582). La stessa cattedrale, trasformata in fortificazione nei decenni precedenti, non era stata ricostruita, nonostante l'impegno profuso dal commissario apostolico Giuseppe Mascardi. Nel suo lungo episcopato il G. affrontò con energia i gravi problemi della diocesi, dando prova di un ethos pienamente controriformistico, che coniugava un rigido ascetismo a un notevole dinamismo nel governo pastorale. Oltre a praticare numerose opere di pietà, il G. riorganizzò le strutture religiose della diocesi: la cattedrale fu ricostruita, il capitolo del duomo fu accresciuto di cinque canonici, ai quali furono assegnati i redditi della mensa vescovile, fu rafforzata la presenza di predicatori francescani e gesuiti. Non ebbe invece alcun esito l'ambizioso progetto di costruire ad Ajaccio un seminario e un collegio dei gesuiti.
Nel suo sforzo di applicare le normative tridentine il G. assunse un atteggiamento di rigida difesa delle immunità ecclesiastiche, che condusse a continui contrasti giurisdizionali con i poteri civili. Già nel 1592 un lungo memoriale del governatore di Corsica denunciava l'uso eccessivo delle censure ecclesiastiche, l'abusivo ampliamento dell'immunità locale, lo scarso rispetto per i commissari genovesi. Le tensioni giurisdizionali, peraltro, non traevano origine solo dal carattere spigoloso del vescovo, ma erano piuttosto la conseguenza della tradizionale renitenza del clero di Corsica a sottomettersi all'autorità civile e del ruolo politico che il G. aveva finito per assumere.
Nonostante i frequenti contrasti, i rapporti tra il G. e le autorità genovesi non sfociarono in aperto conflitto fino al 1614-15, quando la situazione precipitò improvvisamente. La causa scatenante del contrasto fu il rifiuto degli abitanti di alcune pievi di versare le "taglie" (tributi feudali) ai feudatari di Bozi e Ornano. Il commissario genovese Giorgio Centurione cercò di favorire un accordo amichevole, temendo una recrudescenza della violenza endemica che caratterizzava la zona, e convinse i rappresentanti delle pievi ad accettare una concordia che alleggeriva in maniera consistente il tributo. La sentenza di concordia, però, incontrò una fortissima opposizione e si verificarono atti di ribellione contro i feudatari e il governo genovese, capeggiati da alcuni esponenti del clero. Le fonti non chiariscono in maniera esauriente quale sia stato il ruolo del vescovo in questa difficile situazione, ma è certo che il G., pur non appoggiando apertamente i rivoltosi, prese più volte posizione contro le pretese dei feudatari e protesse i preti implicati nelle sommosse, tra i quali vi era anche il suo ex vicario, G.B. Roccaserra, uomo di dubbia moralità, già condannato per concubinaggio.
Di fronte al rischio di un allargamento della rivolta, la Repubblica di Genova prese provvedimenti drastici: ordinò l'arresto del Roccaserra, che fu immediatamente trasferito a Roma e consegnato all'autorità ecclesiastica, e inviò al papa un ambasciatore straordinario, Manfredo Ravaschieri, con il compito di chiedere l'allontanamento del vescovo di Ajaccio. Le trattative tra la Repubblica e la Curia proseguirono, con alterne vicende, per tutta l'estate del 1615 e furono ostacolate dagli interventi del cardinale Benedetto Giustiniani, che intendeva assolutamente evitare la rimozione del cugino, e dalla scarsa disponibilità di Paolo V ad accettare le richieste genovesi. Ma nell'agosto 1615 l'uccisione di alcuni feudatari e delle loro famiglie da parte dei ribelli indusse il papa ad abbandonare gli indugi e a rimuovere il G. dalla sede di Ajaccio.
In tutta la vicenda l'ormai anziano vescovo assunse un atteggiamento di resistenza passiva, negando di aver protetto i responsabili delle sommosse e rifiutando di abbandonare la diocesi, ma la sua posizione divenne progressivamente insostenibile, anche perché il cardinal Giustiniani rifiutò di appoggiarlo ulteriormente. All'inizio del 1616 il G. dovette perciò piegarsi a un ordine esplicito del papa, che gli ingiungeva di recarsi immediatamente a Roma.
Lasciata Ajaccio, il G. giunse a Livorno, ma improvvisamente si ammalò e morì, il 18 apr. 1616.
Dopo la morte, il G. fu oggetto di un certo culto popolare, alimentato anche dai prelati di casa Giustiniani che gli successero nel vescovato. Nel 1620 il suo corpo fu solennemente traslato da Livorno ad Ajaccio e sepolto nella cattedrale.
Fonti e Bibl.: C.F. Giustiniani, Vita di monsignor G. G. vescovo di Ajaccio, Roma 1667; A. Lucci, I riflessi sopra la vita e costumi del servo di Dio mons. G. G., Roma 1667; I. Rinieri, I vescovi della Corsica, Livorno 1934, ad indicem (con notevoli imprecisioni); V. Vitale, Un'ambasceria genovese a Roma e il clero di Corsica (1615), in Arch. stor. di Corsica, X (1934), pp. 1-53; K. Jaitner, Il nepotismo di papa Clemente VIII (1592-1605): il dramma del cardinale Cinzio Aldobrandini, in Arch. stor. italiano, CXLVI (1988), p. 77; F. Ughelli - N. Coleti, Italia sacra, III, Vene-tiis 1718, coll. 497-499; G. van Gulik - C. Eubel, Hierarchia catholica, III, Monasterii 1923, p. 94.