Giulio II
Giuliano Della Rovere, nato ad Albisola, presso Savona, il 5 dicembre 1443 da Raffaello e Teodora di Giovanni Manirola, entrò nell’ordine francescano sotto la protezione dello zio Francesco Della Rovere che lo inviò a Perugia per seguire gli studi giuridici. L’elezione dello zio al soglio pontificio come Sisto IV, avvenuta il 9 agosto 1471, gli consentì di compiere una folgorante carriera ecclesiastica: il 16 ottobre di quello stesso anno fu nominato arcivescovo di Carpentras e legato d’Avignone e il 15 dicembre cardinale di S. Pietro in Vincoli. Divenne inoltre vescovo di Losanna, arcivescovo di Avignone e di altre diocesi francesi. Dal 1483 al 1502 fu vescovo di Bologna e dal 1502 al 1503 guidò la diocesi di Vercelli. Nominato legato della Marca d’Ancona nel 1473, nel giugno 1474 Giuliano fu posto dal papa a capo di una spedizione militare per ricondurre le ribelli Todi e Spoleto all’obbedienza dello Stato della Chiesa e assediò Città di Castello, spegnendone la sedizione. Il 15 luglio 1476 ottenne il prestigioso vescovato di Coutances. Una volta rinvigorita l’autorità pontificia sul Contado Venassino (regione di Avignone), nel settembre del 1476 Giuliano lasciò Avignone e rientrò in Italia. A partire dal 1480 creò un dominio personale nel monastero di Grottaferrata, che deteneva a titolo commendatizio.
Prima dell’elezione al papato, avvenuta il 1° novembre 1503, Giuliano partecipò con un ruolo di primo piano a tre diversi conclavi: quello del 1482, convocato dopo la morte di Sisto IV (12 agosto 1484), che portò all’elezione di Innocenzo VIII (dove Giuliano riversò strategicamente sul futuro eletto, Giovanni Battista Cibo, i voti da lui controllati); il conclave seguìto alla morte di Innocenzo VIII, avvenuta il 25 luglio 1492, da cui uscì papa Alessandro VI (in questo caso Giuliano, pur avendo l’appoggio della Francia e del re Ferdinando di Napoli, venne sconfitto dall’abile compravendita di voti di Rodrigo Borgia); il conclave che elesse il 22 settembre 1503 papa – con il nome di Pio III – Francesco Todeschini-Piccolomini (voluto fortemente da Giuliano in chiave antifrancese, contro la candidatura del cardinale Georges d’Amboise) destinato però a un regno di soli ventisei giorni.
Durante il pontificato di Innocenzo VIII, proprio per le modalità che avevano portato all’elezione del cardinale Cibo, il ruolo di Giuliano fu di grandissima rilevanza, e si accrebbe con la nomina del fratello Giovanni, già prefetto di Roma, alla carica di capitano generale della Chiesa. Negli anni del pontificato di Alessandro VI, Giuliano visse spesso nella fortezza di Ostia, da cui usciva solo sotto scorta armata. Evento fondamentale di quegli anni fu l’incontro a Lione, nell’aprile 1494, con Carlo VIII e gli inviati di Milano e Venezia che stavano trattando le modalità dell’intervento francese in Italia. Agli inizi di settembre, quando Carlo VIII varcò la frontiera verso l’Italia, Giuliano era al suo fianco e lo accompagnò fino a Roma, dove entrarono il 31 dicembre. La speranza (andata delusa) di Giuliano era che il sovrano convocasse un concilio per deporre Alessandro VI, al quale, al contrario, il re fece atto di obbedienza. Il 28 ottobre 1498, in un periodo di momentanea rappacificazione con la famiglia Borgia che comportò la restituzione dei benefici perduti, Giuliano accolse solennemente in Avignone Cesare Borgia sulla via della Francia, dove questi intendeva prendere possesso del ducato di Valentinois concessogli da Luigi XII. Nel corso dell’inverno addirittura Giuliano si impegnò nelle trattative per il matrimonio tra il duca Valentino e Carlotta d’Albret e nella stipulazione dell’accordo tra Venezia e Luigi XII per la spedizione contro il ducato di Milano.
Nel 1500 Giuliano ricevette da Alessandro VI la concessione dell’abbazia di Chiaravalle in cambio del suo appoggio alla politica del Valentino che stava costituendo uno Stato nell’Italia centrale. La posizione roveresca si complicò con la conquista da parte di Cesare Borgia del ducato di Urbino, fino allora tenuto da Guidubaldo da Montefeltro, imparentato con Giuliano. Inoltre l’opposizione di Giuliano al trasferimento della dote dei castelli di Cento e di Pieve di Cento per le nozze di Lucrezia Borgia con Alfonso d’Este fu un altro motivo di attrito con i Borgia.
Il 1° novembre 1503, poche settimane dopo la morte di Pio III, il cardinale Giuliano Della Rovere fu finalmente eletto papa a larghissima maggioranza, anche con l’appoggio dei cardinali spagnoli fedeli ai Borgia. I buoni rapporti con Cesare Borgia, tuttavia, non durarono a lungo: il 2 dicembre 1503 Cesena e le altre città conquistate dal Valentino rientrarono in possesso del papa; negli stessi giorni il Borgia fu arrestato e rinchiuso in Castel Sant’Angelo, e l’uomo di fiducia del Valentino, don Micheletto, imprigionato nei pressi di Cortona, fu condotto a Roma e consegnato, il 9 gennaio 1504, al papa.
L’obiettivo primario di G. era il recupero delle terre della Romagna occupate dai veneziani nei giorni della sua incoronazione. La politica di G. era funzionale al suo disegno di consolidamento dello Stato della Chiesa: a tal fine egli emanò una serie di provvedimenti amministrativi e finanziari, oltre all’avvio di una sorprendente politica matrimoniale tra giovani della sua famiglia, compresa la figlia naturale Felice, e membri delle rivali famiglie romane degli Orsini e dei Colonna, i cui destini venivano così legati al papato.
Agli inizi del 1506 G. decise con la massima determinazione di recuperare Perugia e Bologna, allora sotto la signoria di fatto, rispettivamente, dei Baglioni e dei Bentivoglio. Il 13 settembre 1506 G. entrò in Perugia quasi disarmato, con il solo appoggio della scorta, formata da circa centocinquanta soldati svizzeri, e fu accolto solennemente da Giampaolo Baglioni. Il 2 ottobre 1506 G. fece il suo ingresso trionfale a Cesena. L’11 ottobre il papa lanciò la scomunica contro Giovanni Bentivoglio e l’interdetto contro Bologna; intanto le truppe francesi si avvicinavano a Modena mentre quelle del papa conquistavano e depredavano il contado bolognese. Il 19 ottobre G. entrò a Imola e il 2 novembre Giovanni Bentivoglio fuggì da Bologna. L’11 novembre G. entrò trionfalmente in città. Secondo Francesco Guicciardini il papa, pur lasciando alla città «segni ed immagine di libertà […], la sottomesse del tutto al dominio della Chiesa» (Storia d’Italia VII i). L’aiuto prestato dai francesi nell’occasione fu pagato in denaro e con l’elevazione al cardinalato di tre francesi. Anche per tale ragione – e a causa della posizione del papa rispetto a Genova, staccatasi dalla Francia – i rapporti tra Luigi XII e G. divennero tesi, in particolare dopo il rifiuto del re, nel luglio del 1507, di consegnare al papa i Bentivoglio, rifugiatisi a Milano. Questi problemi furono superati nel corso dell’inverno, quando andò profilandosi l’alleanza tra Massimiliano I d’Asburgo e il papa in funzione antiveneziana e un armistizio tra Francia e impero. Venne così stipulata il 10 dicembre 1508 la lega di Cambrai contro Venezia tra Massimiliano I, Luigi XII, Ferdinando il Cattolico, G., il duca di Ferrara, il duca di Savoia e il marchese di Mantova.
La lega prevedeva, tra l’altro, la scomunica e l’interdetto su Venezia e il recupero dei possessi romagnoli allo Stato pontificio. Il 7 aprile 1509 G. ricevette l’offerta veneziana della restituzione di Rimini e Faenza, ma la rifiutò e scagliò la scomunica contro Venezia se questa non avesse reso tutti i possedimenti della Romagna. Si giunse così alla battaglia di Agnadello (14 maggio 1509) che vide una clamorosa sconfitta dell’esercito veneziano.
Nell’arco di alcuni mesi la politica di G. subì un capovolgimento, a favore di Venezia e contro la Francia, il cui predominio in Italia preoccupava sempre di più il papa. Nei primi mesi del 1510 G. si dedicò al consolidamento del potere pontificio nei suoi territori, e a marzo ottenne dai Cantoni svizzeri un accordo quinquennale per il rifornimento delle milizie necessarie. A giugno la tensione con la Francia subì un’impennata, tanto che nel mese successivo G. provò a sobillare Genova contro Luigi XII. Il 9 agosto fu scomunicato il duca di Ferrara Alfonso I d’Este, alleato dei francesi. Nel frattempo l’esercito francese, del quale faceva parte Giovanni Bentivoglio, si trovava ormai nei pressi di Bologna, ma G. preferì retrocedere. Lo spirito combattivo di G. rimaneva in ogni caso intatto. Il 2 gennaio 1511, pur convalescente, partì da Bologna in lettiga insieme con le sue truppe: «vederò, si averò sì grossi li coglioni come ha il re di Franza!», avrebbe esclamato al momento della partenza secondo il veneziano Gerolamo Lippomano, che faceva parte del seguito papale (così come riferito da M. Sanudo nell’11° vol. dei suoi Diarii, a cura di R. Fulin et al., 1886, col. 722). Il 20 gennaio, dopo giorni di assedio sotto le mura, entrò a Mirandola arrampicandosi con gran fatica su una scala a pioli, in quanto la porta era murata e il ponte abbattuto, dimostrando un indistruttibile vigore.
In primavera G. si trasferì a Rimini, dove ebbe notizia di un concilio antipontificio che si sarebbe dovuto aprire a Pisa nel settembre, convocato da cardinali francesi con l’intenzione di muovere la crociata e riformare la Chiesa. Il 18 luglio, per reazione alla sfida dei cardinali ribelli, fu emanata una bolla che indiceva per l’anno successivo un concilio generale a Roma. Inoltre, l’editto di convocazione del concilio pisano organizzato dai francesi fu dichiarato non valido e fu pronunciato l’interdetto contro Pisa (il concilio pisano, che si aprì poi il 5 novembre, denunciò i costumi corrotti di G., ma non ebbe il successo sperato, e dopo le prime riunioni si trasferì a Milano).
Nel corso dell’estate il papa lavorò attivamente alla costruzione di un’alleanza con Venezia, Spagna e Inghilterra in funzione antifrancese. L’azione fu però interrotta nell’agosto da una grave malattia (probabilmente sifilide) che sembrò condurlo alla morte, ma dalla quale improvvisamente si riprese (come già accaduto in passato): il 28 agosto era sulla via della guarigione e poteva proseguire nella sua politica ostile al concilio di Pisa e alla Francia. Il 4 ottobre fu stipulata la lega Santa fra il papa, Venezia, Ferdinando il Cattolico e – dal 17 novembre – Enrico VIII d’Inghilterra contro la Francia.
Ma le cose volsero al peggio per l’esercito spagnolo-pontificio: il 5 febbraio 1512 Gaston de Foix, comandante delle truppe francesi, liberò Bologna dall’assedio ed entrò in città. L’11 aprile i due eserciti si scontrarono sotto le mura di Ravenna: i francesi uscirono vincitori contro le truppe di Ramón de Cardona, comandante della lega Santa, pur se a prezzo della morte dello stesso Foix.
Il 21 aprile il concilio filofrancese riunito a Milano sospese G. dal governo spirituale e temporale, ma già il 3 maggio il papa rispondeva aprendo il concilio Lateranense V alla presenza di 16 cardinali, 70 vescovi e una trentina di altri prelati. L’orazione di apertura fu tenuta da Egidio da Viterbo che stigmatizzava duramente la decadenza morale della Chiesa e l’essersi affidata più alle armi che alla fede, incorrendo così nel castigo divino, la cui prima manifestazione era stata la sconfitta di Ravenna. Nelle sedute successive fu dichiarato illegittimo il concilio pisano-milanese, che il 4 giugno si trasferì ad Asti e infine a Lione.
In appoggio al papa intanto affluivano in Italia le milizie dei Cantoni svizzeri e contemporaneamente aumentavano le difficoltà dell’esercito francese. Il papa poté così recuperare Ravenna, Faenza, Imola e Forlì; Bologna, da cui fuggirono definitivamente i Bentivoglio, scomunicati dal papa, fu ripresa il 13 giugno dal duca di Urbino in nome della Chiesa.
Nel luglio le truppe pontificie conquistarono Reggio nell’Emilia in assenza del duca Alfonso d’Este, e in ottobre Parma e Piacenza, con sconcerto dell’imperatore Massimiliano, furono staccate dal ducato di Milano e incorporate nello Stato della Chiesa. Ma la salute di G. era ormai irrimediabilmente compromessa: il 10 gennaio 1513 convocò il nipote Francesco Maria, che deteneva la rocca di Pesaro, e lo assolse da tutti gli omicidi, i furti e le stragi commesse. Sul letto di morte investì il nipote della signoria di Pesaro e nella notte tra il 20 e il 21 febbraio morì. Fu sepolto in S. Pietro nella cappella di Sisto IV.
M. ebbe modo di osservare da vicino la carriera politico-militare di G., ricavandone una potente suggestione antropologica che lo spinse a ritagliare sulla sua figura un particolare tipo di principe: l’«impetuoso» che si contrappone al «respettivo». Il testo da cui parte l’osservazione di M. è la Legazione presso la corte papale del periodo 23 ottobre-18 dicembre 1503, svolta in occasione del conclave che elesse papa Giulio II. Le lettere di M. ai Dieci costituiscono il resoconto dettagliato delle prime, energiche mosse del nuovo pontefice che lasciano intendere la natura tempestosa del papato appena inaugurato. Secondo Riccardo Bruscagli (Machiavelli, 2008, p. 25) «la legazione dell’ottobre 1503, dopo la morte di Pio III [...] segna un progressivo distanziarsi di Machiavelli dalla valutazione positiva data in precedenza del Valentino». Trae origine proprio dall’esperienza romana di quell’autunno del 1503 il successivo ‘ripensamento’ teorico di M. sulla «mala elezione» di Cesare Borgia contenuto in Principe vii. M. sapeva bene chi fosse «San Pietro ad Vincula», sapeva che G. era alla quarta partecipazione al conclave, che aveva mancato di un soffio l’elezione nell’ultimo, recentissimo, del settembre 1503, quando nella prima votazione aveva ottenuto il maggior numero dei voti, che era insomma un cardinale potente e temuto già da una ventina d’anni. La prima preoccupazione ‘pratica’ legata all’elezione di G. risiede per M. nel clima di ‘sospetto’ unanimismo in cui era maturata la sua rapidissima elezione. Nella missiva ai Dieci del 4 novembre 1503 leggiamo:
E come io ho scritto per altre mie alle Signorie vostre, questo Pontefice è stato creato con uno favore grandissimo, perché da tre o 4 cardinali in fuora che aspiravano loro al papato, tutti gli altri vi concorsono, e Roano lo ha favorito sanza mezzo. Dicesi [...] la cagione di questi favori essere stata che li ha promesso ciò che gli è suto domandato, e però si pensa che allo osservare fia la difficoltà (LCSG, 3° t., pp. 321-22).
Nella missiva del 26 novembre 1503 presero corpo le intuizioni di M. circa le ‘vere’ risoluzioni del nuovo papa, culminate con l’arresto del duca Valentino il 28 novembre.
Il giudizio di M., emerso già dalle primissime mosse di G., nasce da un’avversione innata dei fiorentini per le modalità assolutamente impulsive e non prudenti del nuovo papa. Per i fiorentini G. era un personaggio sbalorditivo, un vero ‘outsider’, e anche altri «oratori» di Firenze riportavano giudizi stupefatti sul modo di agire del papa, per il quale prefiguravano sempre una rovina politica e militare imminente che però non si realizzò mai (cfr. F. Gilbert, Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, 1970, pp. 10913). M. guarda con grande attenzione alla «natura» di questo pontefice, al suo carattere brusco e collerico, al suo essere così lontano dal suo ideale di principe «prudente» che sa «vedere discosto». In una più tarda lettera a Francesco Vettori, del 29 aprile 1513, M. definisce il pontefice «instabile, rotto, furioso, misero», mentre nella minuta della stessa lettera, lo chiama «instabile, rotto, impetuoso, avaro». M. aveva la fondata convinzione che un uomo privo di sovranità razionale sul proprio operato e mancante della freddezza necessaria nel carattere non poteva essere un vero politico. La foga con la quale G. si lanciò nell’operazione di recupero territoriale della Romagna ai danni del Valentino, osservata da M., fu il primo sintomo evidente di questa modalità. Seguì quindi la lotta contro i Baglioni di Perugia e i Bentivoglio di Bologna, intrapresa in condizioni di netta inferiorità militare anche se in accordo con la Francia e Firenze, seguita da M. nella seconda legazione presso la corte papale del periodo 25 agosto-26 ottobre 1506. L’esperienza della vittoriosa riconquista di Perugia in condizioni di grande inferiorità militare impressiona M. e non è un caso che – proprio nel corso di questa missione – il Segretario concepisca i Ghiribizzi al Soderino nei quali sostiene che «Questo papa, che non ha né stadera né canna in casa, a caso conseguita, e disarmato, quello che con l’ordine e con l’armi difficilmente li doveva riuscire» (Lettere, p. 137). G., privo di ponderazione e di senso della misura, è riuscito a vincere (quasi) disarmato grazie al suo «impeto» e grazie – soprattutto – ai «tempi» concordanti in cui si trovava a operare. M. tornò di nuovo sull’impresa di Perugia in Discorsi I xxvii evidenziando come G. si mise alla mercé di Giampaolo Baglioni confidando temerariamente (ma con successo) nella propria autorità. Una nuova testimonianza di M. ci viene a proposito del gesto più ardito di G.: il rovesciamento di fronte con i francesi che, da alleati di ferro dal momento del conclave fino alla lega di Cambrai, divengono nemici violentissimi con la lega Santa del 1511. La maturazione di questa clamorosa posizione antifrancese di G., successiva alla sconfitta dei veneziani ad Agnadello, è testimoniata da M. nella terza legazione in Francia, svoltasi dal 20 giugno al 24 settembre 1510: «la rottura tra ’l Papa e questo Re si crede si possa dire certa [...] considerando quello si mormorava qua» (M. ai Dieci, 18 luglio 1510, in LCSG, 6° t., p. 433). M. si trova qui a registrare le fibrillazioni della Repubblica fiorentina di fronte al cambio di rotta di G. che mette in grande disagio i fiorentini, filofrancesi ma impossibilitati, in ogni caso, a rompere con il papa. Sebbene in questa legazione sia Luigi XII a esser posto sotto la lente di ingrandimento di M., tuttavia è ben individuabile lo sconcerto machiavelliano per l’irrazionalità della posizione di G., oltre al palese disappunto per la scelta antifiorentina contenuta nella decisione di contrastare la Francia.
Che le perplessità di M. persistano anche dopo la morte di G. è evidente dal trattamento riservato al pontefice negli scritti teorici realizzati nei dieci-quindici anni successivi all’elezione papale. Terminato il pontificato di G., M. si pone di fronte alla difficoltà di un giudizio univoco che tuttavia è ineludibile. Quel papa così bestiale, «misero» e «rotto», fautore di un uso della forza senza prudenza, capace di adottare qualsiasi strumento per affermare la potenza dello Stato della Chiesa, aveva ottenuto in vita grandi successi. Ma il M. teorico non riconosce una «virtù» a G., salvo rare concessioni, come in Principe xvi dove viene citato tra coloro che hanno utilizzato la fama di «liberale» per ottenere il consenso, e poi disfarsene senza timore di apparire «misero»; oppure in Discorsi III xliv 1, dove G. viene indicato come personaggio esemplare per dimostrare come «e’ si ottiene con l’impeto e con l’audacia molte volte quello che con modi ordinarii non si otterrebbe mai».
In ulteriori giudizi la tesi di M. non si presta a dubbi: G. incarna un tipo di principe «fortunato» perché non si è mai dovuto confrontare con «tempi» dissonanti dalla sua «natura» e non è mai stato obbligato all’uso della «prudenza» di cui era privo. In Principe xxv 18, 24 leggiamo:
Papa Iulio II procedé in ogni sua cosa impetuosamente, e trovò tanto e’ tempi e le cose conforme a quello suo modo di procedere che sempre sortì felice fine. […] [ma] la brevità della vita non li ha lasciato sentire il contrario; perché, se fussino sopravvenuti tempi che fussi bisognato procedere con respetti, ne seguiva la sua rovina.
Di tenore simile risulta un passaggio in Discorsi III ix 15-16:
Papa Iulio II procedette in tutto il tempo del suo pontificato con impeto e con furia; e perché gli tempi l’accompagnarono bene, gli riuscirono le sua imprese tutte. Ma, se fossero venuti altri tempi che avessono ricerco altro consiglio, di necessità rovinava; perché non arebbe mutato né modo né ordine nel maneggiarsi.
L’unica «virtù» posseduta da G. è rappresentata dalla «fortuna» di aver vissuto in un arco di tempo nel quale gli fu possibile ottenere successo comportandosi con «impeto». Il carattere complessivamente ‘non esemplare’ di G., seppure tra diverse sfumature, è del resto sintetizzato con formula lapidaria da Nino Borsellino (L’età italiana. Cultura e letteratura del pieno Rinascimento, 2008, p. 161): «Giulio II non diventerà mai un modello politico come il Valentino (di cui peraltro aveva determinato la sconfitta)».
Da ricordare inoltre – come esempio negativo – il giudizio contenuto in Principe xiii dove M. contesta l’uso delle armi ausiliarie adducendo l’«esemplo fresco» (Principe xiii 3) di G.: «Le arme ausiliarie, che sono l’altre arme inutili, sono quando si chiama uno potente che con le sue arme ti venga a difendere, come fece ne’ prossimi tempi papa Iulio» quando chiamò in suo aiuto Ferdinando il Cattolico (come membro della lega Santa) per conquistare Ferrara.
Il pontificato di G. è largamente segnato, per M., dalla natura di un papa «furioso» e monolitico, incapace di mutare di segno come richiesto al «savio» per assecondare la «fortuna», ma incapace anche di attenersi ai più consolidati precetti quattrocenteschi di governo fondati sulla «prudenza». Tuttavia M. è disposto a riconoscere un lato costruttivo della politica di G., come si legge in Principe xi 12-15, 18:
Surse di poi Alessandro VI, il quale, di tutti e’ pontefici che sono mai stati, mostrò quanto uno papa e col danaio e con le forze si poteva prevalere; e fece, con lo instrumento del duca Valentino e con la occasione della passata de’ franzesi, tutte quelle cose che io discorro di sopra nell’azioni del duca. E benché la ’ntenzione sua non fussi fare grande la Chiesa, ma il duca, nondimeno ciò che fece tornò a grandezza della Chiesa: la quale dopo la sua morte, spento el duca, fu erede delle sua fatiche. Venne di poi papa Iulio e trovò la Chiesa grande, avendo tutta la Romagna e essendo spenti e’ baroni di Roma, e, per le battiture di Alessandro, annullate quelle fazioni; e trovò ancora la via aperta al modo dello accumulare danari, non mai più usitato da Alessandro indreto. Le quali cose Iulio non solum seguitò ma accrebbe, e pensò a guadagnarsi Bologna e spegnere e’ viniziani e a cacciare e’ franzesi di Italia: e tutte queste imprese gli riuscirno, e con tanta più sua laude quanto lui fece ogni cosa per accrescere la Chiesa e non alcuno privato […]. Ha trovato adunque la Santità di papa Leone questo pontificato potentissimo.
È evidente la linea di continuità istituita tra Alessandro VI e G. fondata sulla potenza militare e sull’espansione territoriale della Chiesa, sebbene si tratti di due pontefici profondamente diversi quanto a stile personale e carattere. Leone X, dopo due pontificati energici e ambiziosi, trovò nel 1513 la sede papale «potentissima», ovvero rinvigorita sul piano militare. G. ereditò dal papa borgiano il pieno controllo del territorio della Romagna e la sconfitta delle potenti famiglie baronali degli Orsini e dei Colonna, ma soprattutto «la via aperta al modo dello acumulare danari». G. «non solum seguitò ma accrebbe» la politica energica di Alessandro VI, conquistò Bologna, spense i veneziani con la lega di Cambrai, cacciò i francesi dall’Italia con la lega Santa. Tutte imprese che gli riuscirono con «laude» perché non destinate a favorire «alcuno privato» (come nel caso di Alessandro VI con Cesare Borgia), ma concepite «per accrescere la Chiesa». In realtà sappiamo che nel 1508 G. favorì l’acquisto del ducato d’Urbino da parte del nipote Francesco Maria Della Rovere che era in ogni caso il legittimo erede per parentela con i Montefeltro. Ma nel confronto con Alessandro VI M. preferisce assegnare a G. un comportamento più disinteressato, come se il nepotismo di questi fosse più attenuato e meno sfrontato, svincolato da odiosi interessi particolari.
Non mancano riferimenti a G. nell’Arte della guerra: nel VII libro Fabrizio Colonna, a proposito dell’opportunità o meno di riempire d’acqua i fossi che circondano le città, opta per la soluzione «senza acqua» perché più sicura, dal momento che in inverno spesso l’acqua dei fossi ghiaccia e rende più facile l’espugnazione di una città, «come intervenne alla Mirandola, quando papa Iulio la campeggiava» (§ 20), con allusione all’assalto roveresco del 1511. Infine, nelle Istorie fiorentine sarebbe ravvisabile, secondo Dionisotti (1980, pp. 404-05), un colpo indiretto alla memoria e all’opera di G. sferrato da M. attraverso l’attacco nel VII e nell’VIII libro alla figura di Sisto IV Della Rovere, definito «lupo e non pastore» (Istorie fiorentine VIII xi 2).
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