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PADOVANI, Giulio

di Marco Severini - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 80 (2014)
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PADOVANI, Giulio

Marco Severini

PADOVANI, Giulio. – Nacque a Senigallia, il 19 marzo 1850, da Giuseppe e da Regina Vivanti.

Primo di tre figli (ebbe un fratello, Alfredo, e una sorella, Marcellina), apparteneva a una famiglia di commercianti ebrei, di probabile origine ragusea (originariamente il cognome era Padovano) che si era distinta nel commercio di ferro e metalli: da Senigallia, allora propaggine meridionale della Legazione di Pesaro-Urbino ospitante una consistente comunità israelitica, trattava partite di tessuti feltrini con Venezia, l’Olanda e altri paesi europei; nel 1856 suoi membri entrarono nel gruppo di azionisti della Società commerciale sinigagliese, base per costituire una succursale della Banca dello Stato pontificio. La famiglia si radicò con successo anche nelle altre principali località marchigiane: ad Ancona, Angelo Padovani compare tra le personalità di punta della locale comunità ebraica impegnate in attività industriali come l’edilizia e le costruzioni infrastrutturali; a Pesaro, un Abramo Padovano si maritò, nella prima metà dell’Ottocento, con Marianna della Ripa, rampolla di una famiglia di potenti banchieri che svolsero un ruolo preminente nella comunità rivierasca. A Senigallia, inoltre, il musicologo ebreo Bettino Padovano (1887-1970) donò alla città un edificio in via Cupetta affinché l’amministrazione comunale vi realizzasse un centro per il recupero di arti e mestieri.

Padovani compì gli studi liceali a Perugia e quelli universitari a Pisa, dove si laureò in giurisprudenza e conobbe Ferdinando Martini, che più tardi convinse a collaborare con il Carlino. Dopo un breve soggiorno a Firenze, il 25 giugno 1878 si trasferì a Bologna per esercitare la pratica forense presso lo studio del civilista Oreste Regnoli, ex costituente romano del 1849. Prese anche contatto con gli ambienti giornalistici, iniziando a frequentare la redazione del quotidiano bolognese Stella d’Italia, organo del deputato progressista Cesare Lugli, fondato proprio in quell’anno dal romanziere ed ex garibaldino Franco Mistrali. Giunto in contatto con i tre avvocati – Cesare Chiusoli, Alberto Carboni e Francesco Tonolla – che, vista l’abitudine a frequentare le redazioni dei periodici bolognesi assai più che le aule dei tribunali, avevano annunciato il varo di un nuovo giornale intitolato Il Resto dello zigaro, Padovani si associò all’impresa convincendoli tuttavia a cambiare il nome della testata, che era scopertamente uguale a quello di un foglio diffuso due mesi prima nelle tabaccherie di Firenze. Il nuovo giornale divenne così Il Resto del… carlino.

L’idea era quella di distribuire il nuovo foglio al prezzo di 2 centesimi: il resto, appunto, per chi comprava un sigaro con una moneta da dieci centesimi che a Bologna si chiamava «carlino», in onore di quella coniata a Napoli nel 1278 sotto Carlo d’Angio e poi stampata nel capoluogo felsineo fino al 1796. Oltre all’aspetto meramente commerciale, i puntini di sospensione caricavano la nuova testata di un significato di presenza attiva e critica nelle dinamiche della società bolognese ed emiliana del tempo. L’espressione «dare il resto del carlino» significava, allora come oggi, mettere le cose a posto, dare a qualcuno quanto gli spetta, regolare i conti, impartire una lezione e, per estensione giornalistica, pungolare e controllare i potenti.

I quattro fondatori sorteggiarono il nome di chi avesse dovuto scrivere l’articolo di presentazione del primo numero del Resto del carlino, che uscì il 21 marzo 1885, suddiviso in quattro pagine ognuna delle quali ripartita in tre colonne: la sorte toccò a Padovani che, con un articolo insolitamente titolato «?…» (e firmato «I Redattori»), spiegò gli obiettivi della nuova impresa.

Si voleva realizzare un giornale «piccolo per chi non ha tempo di leggere i grandi» e capace di far conoscere fatti e notizie «senza fronzoli rettorici, senza inutili e diluite divagazioni», di rispondere al quotidiano e borghese «che c’è di nuovo», insomma di soddisfare il bisogno di novità non solo in chi andava dal tabaccaio a comperare «il primo sigaro della giornata», ma in qualunque categoria sociale: «l’uomo d’affari, l’operaio, l’artista, la donna» avrebbero trovato il resoconto «completo, particolareggiato, minuzioso sino al pettegolezzo» degli avvenimenti accaduti non solo a Bologna e nella provincia emiliana e romagnola, ma anche nelle principali località italiane. Ancora Padovani sottolineava come il giornale sarebbe stato venduto a un «prezzo minimo, non mai raggiunto né meno dopo l’abolizione del macinato» e che esso avrebbe condensato l’attualità «nella forma meno pretenziosa e ciarlatana e più spigliata che sarà possibile». Infine concludeva affermando «la vanità di credere» che se l’iniziativa della nuova testata non fosse riuscita, il torto sarebbe stato «tutto» del pubblico, incapace di comprenderla.

Le 6000 copie del primo numero del Carlino, vendute nelle tabaccherie, nelle botteghe e nelle piccole edicole, andarono presto esaurite e nel giro dei sei mesi il giornale toccò quota 14.000. Ai quattro soci fondatori, ricchi di idee e coraggio, mancava però l’esperienza amministrativa necessaria per gestire un’avventura editoriale che si stava rapidamente sviluppando. L’obiettivo di ricavare margini da un giornale che veniva venduto a due centesimi, ma ne costava tre, risultò ben presto vanificato. Ciò indusse Padovani, sul finire del 1885, a cedere la propria quota agli altri soci ai quali, peraltro, non restò che emulare il gesto dell’avvocato marchigiano. In questo modo il 27 dicembre 1885 il timone del Carlino passò all’avvocato ferrarese Amilcare Zamorani, israelita e massone, che ne divenne il nuovo direttore-proprietario, conservando il primo ruolo fino al 1905 e il secondo fino alla morte, avvenuta nel 1907.

Per tredici anni Padovani rimase titolare nel Carlino della rubrica «Sprizzi-azzi-uzzi», poi divenuta «Intermezzi e resti», un mix di pettegolezzi, freddure ed epigrammi goliardici, nella quale si firmò «Minimus», «Momo» e «Mauro». Il Carlino aveva nel frattempo trovato il suo nume tutelare in Carducci che elesse il foglio a «suo giornale», senza il quale – ebbe a scrivere – «non posso stare». Padovani, carducciano convinto, raccolse in un volumetto edito da Zanichelli alcuni versi parodistici, in parte pubblicati nei giornali e in parte inediti, ispirati a «quell’aura di classica modernità» interpretata dal poeta toscano.

Il volumetto, intitolato Travestimenti carducciani. Svaghi satirici (Bologna 1899), era una composta e arguta parodia dei versi carducciani, contenente anche riferimenti alla vicenda politica italiana. Carducci vide la bozza dell’opera e così scrisse a Padovani, da Roma, il 18 dicembre 1898: «Caro Padovani, Alle fortune, che i miei versi hanno avute, oltre il merito, ora si deve aggiungere quelle della parodia; la quale è riconoscimento della poesia. Perciò io sono ben contento che Ella abbia tradito la mia opera, e delle maniere del tradimento La ringrazio» (ibid., pp. 3 s.).

Sempre con Zanichelli, nel 1901, Padovani pubblicò una vivace opera di memorialistica (A vespro. Memorie di università e giornalismo) in cui ripercorse le esperienze più singolari della vicenda accademica e della pratica giornalistica. Autore di centinaia di articoli, versatile e amante dello stile aforistico, pubblicò fino agli ultimi anni della sua esistenza. Continuò a frequentare quotidianamente la redazione del Carlino che lasciò, con tutta probabilità, solo in seguito ai dissidi occorsi con Zamorani.

Di quest’ultimo, infatti, scrisse che aveva un animo «mite e temperantissimo», era sempre incline a cogliere la traccia «del lato migliore o del meno cattivo negli uomini e nelle cose e quindi anche nelle istituzioni sociali»; pur tuttavia, proprio per questa eccessiva indulgenza, il secondo direttore del giornale era convinto – sempre a detta di Padovani – di «attrarre entro una medesima orbita persone a lui care e simpatiche, ma che per diversi e spesso opposti ideali sono destinate a una inconciliabilità eterna» (Biondi, 1985, p. 9). L’ambiente del Carlino mantenne, però, intatta la stima e l’affetto verso Padovani e continuò a considerarlo, nel tempo, come l’autentico «inventore» del giornale.

Morì di infarto a Bologna il 21 novembre 1916.

Fonti e Bibl.: Senigallia, Arch. comunale, Stato di famiglia di Giuseppe Padovani; V. Castronovo - L. Giacheri Fossati - N. Tranfaglia, La stampa italiana nell’età liberale, Roma-Bari 1979, passim; D. Biondi, Il Resto del Carlino 1885-1985. Un giornale nella Storia d’Italia, Bologna 1985, pp. 1-4, 7-10, 13-28; Studi sulla comunità ebraica di Pesaro, a cura di R.P. Uguccioni, Pesaro 2003, p. 67; L. Martino, «il Resto del Carlino» nelle Marche (1885-2007). Gli uomini, la storia, Ancona 2008; il Resto del Carlino. 45.000 notti passate a scrivere la Storia, a cura di M. Leonelli, Bologna 2010; Storia di una trasformazione. Ancona e il suo territorio tra Risorgimento e Unità, Ancona 2011, p. 129.

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