Giulio II
Giuliano della Rovere nacque ad Albisola il 5 dicembre 1443 di modesta famiglia, da Raffaello e da Teodora di Giovanni Manirola. Ad essi dedicò il 30 aprile 1477 un monumento funebre nella chiesa dei SS. Apostoli in Roma, commissionato probabilmente allo scultore Andrea Bregno.
Dopo un'infanzia trascorsa nel luogo natale, entrò nell'Ordine francescano sotto la protezione dello zio Francesco della Rovere, che lo inviò a Perugia perché studiasse diritto nell'Università dove egli stesso aveva insegnato. Dopo l'elezione pontificia dello zio col nome di Sisto IV (9 agosto 1471), compì una rapida carriera ecclesiastica: il 16 ottobre dello stesso anno venne nominato arcivescovo di Carpentras e legato d'Avignone e il 15 dicembre, nonostante le opposizioni in Concistoro, cardinale di S. Pietro in Vincoli (e, successivamente, dei SS. Apostoli, di Sabina e di Ostia). A queste cariche se ne aggiunsero rapidamente numerose altre. Fu infatti arcivescovo di Losanna, di Avignone (e vescovo di altre diocesi francesi), di Bologna dal 1483 al 1502 e di Vercelli dal 1502 al 1503, nonché protettore dell'Ordine francescano dal 1474. Inoltre ottenne il godimento di copiosi benefici abbaziali, soprattutto in area francese, così da raggiungere alla fine del secolo un reddito complessivo, tra benefici e pensioni, di almeno 20.000 ducati. I suoi poteri di legato di Avignone furono accresciuti al di là del consueto: gli fu infatti concesso di esercitare giustizia sui mercanti e banchieri italiani (anche in funzione di una generale politica di controllo della nazione fiorentina in senso antimediceo) e di sovrintendere la locale Università, di cui si occupò attivamente, attirandovi docenti di fama e fondando un collegio per studenti poveri.
Nominato legato della Marca d'Ancona dal 1473, nel giugno 1474 fu posto a capo di una spedizione militare per ricondurre all'obbedienza Todi e Spoleto. In tale occasione cinse d'assedio Città di Castello, che aveva appoggiato la ribellione, e riuscì ad ottenerne la resa. Dal 1476 divenne legato, oltre che di Avignone, anche del Regno di Francia: il cumulo di questi poteri - motivato con la volontà di organizzare una spedizione contro il Turco - va spiegato con l'intento del pontefice di utilizzare il nipote quale testa di ponte contro Luigi XI nell'alleanza che Sisto IV stava intessendo con Carlo di Borgogna (il Temerario). Giuliano della Rovere partì perciò da Roma il 19 febbraio 1476 ed entrò in Avignone il 17 marzo; nel frattempo, però, Carlo il Temerario era stato clamorosamente sconfitto nella battaglia di Grandson dagli Svizzeri, alleati del re di Francia. Il comportamento prudente di Giuliano gli procurò l'appoggio del sovrano francese anche in tale difficile frangente: poté così esercitare le sue funzioni di legato e allo stesso tempo conseguire i numerosissimi benefici in terra francese di cui si è detto all'inizio. Il 15 luglio 1476, per esempio, lo stesso Luigi XI gli concesse il vescovato di Coutances. Dopo avere rafforzato l'autorità pontificia sul Contado Venassino, nel settembre dello stesso anno della Rovere lasciò Avignone e rientrò in Italia. Il 28 aprile 1480 fu nominato legato "a latere" per la Francia, i Paesi Bassi e i Regni di Inghilterra e Scozia. Ebbe inoltre l'incarico di convincere Luigi XI a stipulare la pace con Massimiliano d'Austria, in vista - ancora - della realizzazione di una crociata contro l'Islam. Sempre nell'ottica della crociata fu anche proclamata un'indulgenza, di cui della Rovere divenne collettore generale per la Francia e il Delfinato.
Di ritorno da questa missione, entrò ad Avignone il 27 maggio 1481 e vi si fermò sino alla metà di novembre, arrivando a Roma il 3 febbraio 1482. Gli anni successivi vennero impiegati dal della Rovere per crearsi nel Lazio un vero e proprio dominio personale, costituito attorno al monastero di Grottaferrata, che egli deteneva a titolo commendatizio e che fece fortificare da Giuliano da Sangallo. Allo stesso architetto commissionò una roccaforte ad Ostia presso la foce del Tevere (ultimata nel 1486), che aveva lo scopo di garantire la sicurezza di Roma dagli attacchi turchi e nello stesso tempo gli consentiva di tenere sotto controllo le vie di rifornimento alimentare alla città. Quest'ultima funzione era di ovvia importanza in un periodo che vedeva, con la guerra di Ferrara e quella contro Firenze seguita alla congiura dei Pazzi, una situazione di belligeranza tra lo Stato della Chiesa e il potere mediceo.
Poco dopo la pace di Bagnolo la morte di Sisto IV, il 12 agosto 1484, pose termine al primo periodo della vita e dell'attività del futuro papa, che mostrò di rendersi ben conto della difficoltà in cui lo poneva la scomparsa dello zio e dette prova del suo temperamento provvedendo immediatamente a fortificare la propria abitazione e a riempirla di armati. Nel conclave che portò all'elezione di Innocenzo VIII Giuliano della Rovere ebbe una parte fondamentale: cedette infatti a Giovan Battista Cibo, di cui già aveva favorito la nomina cardinalizia, i voti dei quali avrebbe disposto per sé. Il suo ruolo agli inizi del nuovo pontificato fu perciò della massima rilevanza - tanto che di lui si disse "è il papa e più che papa" - e si accrebbe con la nomina del fratello Giovanni, già prefetto di Roma, alla carica di capitano generale della Chiesa. La guerra scoppiata nel 1485 fra il papa e il Regno di Napoli a seguito della forzata cessione delle enclaves pontificie di Benevento, Terracina e Pontecorvo e, viceversa, dell'acquisizione dell'Aquila allo Stato della Chiesa, vide l'ulteriore accrescimento di tale ruolo sia diplomatico, sia militare. Nel marzo 1486 il cardinale della Rovere partì per Genova, dove intendeva trattare l'aiuto, nella guerra in corso, di Renato II di Lorena, pretendente al trono di Napoli. L'accordo raggiunto non poté tuttavia divenire operante perché le due parti in conflitto raggiunsero un'intesa l'11 agosto 1486. Il futuro pontefice s'impegnò allora per risolvere una situazione interna allo Stato della Chiesa e strinse invano d'assedio Osimo, conquistata dal capitano di ventura Boccolino Guzzoni, che aveva intavolato trattative con il sultano turco per cedergli i territori sotto il proprio controllo.
Forse anche a seguito di questo insuccesso della Rovere si ritirò nell'agosto 1487 nella sua sede episcopale di Bologna, da cui tornò a Roma solo nel maggio 1492 per accompagnare il trasferimento da Narni della reliquia della sacra lancia. In seguito continuò a mantenere comunque un ruolo defilato rispetto alla politica romana sino alla morte d'Innocenzo VIII, avvenuta il 25 luglio 1492. Dal conclave il della Rovere, che pure aveva l'appoggio della Francia e di re Ferrante di Napoli, la cui politica aveva sostenuto negli anni precedenti tanto da essere considerato uno "sviscerato ferdinandesco", uscì tuttavia sconfitto in seguito all'elezione - avvenuta, si disse, mediante una compravendita di voti alla quale aveva rifiutato di prendere parte - di Rodrigo Borja, che prese il nome di Alessandro VI.
Agli inizi del 1494 venne per il cardinale il momento di mettere a frutto i precedenti intensi rapporti con la Francia, appoggiando e favorendo la spedizione in Italia di Carlo VIII. Dopo l'elezione di Alessandro VI, della Rovere si era rifugiato nella fortezza di Ostia, da cui usciva solo accompagnato da una scorta armata e da cui, affidando le sue terre ai Colonna, s'imbarcò il 24 aprile per Savona. Da questa città passò a Nizza e poi ad Avignone; quindi incontrò a Lione il sovrano francese e gli inviati di Milano e di Venezia, che stavano trattando con quest'ultimo le modalità del suo intervento nella penisola. Agli inizi di settembre, quando Carlo VIII varcò la frontiera, della Rovere era al suo fianco e lo accompagnò sino a Roma, dove entrò con lui il 31 dicembre. Sperava che il sovrano convocasse un concilio per deporre il pontefice, ma questo non accadde, anzi il re fece atto di obbedienza ad Alessandro VI e della Rovere si dovette accontentare della restituzione della rocca di Ostia, che nel maggio i Colonna avevano abbandonato al papa. Seguì allora a Napoli Carlo VIII e questi, dopo essere entrato nella suddetta città il 22 febbraio 1495, ricompensò la sua fedeltà con l'assegnazione dell'abbazia di Montecassino.
Durante la ritirata francese Giuliano della Rovere tentò invano di sottrarre la città di Genova al dominio milanese con l'aiuto di alcuni fuorusciti; infine accompagnò Carlo VIII in Francia. Il 21 ottobre 1495 era ad Avignone, dove si fermò tutto l'inverno occupandosi del governo della Legazione. Successivamente organizzò un ulteriore tentativo di conquistare Genova per il re di Francia: tuttavia non solo l'assedio della città fallì, ma della Rovere fu raggiunto nel marzo 1497 dalla notizia che la fortezza di Ostia era stata conquistata da Consalvo di Cordova, in nome di Alessandro VI, e che di conseguenza aveva perso tutti i possedimenti nella campagna romana.
Una momentanea rappacificazione con la famiglia Borja comportò la restituzione dei benefici perduti e spinse della Rovere, il 28 ottobre 1498, ad accogliere solennemente in Avignone Cesare Borja, che si recava in Francia per prendere possesso del Ducato di Valentinois concessogli da Luigi XII. Nel corso dell'inverno il cardinale si impegnò addirittura nel concludere le trattative del matrimonio fra il Borja e Carlotta d'Albret e inoltre nella stipulazione dell'accordo fra Venezia e Luigi XII per la spedizione che questi stava preparando contro il Ducato di Milano.
Ancora sofferente per un attacco della sifilide che da tempo lo tormentava, della Rovere si fermò ad Avignone sino alla metà di luglio 1499, quando si recò a Lione per incontrare il sovrano francese. Si spostò quindi a Savona - il papa lo aveva infatti incaricato dell'amministrazione di quella diocesi - e poi a Torino. Qui si pose nel seguito del re di Francia, assieme al quale entrò in Milano conquistata dai Francesi il 6 ottobre.
Agli inizi del 1500 era a Roma, dove assistette alle cerimonie d'inaugurazione dell'Anno santo. Nei mesi successivi ricevette dal papa la concessione dell'abbazia di Chiaravalle in cambio dell'appoggio alla politica del Valentino, che stava costituendosi uno Stato nell'Italia centrale. La sua posizione divenne, però, difficile quando Cesare Borja conquistò il Ducato di Urbino sino allora tenuto da Guidobaldo da Montefeltro, strettamente imparentato ai della Rovere. Un altro motivo d'urto con i Borja fu la sua opposizione al trasferimento dotale dei castelli di Cento e di Pieve di Cento per le nozze di Lucrezia Borja con Alfonso d'Este. Perciò prudentemente "se ne fugitte a Savona in quel di Genova", come scrisse un cronista cesenate (G. Fantaguzzi, p. 137), e vi restò sino alla morte di Alessandro VI e alla contemporanea malattia del Valentino. Della Rovere tornò a Roma - da cui il Borja, che si era vantato di poterne impedire il ritorno, si era appena allontanato - soltanto il 3 settembre 1503 per partecipare al conclave che elesse, il 22 settembre, papa Pio III Piccolomini (e nella cui prima votazione aveva ricevuto il maggior numero di voti). Alla morte di Pio III, poche settimane dopo, della Rovere finalmente ascese al soglio (1° novembre 1503), con il nome di Giulio II, avendo ottenuto l'appoggio dei cardinali spagnoli fedeli ai Borja grazie ad una capitolazione elettorale in cui fra l'altro prometteva di mantenere il Valentino nei suoi possedimenti ("l'uno ha bisogno d'essere risucitato, e quegli di essere arricchiti", scrisse all'epoca Machiavelli per motivare il favore dell'uno e degli altri alla nuova elezione papale: Legazioni, p. 590).
Il cardinale della Rovere era entrato in conclave il 30 ottobre sicuro di trionfare; oltre all'appoggio spagnolo, poteva infatti contare su quello italiano e su quello francese: soltanto gli imperiali avevano indicazione di provare a eleggere uno dei loro prima di far convergere i propri voti sul candidato voluto da tutti, nonostante che fosse in fondo da tutti temuto. Ci si fidava forse della capitolazione elettorale, confermata da G. dopo la sua elezione, la quale prevedeva, oltre agli accordi con Cesare Borja, anche una certa limitazione dell'autonomia papale. In particolare il testo assicurava che entro due anni sarebbe stato convocato un concilio ecumenico per il ristabilimento della disciplina ecclesiastica e che nel frattempo il pontefice avrebbe interpellato il Sacro Collegio per tutte le faccende di maggiore importanza. Inoltre non si sarebbe potuto muovere guerra se non con l'assenso di due terzi dei cardinali.
Nei primi giorni di regno G. inviò brevi alle città in mano del Borja confermando il Valentino nel possesso delle stesse. I buoni rapporti con Cesare Borja durarono, però, assai poco: il 2 dicembre 1503 Cesena e le altre città conquistate dal Valentino rientrarono in possesso del papa, che negli stessi giorni faceva catturare il Borja e lo faceva rinchiudere in Castel S. Angelo. G. ottenne altresì che fosse imprigionato nei pressi di Cortona l'uomo di fiducia di Cesare, don Micheletto, poi condotto a Roma, dove rimase prigioniero sino al marzo 1505. Il 16 febbraio 1503 il Borja fu trasferito nella fortezza di Ostia e, alla fine del mese, il papa inviò i suoi armati a Cesena perché si impadronissero della rocca di Forlì, che gli venne consegnata soltanto il 10 agosto.
Nel frattempo concesse il 23 aprile l'investitura di Pesaro a Giovanni Sforza, con il quale stipulò una condotta d'armi il 4 aprile 1509. Altre investiture feudali furono quella di Camerino, concessa a Giovanni Maria Varano, e di Urbino, concessa a Guidobaldo da Montefeltro. Quasi contemporaneamente i Caetani, gli Orsini e i Colonna furono reintegrati nel possesso dei territori loro sottratti dai Borja. Nel maggio il duca Valentino fu infine scomunicato e il 20 agosto fu condotto da Consalvo di Cordova in Spagna, dove morì in combattimento nel 1507.
Risolto il problema del Valentino, il papa manifestò l'intento di recuperare le terre delle Romagne conquistate dai Veneziani, in particolare Faenza e Rimini, la cui occupazione era avvenuta nei giorni stessi della sua incoronazione. Nonostante le proteste del pontefice per il tramite dell'ambasciatore veneziano a Roma Antonio Giustinian, la presenza in Romagna andò rafforzandosi nei mesi successivi. A partire dalla primavera del 1504 G. iniziò a prendere contatto con Luigi XII di Francia e con l'imperatore Massimiliano per contrastare l'espansione veneziana: di fatto la pace di Blois, stipulata il 22 settembre 1504 tra i due sovrani, era esplicitamente diretta contro Venezia. Ne seguì, nel marzo 1505, una parziale restituzione alla Chiesa di alcuni territori delle Romagne, escluse, però, Rimini e Faenza. Nel frattempo il papa perseguiva il generale consolidamento dello Stato della Chiesa ed emanava a tal scopo una serie di provvedimenti amministrativi e finanziari, tra i quali la creazione di una nuova moneta (detta appunto giulio) e l'ampliamento della vendita degli uffici ecclesiastici e della pratica delle indulgenze. Quest'ultima era utilizzata per raccogliere i fondi necessari per le innumerevoli imprese militari: G. era infatti consapevole, come notava Guicciardini, che l'attività bellica implicava "la facoltà e il nerbo di sostenerla" (Storia d'Italia VII, 1).
Di qui il suo accordo con Agostino Chigi, che pure era stato legato a filo doppio con Alessandro VI e Cesare Borja. Al Chigi furono rinnovati tutti i privilegi precedentemente ottenuti, in particolare l'appalto per le miniere di Tolfa. In cambio il banchiere sostenne a più riprese le finanze pontificie, di cui infine ebbe la sovrintendenza come tesoriere della Chiesa nel 1506.
G. badò inoltre a rafforzare il predominio familiare. Incoronato il 26 novembre 1503, tre giorni dopo creò cardinale, assieme ad altri tre personaggi, il nipote Galeotto Franciotti della Rovere, che ereditò la chiesa titolare dello zio (S. Pietro in Vincoli) e una serie impressionante di benefici. Altre creazioni cardinalizie avvennero nel 1505, 1507, 1508, 1511 e 1512 e ne beneficiarono Clemente e Leonardo Grosso della Rovere e infine Sisto Gara della Rovere. Poi combinò il matrimonio di giovani della sua famiglia (fra cui la figlia naturale Felice) con membri delle sino allora opposte famiglie romane degli Orsini e dei Colonna, i cui interessi venivano così ad essere legati al papato. Infine nel 1510 investì della Signoria di Pesaro il nipote Francesco Maria della Rovere, già duca d'Urbino, che inoltre protesse quando questi uccise nel 1511 il cardinale Francesco Alidosi, legato di Bologna.
Occorre infine ricordare alcune misure tese a ridurre il potere della feudalità romana, autorizzando fra l'altro, con una bolla del 1508, l'uso parziale da parte dei coloni di terre lasciate incolte da proprietari sia laici, sia ecclesiastici, e accogliendo talune istanze del ceto municipale romano a scapito di quello baronale. Anche se va detto che non erano sempre rispettate le attribuzioni e le competenze delle magistrature cittadine.
Agli inizi del 1506 il pontefice provvide a rinforzare, con l'aiuto finanziario di Agostino Chigi, le capacità militari della Chiesa allo scopo di recuperare Perugia e Bologna, venute rispettivamente in signoria dei Baglioni e dei Bentivoglio: come scrisse Machiavelli, "mostrò ad tutto el mondo el buono animo suo di volere ridurre le terre all'ubbidienza della Chiesa e purgarle da' tiranni" (Legazioni, p. 996). Fin dal gennaio fu creata una guardia di palazzo con milizie svizzere, alle quali si aggiunsero altre truppe della stessa origine a seconda della necessità. Il 26 agosto 1506 G. si allontanava da Roma, accompagnato da nove cardinali e oltre duemila armati fra cui cinquecento cavalieri. Passò per Civita Castellana, Viterbo, Montefiascone, Orvieto e Castiglione del Lago. Il 13 settembre entrò a Perugia, accolto solennemente da Giovan Paolo Baglioni, con il solo appoggio della scorta di circa centocinquanta soldati svizzeri (per cui Machiavelli contrappose "la temerità del papa" alla "viltà" del Baglioni, che in quell'occasione non aveva osato impadronirsi della persona del pontefice). Memore dei suoi studi universitari, il papa aumentò la dotazione annua dello Studio locale di 200 fiorini d'oro, che dovevano essere prelevati dalle casse della Camera apostolica perugina. La sosta fu di breve durata, in quanto già il 16 settembre G. era stato rassicurato dell'appoggio francese all'impresa di Bologna, mentre veniva garantita la neutralità della Repubblica di Venezia: il 22 settembre era perciò a Gubbio e il 24 ad Urbino. Il 1° ottobre si fermava nel convento di S. Croce fuori Cesena e il giorno successivo, accompagnato da ventidue cardinali e accolto solennemente dalla gioventù cesenate che portava le sue insegne, fece il suo ingresso trionfale in città sulla sedia gestatoria: passò sotto archi trionfali, per i quali la comunità aveva speso 200 ducati, mentre "5 chinee over cavalli bianchi coperti tutti de brochato d'oro fino in tera andavano innante a luj" (G. Fantaguzzi, p. 249).
Il 3 ottobre ricevette gli oratori bolognesi, i quali gli rammentarono i capitoli che Niccolò V aveva firmato con la città nel 1447 e che erano stati confermati dai successivi papi, e fecero presente - raccontò Machiavelli, che assistette all'incontro - "el politico vivere di quella città". G. ribatté che "se quello modo di vivere che la tiene li piacessi lo confermerebbe; se non gli piacessi, lo muterebbe" anche con la forza delle armi (Legazioni, pp. 1007-08). L'8 il papa entrò a Forlimpopoli, il 9 a Forlì, Castelbolognese e Castel San Pietro, sempre accompagnato dalle sue schiere in armi e dalla Corte pontificia. A Forlì ricevette Iacopo dal Gambaro, segretario di Giovanni Bentivoglio, che peraltro scacciò dalla sua presenza "tamquam zizaniarum dispositorem et malignum", come racconta il maestro delle cerimonie Paride Grassi. Intanto i funzionari della Curia si erano stabiliti nel municipio di Cesena "e lì improntavano el loro uficio a la romana consuetudine" (G. Fantaguzzi, p. 250). Inoltre i commissari apostolici definivano le paci fra le parti cesenati, nel tentativo di risolvere uno dei principali e perenni problemi della Legazione romagnola, quello delle faide locali, che avevano sino allora prodotto, come scrisse Machiavelli, "morte, ruberie, arsioni di case" (Legazioni, p. 1011).
L'11 ottobre il papa fulminò la scomunica contro Giovanni Bentivoglio, che rifiutava di cedere il suo potere, e l'interdetto contro Bologna, qualora si fosse rifiutata di tornare all'ubbidienza della Chiesa. Nello stesso tempo le truppe francesi si avvicinavano a Modena, mentre quelle papali conquistavano Castel San Pietro e Castelguelfo e depredavano il contado bolognese. Il 19 ottobre il papa entrò ad Imola; il 2 novembre Giovanni Bentivoglio fuggì da Bologna e l'11 G. fece il suo ingresso trionfale in città "e buttava per terra con le sue mane dopioni e ducati d'oro con la sua arma stampati" (G. Fantaguzzi, p. 253), per un valore totale, ci dice Paride Grassi, di 4.000 ducati. Secondo il giudizio del Guicciardini il papa, pur lasciando alla città "segni ed immagine di libertà […] la sottomesse del tutto al dominio della Chiesa" (Storia d'Italia VII, 1). Il Consiglio dei Sedici fu abolito e sostituito da un Senato di quaranta cittadini, appartenenti a famiglie patrizie, cui venne garantita una certa autonomia rispetto al legato pontificio.
La Corte pontificia con i cardinali e gli scrittori apostolici si stabilì in Bologna e vi trascorse l'inverno, nell'intento, come già a Cesena, di radicarvi le consuetudini della burocrazia pontificia. Il papa iniziò a far costruire una rocca in città (verrà distrutta dalla popolazione nel maggio 1511, durante il momentaneo ritorno dei Bentivoglio) e fece abbattere il palazzo e la torre dei Bentivoglio.
La riorganizzazione degli uffici amministrativi e giudiziari non era, però, completata quando il papa, il 12 febbraio, annunciò il suo prossimo rientro a Roma. Dieci giorni dopo G. uscì da Bologna, si recò a Imola, Codignola, Forlì, Cesena, Santarcangelo, Verrucchio e Urbino; poi, passando per Foligno e Viterbo, fece finalmente ritorno nella Città Eterna il 27 marzo 1507. Il giorno successivo, domenica delle Palme, si trasferì nel suo palazzo con un corteo trionfale che si ispirava direttamente a quelli della romanità ("mai foro fatti a papa tanti trionfi quanti foro fatti a papa Iulio", scrisse il cronista Tedallini [p. 310]). L'aiuto prestato dai Francesi fu pagato sia in denaro, sia con la nomina a cardinale di tre prelati d'Oltralpe, concessione quest'ultima particolarmente sgradita al pontefice. Anche per questo - nonché a causa della posizione del papa rispetto a Genova, che si era staccata dalla Francia - i rapporti fra Luigi XII e G. divennero piuttosto tesi, in particolare dopo il rifiuto del re, nel luglio 1507, di consegnare al papa i Bentivoglio rifugiatisi a Milano (ne vennero poi banditi e si spostarono in territorio veneziano, da dove inutilmente G. richiese che venissero espulsi). Ma questi problemi furono superati nel corso dell'inverno, quando andò profilandosi l'alleanza fra Massimiliano e il papa in funzione antiveneziana e l'armistizio fra Francia e Impero. Erano i prodromi della Lega di Cambrai, che fu stretta alla fine del 1508 fra i rappresentanti dell'imperatore e dei re di Francia, Spagna e Inghilterra. Il papa aderì alla Lega solo il 23 marzo 1509, nutrendo il disegno di trasformare l'alleanza in una crociata che gli avrebbe consentito di realizzare l'antico sogno di celebrare la messa in S. Sofia a Costantinopoli (per la crociata G. continuò ad accumulare fondi per tutta la sua vita, tanto che si disse che avrebbe lasciato 700.000 ducati da trasmettere direttamente al suo successore, perché realizzasse quest'obbiettivo). La Lega prevedeva fra l'altro la scomunica e l'interdetto su Venezia e il recupero da parte del papa dei possessi romagnoli. Il 7 aprile il papa ricevette l'offerta da Venezia della restituzione di Rimini e Faenza, ma la rifiutò e scagliò la scomunica contro Venezia, se quest'ultima non avesse reso tutti i possedimenti delle Romagne. Si giunse così alla battaglia di Agnadello (14 maggio 1509), nella quale l'esercito veneziano fu clamorosamente sconfitto, aprendo la strada alla perdita progressiva delle città di Terraferma. G. recuperò così Ravenna, Rimini, Cervia, Faenza, oltre a Russi, Brisighella, Meldola, Mercato Saraceno e altre località, e fece abbattere i simboli del potere marciano. A Ravenna la gente del papa "gettò via li coioni […] al lione di pedra era su la piazza" e successivamente l'abbatté (G. Fantaguzzi, p. 292).
Il 5 giugno il doge Loredan scrisse al papa una lettera "piena di viltà e di sommissione" (N. Machiavelli, Discorsi III, 31) volendo "cum omni humilitate et reverentia" dichiarare a G. l'obbedienza della Serenissima e l'"effectualem executionem a nobis datam in restituendis civitatibus et locis omnibus Romandiolae" (L. Beliardi, p. 5). Tale atto di umiliazione non fu giudicato sufficiente dal papa e gli ambasciatori veneziani furono da lui "desfati e maltratati: […] disseli che li faria amazar tutti e mangiare a li cani" (G. Fantaguzzi, p. 293).
Tuttavia la politica pontificia mutò nel giro di pochi mesi. G. identificò il proprio vero nemico nella Francia, preoccupato dal ruolo ora predominante di questa, e ricercò anche l'appoggio di Venezia. La domenica 4 febbraio 1510 il papa liberò i Veneziani dalla scomunica; il 15 febbraio vennero conclusi i negoziati di pace e il 24 si svolse una solenne cerimonia di assoluzione. Nel frattempo G., anche in seguito alle pressioni di Isabella d'Este, si adoperò per la liberazione di Gian Francesco II, marchese di Mantova, fatto prigioniero dai Veneziani durante la guerra. Si fece, però, consegnare in ostaggio il figlio decenne di questi, Federico, che rimase presso di lui sino alla morte del papa, condividendone la vita quotidiana e i divertimenti.
"Libertà dai barbari", cioè dai Francesi, fu il motto di G. negli anni successivi e significò innanzitutto, ben s'intende, libertà della Chiesa, nel dominio dei suoi Stati, dall'appoggio della Francia alle spinte centrifughe. Nei mesi successivi G. si dedicò nuovamente, impegnandosi in prima persona, alla riconferma del potere pontificio nei suoi territori. Nel marzo ottenne dai Cantoni svizzeri un accordo della durata di cinque anni, durante i quali essi promettevano di fornirgli le milizie necessarie. Nel giugno la tensione con la Francia andò salendo, tanto che nel mese successivo G. si impegnò nel tentativo di far ribellare Genova contro Luigi XII. Il 9 agosto fu inoltre scomunicato Alfonso I, duca di Ferrara, alleato dei Francesi, con il quale esistevano motivi di attrito non solo politici, ma anche economici a causa della concorrenza tra le saline di Comacchio e quelle di Cervia.
Successivamente alla dedizione di Modena, avvenuta pochi giorni dopo, l'8 settembre G. partì da Roma, animato da "quello spirito diabolico", come scrisse in quei giorni Machiavelli, che costantemente guidava il suo agire politico. L'11 era a Senigallia, poi a Rimini, Cesena, Forlimpopoli, Forlì, Faenza e Imola; infine entrò a Bologna domenica 22 settembre, dopo il vespro, "sollenissimamente con lo regno in testa e lo mante papale" (G. Fantaguzzi, p. 303). Nelle settimane seguenti si ammalò tuttavia gravemente, facendo temere per la sua vita; inoltre il 17 ottobre gli giunse la notizia che un gruppo di cardinali filofrancesi si era recato a Milano per preparare un concilio scismatico. Nel frattempo l'esercito francese, nel quale era anche il Bentivoglio, si trovava ormai alle porte di Bologna, ma il maltempo, la mancanza di approvvigionamenti, l'avvicinarsi delle milizie veneziane e spagnole e la reazione del popolo bolognese - che G. ricompensò con esenzioni fiscali - lo spinsero a retrocedere.
Lo spirito del papa rimaneva intatto nonostante la malattia e le avversità: i cronisti segnalano infatti come egli maltrattò aspramente gli ambasciatori ferraresi che avevano osato presentarglisi davanti. L'11 dicembre G. nominò il cardinale Marco Vigerio della Rovere legato delle truppe pontificie e il 29 dicembre dichiarò di voler partecipare personalmente alla conquista di Mirandola, fortezza di fondamentale importanza per il controllo dello Stato estense. Il 2 gennaio 1511 G., non ancora del tutto risanato, partì da Bologna in lettiga assieme alle sue truppe: "vederò, si averò sì grossi li coglioni come ha il re di Franza!" avrebbe esclamato il papa al momento della partenza, secondo il veneziano Gerolamo Lippomano che faceva parte del suo seguito (M. Sanuto, XI, col. 722). Sotto una neve fittissima giunse il 4 sotto il castello di San Felice, a cinque miglia da Mirandola, e poi, domenica 6, si accampò a mezzo miglio dalla rocca in una casa di contadini e successivamente nella cucina di un convento situato nei pressi. Poste le artiglierie sotto le mura, il 20 gennaio 1511 la rocca cadde e il pontefice vi entrò arrampicandosi con gran fatica su una scala a pioli, in quanto la porta era murata e il ponte abbattuto.
La fortezza venne consegnata al conte Giovanfrancesco Pico: nel contempo G. premé sul duca Alfonso e su Massimiliano per spingerli a sganciarsi dall'alleanza con Luigi XII e a questo fine restituì Modena agli Imperiali. Intanto si trasferì a Bologna, per raccogliere nuove truppe, e poi, nel febbraio 1511, nelle Romagne, per attaccare, senza successo, la fortezza estense di Bastia del Fasciolo. Né ebbe seguito il progetto del papa, formulato verso la fine di aprile, di neutralizzare le forze francesi aprendo gli argini del Po tra Sermide e Felonica. Il 14 maggio lasciò nuovamente Bologna, affidandone la difesa al duca d'Urbino e a suo nipote Francesco I della Rovere; ma per il probabile tradimento del legato Francesco Alidosi la città venne occupata il 23 maggio dalle truppe francesi, guidate da Giangiacomo Trivulzio, e riportata sotto la signoria dei Bentivoglio. Immediatamente i segni del potere pontificio furono cancellati. Anche la grande statua di bronzo raffigurante il pontefice, opera di Michelangelo che l'aveva ultimata nel febbraio 1508, venne abbattuta e fatta a pezzi il 30 dicembre; la testa, dopo essere stata fatta rotolare per piazza Maggiore, fu inviata ad Alfonso d'Este con gli altri frammenti che vennero fusi per trarne un cannone detto "la Giulia". Significativamente la statua fu sostituita da un'immagine raffigurante Dio Padre con una scritta che alludeva all'esclusività della sovranità divina.
Il papa, che si trovava a Ravenna, si trasferì a Rimini, dove lo raggiunse la citazione dei cardinali filofrancesi ad un concilio che si sarebbe dovuto aprire a Pisa nel settembre. Il concilio era naturalmente in chiave antipontificia, adducendo l'intenzione di muovere la crociata al Turco e riformare la Chiesa. Nel frattempo contro G. veniva organizzata da posizioni vicine al re di Francia un'intensa propaganda basata su immagini, satire e rappresentazioni teatrali.
Il 3 giugno 1511 il papa lasciava Rimini per Roma, dove giunse il 26 giugno passando per Ancona, Foligno e Terni. Il 25 luglio fu proclamata, con la data del 18, una bolla che indiceva un concilio a Roma per il 19 aprile 1512 allo scopo di mantenere l'unità ecclesiastica. G. dichiarava non valido l'editto di convocazione del concilio pisano e scagliava l'interdetto contro Pisa e, il 23 settembre 1511 (dopo una precedente ammonizione del 7), contro Firenze, che aveva concesso di tenere il concilio stesso nella città sua suddita. Il 24 ottobre i cardinali Guillaume Briçonnet, Bernardino Carvajal, Francesco Borja e René de Prie, che avevano indetto il concilio pisano, furono scomunicati. L'apertura del concilio di Pisa il 5 novembre non ebbe il successo sperato dai suoi fautori, che decisero, dopo le prime tre riunioni, di trasferire le successive a Milano; il che avvenne nonostante una diffida di G. del 3 dicembre 1511.
Nel corso dell'estate il papa aveva lavorato attivamente alla costruzione di una lega con Venezia, Spagna e Inghilterra in funzione antifrancese. I contatti in tal senso furono, però, interrotti in agosto da una grave malattia del pontefice, che sembrò in punto di morte, tanto da fare iniziare i preparativi per un futuro conclave. Invece le condizioni di G. migliorarono improvvisamente e il 28 agosto era sulla via della guarigione: poteva quindi proseguire nella sua azione contro il concilio di Pisa e contro la Francia. Il 5 ottobre 1511 fu proclamata la Lega Santa con la Spagna e Venezia (cui si sarebbe unito nel novembre Enrico VIII d'Inghilterra), dando come pretesto la volontà di riconquistare Bologna (ove il 1° ottobre era stato nominato legato il cardinale Giovanni de' Medici) ai Bentivoglio.
Nel gennaio 1512 G. attribuì il titolo di legato per la Lombardia e la Germania al cardinal Matthaeus Schinner, che avrebbe dovuto guidare l'esercito pontificio e quindi, con l'apporto dell'imperatore, degli Svizzeri e degli altri alleati, riconquistare Bologna e Ferrara. Il 26 gennaio l'esercito spagnolo e pontificio guidato da Raimondo di Cardona era alle porte di Bologna; ma già il 5 febbraio Gastone di Foix, comandante delle truppe francesi, liberò la città dall'assedio e vi poté entrare. Dopo avere conquistato e saccheggiato Brescia il 18 febbraio, Gastone di Foix si diresse su Ravenna, dove giunse agli inizi di aprile e dove fu intercettato da Raimondo di Cardona. L'11 aprile 1512 i due eserciti si scontrarono sotto le mura ravennati; dalla battaglia, che si rivelò un massacro terrificante, uscirono vincitori i Francesi, ma a prezzo della perdita di numerosissimi capitani e dello stesso Gastone di Foix.
Le lettere da Roma del cardinal Bernardo Dovizi da Bibbiena, consigliere del cardinal de' Medici, testimoniano la drammatica situazione, in cui si trovò G., e mostrano l'alternarsi di furia e avvilimento nel vecchio pontefice: "In questa sede non fu forse mai la maggiore bestia di costui […] quanto più costui invecchia più impaza"; "éssi levato in tucto la barba e parmi più vecchio per questa raditura la metà" (C. Dionisotti, pp. 163, 168). I progetti del pontefice rimasero tuttavia immutati (il papa, scrissero allora i Dieci a Francesco Guicciardini, era tornato alle "speranze vecchie"), come si può cogliere da una moneta che fece allora coniare, sulla quale era raffigurato a cavallo, nell'atto di calpestare le armi di Francia e brandendo una frusta con la quale cacciava i barbari prostrati.
Il 21 aprile 1512 il concilio filofrancese riunito a Milano sospese G. dal governo spirituale e temporale; ma già il 3 maggio il papa rispondeva inaugurando il concilio Lateranense V alla presenza di sedici cardinali, settanta vescovi e una trentina di altri prelati. L'orazione di apertura fu tenuta da Egidio da Viterbo, che stigmatizzò la decadenza morale della Chiesa e il suo essersi affidata più alle armi che alla fede, incorrendo così nel castigo divino, la cui prima manifestazione era stata la sconfitta di Ravenna. Le sedute successive dichiararono illegittimo il concilio pisano-milanese, che il 4 giugno si trasferì ad Asti e in seguito a Lione. Intanto affluivano in Italia in appoggio al papa le milizie dei Cantoni svizzeri e contemporaneamente aumentavano le difficoltà dell'esercito francese. Il papa poté così recuperare Ravenna, Faenza, Imola e Forlì. Bologna, da cui fuggirono definitivamente i Bentivoglio, fu ripresa il 13 giugno dal duca d'Urbino in nome della Chiesa. I Francesi erano costretti a ritirarsi e alla fine del mese ripassavano le Alpi. Nel luglio 1512 le truppe pontificie conquistarono Reggio durante l'assenza del duca Alfonso d'Este, venuto a Roma con salvacondotto papale per ottenere la remissione della scomunica in cui era incorso. Nell'ottobre Parma e Piacenza furono staccate dal Ducato di Milano, con sconcerto dell'imperatore Massimiliano, e incorporate allo Stato della Chiesa. Infine il papa restituì alla comunità modenese i mulini della Bastia, sottratti in passato alla città dagli Estensi.
Durante il mese di settembre i Medici erano rientrati a Firenze grazie al peso, fattosi ormai determinante, della forza militare della Chiesa e soprattutto della Spagna. Il 19 novembre il papa, preoccupato dell'aumentato potere di quest'ultima - che a sua volta temeva le mire di ampliamento territoriale del pontefice, come lo stesso re Ferdinando d'Aragona aveva dichiarato in agosto a Guicciardini - firmò un accordo con Massimiliano. Questi cedeva a G. Modena e Reggio e riconosceva il concilio Lateranense contro quello scismatico, in cambio dell'appoggio alle proprie pretese contro Venezia.
La situazione appariva ancora favorevole al pontefice, senonché le sue condizioni fisiche andavano irrimediabilmente declinando. Egli si preoccupò quindi di sistemare gli affari di famiglia. Il 10 gennaio 1513 assolse con breve pontificio il nipote Francesco Maria, che deteneva la rocca di Pesaro, da tutti gli omicidi, furti e stragi commessi, come lo aveva già assolto il 5 dicembre del 1511 dall'omicidio del cardinale Francesco Alidosi, legato apostolico a Bologna. Sul letto di morte G. investì il nipote della Signoria di Pesaro e nella notte tra il 20 e il 21 febbraio 1513, presumibilmente nelle prime ore del mattino ("la nocte de la domenica venendo al lunedì a hore septe", corrispondenti circa all'una del mattino: L. Beliardi, p. 34) "[...] morì in santo Pietro, cioè nel palazzo ponteficale di Roma, come Pastore della santa Chiesa" (Ricordanze di Bartolomeo Masi, p. 118). Fu sepolto in S. Pietro nella cappella di papa Sisto IV, dove erano già le spoglie di "dua cardinali e quali furno nipoti del sopradetto papa Julio e da lui furno fatti cardinali" (ibid.). La morte del papa fu accompagnata da un turbine di vento che ai cronisti contemporanei parve un segno prodigioso ("un terribile vento fora de natura": L. Beliardi, p. 34) e quasi il simbolo della sua personalità irruente.
Le reazioni alla sua morte rivelano l'ambivalente giudizio dei contemporanei, ammirati della sua "politica prepotente e fortunata" (C. Dionisotti, p. 219) e della sua energia indomabile, ma anche scandalizzati dalle modalità con le quali essa si esprimeva. "Morto è quel che da Franza / ha Italia liberata / morto è quel che ha voltato / tutto il mondo a suo piacere", recitava un componimento anonimo in versi, che fu stampato in quei giorni. Un altro anonimo immaginava per la tomba del pontefice questa durissima epigrafe: "Qui dentro chiuse son l'ossa e le polpe / del gran prete crudel Iulio secondo; / l'alma dannata per sue proprie colpe / già dell'Inferno è chiusa nel profondo". L'immagine negativa del "papa in armatura" avrà largo spazio nei testi e nell'iconografia della propaganda riformata e trovò la sua espressione più celebre nel dialogo erasmiano Julius de coelis exclusus, apparso anonimo agli inizi del 1517 in varie città europee, ma la cui stesura sarebbe avvenuta a Cambridge alla fine del 1513 o agli inizi del 1514. Questa immagine circolava già durante la vita del papa (una lode alla Vergine cantata a Bologna durante una processione, nel febbraio 1512, invocava: "Il Pastor lassi la lanza / e la verga in man repigli") ed ebbe un riscontro, dopo la sua morte, anche nella politica internazionale, come emerge dalle considerazioni riportate da Guicciardini sull'opportunità che a G. succedesse "uno uomo buono e che avessi tanto interesse nel buono essere di Italia che gli avessi causa di pensare a conservarla e non a fare di nuove revoluzione" (Carteggi, p. 151).
La figura di G. è, a tutti gli effetti, quella di un principe dell'Italia rinascimentale, capace di "pigliare la golpe e il lione", per usare la metafora di Machiavelli, senza, però, che alla grandezza della sua personalità contribuisse una qualche comprensione della crisi religiosa che andava maturando in Europa (e per questo anche il concilio Lateranense V, da lui aperto nel 1512, nelle riunioni tenute durante la sua vita ebbe un significato esclusivamente politico, di opposizione al "conciliabolo pisano" e alla Francia). Esperto diplomatico e uomo d'armi, personalità traboccante di energia, G., come scriveva - peraltro a posteriori - Machiavelli nel Principe, "procedé in ogni sua cosa impetuosamente; e trovò tanto e tempi e le cose conformi a quello suo modo di procedere, che sempre sortì felice fine" (cap. 25). Egli seppe in realtà inserirsi con capacità direttive negli intrecci della politica europea dell'epoca, controllando allo stesso tempo con abilità i rapporti con le forze interne allo Stato della Chiesa e cercando "in primo luogo l'accordo con la maggioranza delle oligarchie prevalenti nelle varie terre pontificie" (M. Caravale-A. Caracciolo, p. 172): caratteristici in questo senso i rapporti con Bologna, dove egli seppe bilanciare abilmente le concessioni alle tradizioni di autonomia locale e il recupero sostanziale del dominio pontificio sulla città.
Esemplare di questa figura di sovrano del Rinascimento è altresì lo splendido mecenatismo. Già da cardinale aveva acquisito e collocato nel giardino del suo palazzo l'Apollo poi detto del Belvedere, poiché divenuto papa lo fece trasportare in tale settore dei Palazzi Vaticani. In questi ultimi, mostrandosi esperto intenditore di antichità, fece sistemare anche altre statue da lui acquistate, fra cui soprattutto il Laocoonte, scoperto nel 1506, e poi l'Ercole e Telefo e l'Arianna sdraiata. Si interessò anche di altre arti e già nel 1484 aveva trattato con la famiglia Gonzaga per far venire a Roma Andrea Mantegna. Soltanto dopo l'assunzione al pontificato poté, però, manifestare appieno la grandiosità delle sue vedute. In primo luogo con il progetto urbanistico che prevedeva l'apertura di una nuova via - la via Giulia - interrotta da una grande piazza su cui sarebbe stato eretto un nuovo palazzo destinato all'esercizio della giustizia, che in tal modo avrebbe spostato il baricentro della città verso la zona dei Palazzi Vaticani. Poi con la decisione di ricostruire S. Pietro, presa probabilmente nel 1505, e con l'affidamento dei lavori a Bramante, che fornì un progetto di eccezionale grandiosità. Nel 1506 cominciarono i lavori di demolizione, mentre nel 1507 ebbe inizio la costruzione vera e propria: "la ecclesia de San Piero a Roma questo anno [1507] papa Julio comenzò a farli una fabrica grandissima superba e dignissima quella ampliando de admirandi pilastri e volte mirabille e de spesa inaudita" (G. Fantaguzzi, p. 268). Gli interventi si susseguirono a fasi alterne, anche perché il Bramante tentò di ottenere il permesso di spostare la stessa tomba di Pietro, ma il pontefice si oppose, come racconta Egidio da Viterbo (Historia viginti seculorum, in Roma, Biblioteca Angelica, ms. C-8-19, c. 245). Dati i costi, G. indisse un giubileo per raccogliere fondi, e riservò alla fabbrica di S. Pietro le entrate del santuario di Loreto, ma già nel 1505 le aveva destinato l'eredità di Monserati de Guda e nel 1506 si era rivolto al re e all'aristocrazia inglese chiedendo ulteriori aiuti. Nel 1508 tentò invece invano di avere la quarta parte della decima concessa al re di Spagna. A più riprese inoltre decretò che chi avesse inviato un contributo, avrebbe ottenuto l'indulgenza (bolle del 12 febbraio e del 4 novembre 1507) e non dimenticò mai le necessità per la ricostruzione della basilica, anche quando la congiuntura militare lo spingeva verso altre priorità. Alla sua morte la fabbrica aveva assorbito una cifra indubbiamente superiore ai 70.000 ducati d'oro ed erano già stati innalzati i quattro pilastri e i relativi archi che avrebbero sostenuto la cupola.
Il Bramante intervenne anche nella ristrutturazione del Palazzo Vaticano. Analogamente a quanto ideato per la basilica, l'architetto aveva immaginato anche qui un rifacimento totale. La morte del papa arrestò il progetto, ma nel frattempo il Bramante aveva già attuato interventi importanti, come la costruzione del cortile di S. Damaso. Inoltre aveva iniziato a collegare l'antico palazzo al Belvedere, pure nel quale contemporaneamente si intervenne. Nel frattempo G. aveva commissionato a Michelangelo la grande statua di bronzo che lo raffigurava, eretta a Bologna nel 1508, e il proprio monumento funebre, che "di bellezza, di superbia e di invenzione passasse ogni antica imperiale sepoltura" (G. Vasari, p. 890). Il monumento rimase tuttavia interrotto per l'affidamento, nello stesso 1508, del soffitto della Cappella Sistina, per il quale il pittore ricevette nel maggio un acconto di 500 ducati sui 3.000 promessi (poi saliti a 6.000). Il lavoro era concluso nell'ottobre 1512, quando l'artista riprese a lavorare al monumento funebre di G., peraltro mai completato. Altro grande artista chiamato a Roma fu Andrea Sansovino, cui fu affidato l'incarico di costruire in S. Maria del Popolo due grandi monumenti funebri (ad Ascanio Sforza e a Girolamo Basso della Rovere) terminati nel 1509. Quella chiesa era particolarmente cara al pontefice e così ebbe numerosi abbellimenti, tra i quali l'ampliamento della cappella del coro ad opera del Bramante, cappella successivamente affrescata dal Pinturicchio. In quegli anni nei Palazzi Vaticani avevano lavorato numerosi pittori di gran nome, fra cui il Perugino, il Pinturicchio e Lorenzo Lotto; ma nel 1508 G. li aveva allontanati, affidando al solo Raffaello la decorazione del suo appartamento, probabilmente secondo progetti da lui stesso elaborati. La stanza della Segnatura - che avrebbe dovuto essere la biblioteca personale del pontefice - fu completata nel 1511, quella di Eliodoro fu compiuta tra il 1512 e il 1514, mentre l'ultima (dell'Incendio di Borgo) è prevalentemente opera di aiuti. Infine G. affidò a Raffaello il proprio ritratto, destinato al solito a S. Maria del Popolo, "tanto vivo e verace, che faceva temere [...] a vederlo, come se proprio egli fosse il vivo" (G. Vasari, p. 621): ed è questa l'immagine con la quale il suo volto ci è rimasto definitivamente noto.
Un capitolo a parte meriterebbero gli interventi nella città abitata. Si è già menzionato l'intervento per la via Giulia, ma il pontefice contribuì, assieme ad alcuni cardinali, pure al compimento della via Alessandrina, inoltre favorì l'abbellimento della via che conduceva al Laterano, della via S. Celso (concorse anche assieme ai Fugger all'edificazione di una zecca al posto dell'antica omonima chiesa) e di quella S. Lucia, nonché di alcune piazze. Infine prese cura di interventi e restauri in S. Maria Maggiore, S. Pietro in Vincoli, S. Biagio della Pagnotta e SS. Apostoli.
La sua attenzione a Roma lo portò a volgersi anche ai problemi dell'ordine pubblico. La città fu pacificata e soprattutto attentamente pattugliata. Gli Svizzeri (prima centocinquanta e poi duecento), che costituivano la guardia di palazzo, divennero il nucleo centrale di una forza militare urbana attorno alla quale poteva schierarsi una milizia più ampia. Il pontefice si preoccupò inoltre di definire meglio le competenze dei giudici capitolini in merito alle controversie cittadine. Infine le deliberazioni a carattere economico di cui si è già parlato avevano anche un risvolto che favoriva una maggiore tranquillità. Oltremodo proficua fu l'introduzione di un Monte di Pietà, mentre fu altrettanto funzionale lo scorporo dell'Annona dall'amministrazione camerale e l'istituzione di un'apposita prefettura, che si preoccupava dell'approvvigionamento cittadino. A tal scopo fu inoltre creato l'ufficio venale degli agenti per la provvigione delle granaglie. Gli interessi militari spinsero il papa anche a restaurare le fortezze dello Stato della Chiesa: furono così ristrutturate quelle di Bologna, Civitavecchia, Civita Castellana, Forlì, Imola, Montefiascone, Ostia e Viterbo. Naturalmente intervenne anche in Roma, a Castel S. Angelo e su vari tratti delle mura aureliane, oltre che preoccuparsi della ristrutturazione della rete idrica con il raccomodamento dell'Acqua Vergine e la costruzione di un acquedotto da S. Antonio al Vaticano. Edificò infine il ponte di Orvieto, che prese il suo nome; concorse alla fabbrica della locale cattedrale e di quella perugina, nonché di varie chiese a Bologna, Corneto, Ferrara e Toscanella; ampliò il santuario di Loreto, cui era interessato sin dal cardinalato.
Un altro capitolo controverso è quello del rapporto del nuovo pontefice con il mondo culturale romano e con gli umanisti in genere. Alla notizia dell'elezione di G. gli umanisti di tutta la penisola riversarono poesie d'omaggio sulla Santa Sede. Il livello dei componimenti inviati da Giovanni Aurelio Augurello, Marcantonio Casanova, Lancino Corte, Pomponio Gaurico e Antonio Mancinelli non era forse eccelso, ma in ogni caso rivelavano quanto i loro autori si aspettassero dal neoeletto. Senonché questi non aveva la cultura letteraria dello zio Sisto IV e soprattutto sembrava lontano dal praticare o dall'amare una qualsiasi forma di eloquenza. L. von Pastor riporta al proposito l'aneddoto di Paride Grassi sul papa "mezzo morto" di paura ogni volta che doveva parlare in pubblico.
Non protesse quindi, né predilesse in modo particolare i letterati, nonostante l'importanza di alcuni circoli letterari romani, e si preoccupò casomai degli aspetti più pratici della cultura del suo tempo. In primo luogo, per esempio, curò o approvò il potenziamento delle Università di Lisbona, Siviglia, Perugia e Roma. Per quest'ultima in particolare fece proseguire la ristrutturazione dell'edificio ed emanò una bolla nel 1512 che confermava le antiche costituzioni; inoltre proibì espressamente che fossero usate per altro scopo le somme ad essa destinate. Sembra che a lui si debba anche la scelta di Tommaso de Vio, quale docente di teologia, e di Ludovico Bolognini, Giovanni Gozzadini e Marco Vigerio, quali docenti di diritto; all'ultimo dei tre conferì la porpora cardinalizia nel 1505. In secondo luogo si interessò dello sviluppo di alcune biblioteche. Impose una maggiore precauzione nell'utilizzo dei testi della Biblioteca Vaticana e dei documenti dell'Archivio. Ordinò che fossero restaurate e ornate di pitture le biblioteche di S. Pietro in Vincoli e dei SS. Apostoli. Possedette lui stesso una biblioteca contenente circa duecento manoscritti, iniziata quando era ancora cardinale: la lista delle opere ribadisce lo scarso interesse per la letteratura a lui contemporanea: la maggior parte dei codici conteneva infatti classici latini e greci (questi ultimi in traduzione latina) o trattati di teologia e di diritto canonico. In terzo luogo, almeno dal 1508, G. protesse Paolo di Middelburgo, vescovo di Fossombrone, e ne appoggiò la campagna per la riforma del calendario, anche se non promosse quel concilio che il prelato chiedeva al fine di risolvere la questione. Non tutti gli umanisti furono comunque tenuti lontani da G.; almeno uno, Sigismondo de' Conti, godette sempre del suo favore. Lo storico folignate era infatti da molto tempo legato alla sua famiglia ed era stato segretario di G., quando questi, ancora cardinale, era stato destinato alla Legazione nei Paesi Bassi. Sigismondo fu quindi segretario particolare del pontefice sino alla propria morte il 18 febbraio 1512 e firmò anche alcune bolle pontificie (B.A.V., Vat.lat. 7148, cc. 17-20; 7168, cc. 361-63). Dal 1503 al 1512 Sigismondo de' Conti risiedette nel Palazzo Vaticano, a stretto contatto con il pontefice, e fu di certo una delle vie principali per giungere a lui. Fu tramite dell'ascesa di Raffaello, che lo ricordò nella Madonna commissionatagli per Foligno, e tenne i contatti con Jacopo Sadoleto, che dal papa ricevette un canonicato a S. Lorenzo (sembra, però, su raccomandazione del cardinale Oliviero Carafa), e di Pietro Bembo, favorito anche dal cardinal nipote Galeotto della Rovere. Grazie a questo gruppo, nonché all'opera di alcuni principi della Chiesa, il pontefice non disdegnò di ascoltare saltuariamente la produzione umanistica, anche quando questa sembrava contravvenire alla tradizione della Chiesa. Erasmo da Rotterdam ricorda nel Ciceronianus di aver sentito un'orazione, pronunciata al cospetto del papa, nella quale quest'ultimo era addirittura paragonato a Giove ottimo massimo. Il già citato Paride Grassi lamentava a sua volta che in talune occasioni fossero premiati poeti o tragediografi inclini a imitare oltre misura gli autori "pagani".
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