MONTERENZI, Giulio
MONTERENZI, Giulio. – Nacque a Bologna, da Innocenzo e da Elena Razzari, nel 1560. Apparteneva a una famiglia patrizia di legisti, resa illustre da suo nonno Annibale, giurista e professore dell’Università di Bologna.
Laureatosi in diritto civile e canonico il 13 ottobre 1580, fu anziano del Comune di Bologna. Ben presto intraprese una carriera nella burocrazia pontificia, collaborando in particolare alle attività del S. Uffizio. Consultore della congregazione dal 1591, si segnalò per la sua capacità di affrontare le delicate vicende oggetto dell’attenzione inquisitoriale attraverso una rigorosa procedura giuridica che puntava a enucleare precise fattispecie da perseguire, in particolare nei processi per stregoneria. In data non precisata, ma probabilmente anteriore al 1600, prese gli ordini religiosi.
Nel 1596 Clemente VIII lo inviò a Bitonto per indagare su un processo che coinvolgeva alcune donne, arrestate per spergiuro, superstizione e diffamazione nell’ambito di un’indagine per presunta stregoneria. Coerentemente con gli indirizzi affermatisi nella prassi del S. Uffizio, Monterenzi escluse la sussistenza reale della stregoneria e promosse la condanna a penitenze purificatorie delle donne che avevano diffuso voci al riguardo. Il 2 luglio 1597 successe a Marcello Filonardi come procuratore fiscale della congregazione del S.Uffizio.
Tra i più significativi contributi forniti da Monterenzi all’attività della congregazione c’è la redazione di una istruzione per i casi di stregoneria, fortemente restrittiva nell’individuazione del reato, in particolare in relazione alle modalità di accertamento del corpo del delitto e alle pratiche di esorcismo. Il testo, noto prevalentemente come Instructio pro formandis processis in causis strigum, sortilegium et maleficiorum, circolò ampiamente dopo il primo decennio del Seicento, divenendo una delle basi della prassi inquisitoriale come dimostra il fatto che fu incluso, in traduzione italiana, nella seconda edizione Sacro arsenale di Eliseo Masini (Genova 1625), nel De Officio Sanctissimae Inquisitionis di Cesare Carena (Cremona 1655) e in numerosi altri manuali inquisitoriali seicenteschi. A lungo attribuita al teologo domenicano e cardinale Desiderio Scaglia, l’istruzione è stata ricondotta a Monterenzi dagli studi più recenti, sulla base di una testimonianza interna alla congregazione del S. Uffizio risalente al 1628. L’attribuzione, per quanto congetturale, appare verosimile alla luce dell’esperienza biografica di Monterenzi, che dovette assemblare diversi materiali interni alla congregazione e legati all’affermazione, tra Cinque e Seicento, di un approccio prudente alle cause di stregoneria.
Nell’ambito delle sue funzioni, Monterenzi si trovò a partecipare ad alcuni dei più importanti processi inquisitoriali della sua epoca, tra cui quello a Giordano Bruno.
Il filosofo era stato posto sotto inchiesta dall’Inquisizione veneziana a partire dal maggio 1592, a seguito della denuncia sporta contro di lui dal patrizio Giovanni Mocenigo, suo allievo. Dopo un’insoddisfacente istruttoria a Venezia, la causa fu avocata dal S. Uffizio a Roma, dove Bruno fu tradotto all’inizio del 1593. Nel corso della fase romana del processo i capi di imputazione si aggravarono progressivamente, ma l’istruttoria faticò a procedere anche a causa dell’abile linea difensiva adottata da Bruno, che negò le accuse più gravi e riuscì a contrapporsi efficacemente ai testi a suo carico. Quando Monterenzi, di fresco nominato procuratore fiscale del S. Uffizio, assunse l’incarico, seppe rapidamente imprimere al processo un ritmo assai più serrato, compendiando le accuse contro Bruno in un dettagliato Sommario, più ampio di quello assemblato dal suo predecessore. Sistematizzando le disordinate risultanze delle prime fasi del processo, ricondusse le imputazioni contro Bruno a tre capi principali, legati ad atteggiamenti libertini e opinioni teologicamente eterodosse o ereticali, creando le condizioni per la ripresa del processo, nel gennaio del 1599. Nell’ultima fase della vicenda, conclusasi con la condanna a morte del filosofo (febbraio 1600), Monterenzi rivestì invece un ruolo minore, limitandosi a coadiuvare, con la sua competenza tecnica, i cardinali e il pontefice Clemente VIII. Dagli atti processuali risulta comunque che, come gli altri prelati e consultori, si espresse a favore della comminazione della tortura nei confronti di Bruno.
Significativo fu pure il ruolo nelle vicende processuali di Tommaso Campanella, in particolare nel 1600-1601. Anche in questo caso Monterenzi si occupò soprattutto di condensare le imputazioni emerse contro il filosofo nei procedimenti anteriori in documenti riassuntivi che furono trasmessi dal S. Uffizio al tribunale costituitosi a Napoli.
Pur avendo dato buone prove nella sua attività presso il S. Uffizio, Monterenzi rimaneva un giurista più che un teologo e la sua carriera si orientò progressivamente verso altri ambiti dell’amministrazione pontificia. Dopo essere stato nominato, nel 1603, uditore del cardinal camerlengo, il potente nipote di Clemente VIII Pietro Aldobrandini, nel 1605 assunse la carica di commissario della Reverenda Camera apostolica, il massimo organismo finanziario della S. Sede. In questa veste, partecipò tra 1608 e 1610 ai lavori della congregazione per la riforma dei tribunali, istituita da Paolo V, e disimpegnò un’attività piuttosto consistente a tutela dei diritti della Santa Sede, di cui danno testimonianza i documenti e i registri da lui stesso raccolti (Arch. segreto Vaticano, Arm. XXXVI, 1-9).
Ottenuto un canonicato di S. Pietro (1609), il 5 maggio 1610 fu nominato alla prestigiosa carica di governatore di Roma, affermandosi su altri autorevoli candidati come il giurista Prospero Farinacci. Assunse così la responsabilità dell’ordine pubblico e della giustizia criminale della città, che gestì con mano sicura. Le buone prove fornite nello svolgimento di questo incarico potevano preludere all’assunzione del cardinalato, ma egli era probabilmente troppo legato agli Aldobrandini per risultare gradito a Paolo V e al cardinal nipote Scipione Borghese. Si determinarono così le condizioni per un suo allontanamento da Roma.
Il 1° ottobre 1618 fu chiamato a succedere al cardinal Erminio Valenti come vescovo di Faenza, al posto del vallombrosano Ilario Morani, morto improvvisamente dopo essere stato nominato. Prese possesso della diocesi nel gennaio 1619 e si stabilì a Faenza, dove trascorse il resto della sua vita.
La sua attività episcopale si concretizzò soprattutto in alcune opere di ammodernamento delle strutture ecclesiastiche locali. Si ricordano, in particolare, la costruzione di un portico che univa il palazzo vescovile al seminario e la fondazione della chiesa dei gesuiti, che fu però completata solo alla metà del Seicento. Sul piano strettamente religioso, pubblicò nel 1620 le Costituzioni sinodali e promosse alcune devozioni locali, in particolare quelle per la Madonna del fuoco, e la costituzione di una congregazione femminile mariana.
Pur se attento ai suoi doveri pastorali, continuò a guardare a una collocazione nell’amministrazione temporale pontificia, più consona alla sua preparazione e ai suoi interessi. Nel 1623 fu nominato vice legato di Ferrara.
Morì a Ferrara, poco dopo la nomina, il 23 maggio 1623.
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