GRA, Giulio
Nacque a Roma il 18 dic. 1900 da Luigi e da Elena Mansueti. Ultimo di dieci figli, si iscrisse alla Scuola di applicazione per gli ingegneri di Roma, dove si laureò nel 1922. Furono importanti per la sua formazione le idee e gli insegnamenti di Guglielmo Calderini e, soprattutto, di Gustavo Giovannoni e Pietro Aschieri, il primo dei quali si era dedicato allo studio degli stili architettonici e delle tecniche costruttive della Roma antica, mentre il secondo si proponeva di interpretare in maniera creativa gli stilemi classici, privilegiando, in questa operazione, lo studio della regola compositiva all'assemblaggio formale delle parti.
Durante il periodo universitario il G. iniziò a collaborare con i suoi due fratelli Eugenio ed Enrico, anch'essi ingegneri, che nel 1920 avevano ricevuto l'incarico per la realizzazione dell'intero programma edilizio della cooperativa Ammiraglio Del Bono per il personale della Marina a Roma. Lo stesso G. si occupò, nell'ultima parte del programma, della progettazione di tre villini e introdusse in questi un tipo di decorazione che riproponeva alcuni caratteri formali del Rinascimento italiano.
Nel 1923 partecipò al concorso internazionale per la costruzione del palazzo municipale di Montevideo, iniziando così la vera attività professionale.
In questa sua prima esperienza è già presente quel riferimento al mito della classicità che caratterizzò tutto il suo operare, che qui è reso evidente nella scelta del motto "In Latina maiestate serenitas". Nella relazione che accompagna il progetto le scelte architettoniche sono puntualmente giustificate da esigenze funzionali o tecniche, mentre nella parte finale si legge che "è parso giusto e necessario adottare quello stile che impronta di sé tutta l'estetica dell'alma madre Roma. È questo lo stile classico seicentesco che, nato da Michelangelo ebbe vita dal Bernini e fu diffuso dal Fuga e dal Rainaldi" (G. G.…, p. 33). La copertura del salone dell'Assemblea è pensata come una doppia cupola, la prima sottile in cemento armato, la seconda, sospesa, è ricca di decorazioni; la simmetrica materialità dei prospetti cerca di realizzare, attraverso le strutture decorative, "un movimento complesso e solenne" (ibid.).
Nel 1925 il G. costituì, con il fratello Enrico, l'Impresa Fratelli Gra. Il fratello maggiore Eugenio, intanto, rinunciava alla libera professione, preferendo a essa un incarico nell'amministrazione pubblica che lo portò poi a lavorare alla realizzazione del Grande raccordo anulare di Roma (GRA), nel cui acronimo si ritrova il suo cognome.
Nell'impresa fu principalmente il G. a occuparsi della progettazione architettonica, senza però mai rinunciare a seguire tutte le fasi della realizzazione, acquisendo ben presto una notevole competenza nell'uso dei materiali e delle tecniche costruttive. In questo periodo si realizzarono a Roma le grandi urbanizzazioni dei quartieri Flaminio, Parioli e Salario; e l'impresa fu spesso tra quelle incaricate dei lavori, costruendo, senza occuparsi della progettazione, anche un lotto di case popolari a Ostia Lido e partecipando allo scavo nel foro di Augusto.
Sempre nel 1925, in vacanza a Santa Margherita Ligure, il G. conobbe Elisabetta Schulmann, ebrea tedesca. Si sposarono il 21 ott. 1929 a Monaco di Baviera ed ebbero due figli, Deila e Mario.
È questa una delle poche notizie conosciute della sua vita privata. La sua era una famiglia borghese, profondamente cattolica, ed egli mantenne sempre un legame molto profondo con le proprie origini. Il suo carattere schivo e riservato lo portò a operare lontano dalla pubblicità e, nonostante l'intensa attività professionale, egli non sembra avere avuto particolari rapporti con colleghi o altri personaggi del suo tempo, pur restando comunque aggiornato sullo sviluppo dell'architettura a lui contemporanea. Di fede liberale non aderì mai al fascismo, accettando la situazione politica pur senza condividerla.
Il primo vero incarico fu nel 1926. La cooperativa Cesare Battisti affidò all'impresa la progettazione e la realizzazione di cinque edifici per abitazione in via di villa Sacchetti a Roma. Se i quattro realizzati non furono certamente innovativi dal punto di vista tipologico, nei prospetti di questi il G. operò una prima volontaria semplificazione degli elementi decorativi già usati in precedenza, alla ricerca di quel rapporto diretto con le regole compositive e proporzionali del classicismo italiano che diventò sempre più presente nei progetti romani, realizzati tra il 1927 e il 1930, di villa Caracciolo di Brienza in via U. Aldrovandi, delle palazzine a corso Trieste, dei primi tre e, particolarmente, dei secondi quattro villini in via G. Mangili.
Nel 1928 la cooperativa La Casa famigliare gli commissionò la progettazione e la realizzazione di due edifici per abitazione nel quartiere Flaminio a Roma.
Il primo si trova nel punto in cui il lungotevere è attraversato dall'asse di viale delle Belle Arti e del ponte Risorgimento, e rappresenta un elemento di connessione tra le strade poste su differenti quote altimetriche. Questa particolarità, il rispetto delle altezze imposte dal regolamento edilizio e l'obbligatoria adozione del disegno planimetrico previsto nel piano regolatore del 1909 trasformavano, però, la continuità della pianta in una unione di volumi indipendenti. Le soluzioni d'angolo tra i singoli blocchi sono state così risolte con strutture decorative autonome, pensate come cerniere di unione tra i diversi fronti. I prospetti esterni denunciano una legge nella quale un loggiato superiore tripartito è l'asse centrale di simmetria della composizione. Un preciso ordine di importanza disegna le cornici delle finestre; in copertura un volume curvilineo a doppia altezza si pone ironicamente come una sopraelevazione indipendente.
Nel secondo edificio, posto sulla via Flaminia in stretta vicinanza con il ministero della Marina, la struttura è interamente in cemento armato, fino allora utilizzato dall'impresa solo insieme ai materiali tradizionali. I loggiati tripartiti a doppia e tripla altezza, che qui si sovrappongono ai portali che identificano gli accessi, sono inseriti in elementi architettonici centrali ai prospetti, con caratteri diversi sui quattro lati. Il volume unitario contribuisce a ripresentare l'immagine storica del palazzo gentilizio.
Il rapporto con la tradizione è l'elemento che permette di leggere in una organica successione l'attività progettuale del Gra. La sua ricerca fu tesa a proseguire un cammino già segnato, la sua ambizione fu quella di dare forma alle leggi inconfutabili della storia che trova origine nella Roma del Cinquecento. Egli sentiva di appartenere completamente a questa città, con la quale stabilì un dialogo privo di grida e di fratture, sommessamente fondato sulle interpretazioni stilistiche, dove però antepose l'esistente a sé. Nell'architettura il G. rileggeva la sua malinconia, accettando a priori l'impossibilità di dialogare dialetticamente con i suoi grandi maestri, vedendo nel nuovo la doverosa prosecuzione dell'immagine data della città.
La cura riservata agli elementi decorativi e alle soluzioni di dettaglio, punti fondamentali della sua ricerca, gli valsero diverse critiche per l'aspetto eccessivamente nobile dei suoi edifici, difficilmente paragonabili a quelli costruiti da altre società cooperative che godevano, come i suoi committenti, del contributo diretto dello Stato.
Nel 1932 iniziò un breve periodo in cui il G. partecipò a diversi concorsi nazionali. Fu in questi progetti che egli riuscì a trovare un felice sviluppo in quella che era stata, fino ad allora, la sua ricerca sul rapporto tra modernità e tradizione.
Nel concorso per il palazzo degli uffici dei dipendenti dei Lavori pubblici a Bari del 1932, egli abbandonò quasi completamente la decorazione a favore di una rigorosa composizione di masse, con due alte torri che segnavano l'ingresso all'edificio sull'angolo. Nel 1933 partecipò ai concorsi romani per la realizzazione degli uffici per servizi postali, telegrafici e telefonici nei quartieri Appio, Nomentano, Aventino e Miglio, di cui però non resta testimonianza.
Nel progetto per la pretura nel quartiere Nomentano egli introdusse delle grandi superfici vetrate a tagliare i volumi, sperimentando soluzioni fortemente moderne, ma fu con il progetto di concorso per il palazzo del Littorio, per il quale ricevette una menzione, che egli sembrò voler chiudere un suo percorso individuale. L'edificio aveva la forza di una massa unitaria, pur contenendo funzioni tra loro differenti. Il prospetto su via dell'Impero era risolto con un porticato curvo segnato da archi a tutta altezza, compresso tra due massicci volumi laterali. Speroni rastremati misuravano i prospetti esaltando la pesantezza dell'unità, mentre sul lato minore dell'area il grande cilindro dell'aula massima fronteggiava il Colosseo.
Nel 1933 gli fu affidata la realizzazione di un convento e asilo in via Cairoli a Roma. In questo edificio egli abbandonò completamente le strutture decorative dei timpani e delle paraste, rinunciando per la prima volta alla simmetria nel prospetto principale.
Alla semplice linearità di questo, quello sul retro rispondeva con un'articolazione spaziale più libera, isolando la scala nel rapporto con il cortile interno. Fu questo un progetto maturo, misurato nelle proporzioni, nel quale il G. riuscì a dare slancio alla sua architettura. Una variante non realizzata, che rendeva rettangolari le finestre ad arco nel primo livello del prospetto su via Cairoli, testimoniava quanto egli fosse ormai lontano dai suoi primi progetti.
Tra il 1934 e il 1939 il G. fu protagonista nella vicenda legata alla progettazione di un palazzo contenente abitazioni, uffici e una sala per spettacoli che l'Istituto nazionale delle assicurazioni (INA) voleva costruire a Catania. Fu questa una storia particolare nella quale una serie di varianti imposte ridusse fortemente l'espressività del primo progetto del G. senza, peraltro, permettere la costruzione del manufatto. Sempre l'INA gli affidò nel 1936 la progettazione di un altro palazzo per abitazioni e uffici a Novara. Per la prima volta egli si trovò, nella realizzazione, a dialogare con una impresa diversa dalla sua, e forse anche per questo utilizzò qui una serie di soluzioni formali e tecniche già sperimentate in precedenza.
Nello stesso anno il G. lavorò al progetto per la sede della Lega navale italiana a Ostia. Nei disegni l'edificio è sospeso su pilotis e pensato, nella semplicità della pianta, come un pieno compresso nelle superfici aggettanti delle due terrazze. È questo l'unico caso nel quale egli sembra rinunciare all'unità del volume architettonico, preferendo a essa una lineare giustapposizione di piani.
Nel 1937 nacque la sua prima figlia, Deila, e nel periodo immediatamente successivo egli cominciò a isolarsi in una dimensione che diventò col tempo sempre più privata.
L'edificio per abitazioni sul lungotevere Flaminio, a Roma, fu la sua ultima opera. Il progetto era del 1934; ma i lavori si protrassero fino al 1939, anno al quale si fa risalire il suo volontario abbandono della professione. La costruzione fu finanziata e realizzata dalla sua stessa impresa, ed egli usò questa opportunità per rileggere criticamente, in un singolo edificio, tutto il suo percorso progettuale.
La simmetria del prospetto principale è evidenziata dal doppio ordine gigante sovrapposto, ma è resa più complessa da un secondo virtuale asse di simmetria sull'angolo convesso dell'edificio. La tripartizione orizzontale dei prospetti, caratteristica della sua architettura, si proietta all'interno del volume con le logge seriali del coronamento; l'impianto planimetrico continuo viene dal G. negato nella trasformazione dei due bracci laterali più corti in alte torri. Visibile è la cura e la raffinatezza riservata ai dettagli, con l'uso del marmo verde alpi per le pareti interne delle logge e con i balconi dall'aggetto variabile rivestiti, sul fronte e nella parte inferiore, con lastre di travertino.
Dal 1939, anno in cui nacque il suo secondo figlio Mario, architetto tragicamente morto nel 1983 in un incidente stradale, cessò di fatto l'attività dell'impresa. Una operazione chirurgica non completamente riuscita comportò al G. diversi problemi di salute; il fratello Enrico fu chiamato alle armi. Frequentò sempre più assiduamente la campagna di Tecchiena, in provincia di Frosinone, dove aveva acquistato e poi trasformato in abitazione un convento medioevale. L'evoluzione della situazione politica, con la dichiarazione di guerra dell'Italia e con le persecuzioni razziali, rappresentò per il G. motivo di angoscia per l'incolumità della moglie e di tutta la famiglia. Nel contempo l'allontanamento dalla professione fu dettato anche dalla sempre più accentuata mancanza di committenti privati nell'industria edilizia; mentre l'intero settore si trasformava rinunciando a quella qualità che il G. aveva sempre cercato di ottenere nelle sue realizzazioni.
Finita la guerra non riprese tuttavia a lavorare, chiudendosi definitivamente in una solitudine, dalla quale, secondo i racconti dei familiari e dei pochi amici, l'architettura e la costruzione erano volontariamente escluse.
Il G. morì d'infarto il 4 dic. 1958 a Stresa, dove, consigliato dal fratello Enrico che lo accompagnava, si era recato per alcune cure.
Fonti e Bibl.: F. Aggarbati - C. Saggioro, G. G.: opere e progetti 1923/1939, Roma 1991; Id. - Id., Intenzioni "urbane" nelle architetture di G. G., ingegnere romano degli anni Trenta, in Metamorfosi, n. 8, Dal "Villino" alla "Palazzina", Roma 1920/1940, Roma 1987, pp. 54-67; A. Saggio, Profilo di G. G.: l'opera della vita, in Costruire, n. 164, gennaio 1997, pp. 114-116.