Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Concettuale per eccellenza, l’opera di Giulio Paolini appare come un enigmatico labirinto di specchi nel quale si riflettono le invenzioni e gli strumenti tradizionali dell’arte occidentale, le implicazioni e i presupposti, sia tecnici che teorici di quella tradizione figurativa, familiare, ma solo all’apparenza “comprensibile”. L’insieme della sua opera consente di ripensare in senso rinnovato a tutto il museo ideale che abita il nostro immaginario.
“[...] Qualche eco mi consente tuttora di abitare le linee prospettiche tracciate da Leon Battista Alberti, di vedere la luce che risplende nei dipinti di Beato Angelico, di Giovanni Bellini. Muovendo dalle trasparenze del Perugino, potremmo ritrovarci quasi subito, per un improvviso soprassalto percettivo, sulle tracce dell’itinerario esemplare di Lucio Fontana: volte celesti, percorsi siderali che ci conducono a una dimensione inconfondibile, sospesi a mezz’aria di fronte a un nulla che sa riempire il vuoto.” Giulio Paolini ha tentato, come scrive con grande lucidità, di superare le indicazioni suggerite dai tagli di Lucio Fontana, di ritrovare la purezza cristallina dell’immagine e svelare gli enigmi della pittura. Una ricerca che non si limita al linguaggio, come nella maggioranza degli artisti concettuali, ma si concentra sull’analisi del vedere, sull’opera come struttura autoreferenziale, che parla di sé nella sua condizione immanente.
Nato a Genova nel 1940, vive a Torino dagli anni Cinquanta con brevi soggiorni parigini. Ha militato nell’arte povera partecipando alle prime mostre del gruppo anche se la sua indagine si inscrive in ambito più strettamente concettuale. Con Paolini i processi di significazione interni all’opera diventano una scomposizione dell’atto percettivo. Una riflessione sull’arte come rappresentazione che, in un complesso intreccio di relazioni con la realtà, esprime un senso di assolutezza. La prima opera del 1960 è Disegno geometrico: una grande tela con una semplice “quadratura”, linee d’inchiostro orizzontali, verticali e diagonali che suddividono lo spazio in un procedimento preliminare a qualsiasi possibile rappresentazione. L’artista sposta il discorso dalla forma dell’opera al significato dell’arte.
Esordisce con una riflessione analitica rivolta agli strumenti del processo artistico: Senza titolo, del 1961, è un telaio avvolto nella plastica trasparente che contiene un barattolo di vernice appoggiato sulla base; un altro Senza titolo del 1962-1963 è una tela rovesciata. Una serie di operazioni che ragionano sul fare artistico, sui dati concreti dell’esistenza della pittura e i suoi materiali – cornici, tele, pennelli intrisi di colore, retini, quadrettature, ma anche l’atto espositivo, la firma e l’autorialità, lo sguardo dell’altro – sono presentati senza mediazioni dall’artista stesso, come operatore del linguaggio e complice dell’osservatore. Paolini analizza lo statuto dell’opera, indaga il campo visivo e lo delimita. Passa attraverso la citazione e se ne appropria. Il riferimento al passato e la sua ripetizione differente diventano una modalità del lavoro artistico. Delfo del 1965 è il retro di una tela emulsionata con il suo ritratto mentre indossa occhiali scuri, inquadrato e visto attraverso il telaio. Sono oggetti che appartengono all’arte per mestiere. Ne ribalta la funzionalità e li mostra in sostituzione del nostro campo visivo, come surrogato concreto della nostra percezione mentale. In Vedo (decifrazione del mio campo visivo) del 1969, disegna sulla parete della galleria, una serie di puntini a matita che si addensano e si rarefanno a seconda dell’intensità: corrispondono al massimo spazio della sua visione, all’astrazione di un fenomeno ottico-percettivo filtrato in prima persona.
Nel 1967 nasce l’arte povera con la prima esposizione alla galleria Bertesca di Genova e il critico Germano Celant, per analogia con il teatro povero di Grotowski, rileva una nuova tendenza dell’arte internazionale: la ricerca delle strutture primarie, dei motivi originari della nostra esistenza. Un gruppo di artisti italiani ridefinisce la propria identità attraverso i processi vitali del mondo. Giulio Paolini lavora con operazioni di suggestione mentale più che poverista, ma la prima pubblicazione di Celant, dedicata all’arte povera, comprendeva almeno altri quattro artisti concettuali: Hubler, Wiener, Kosuth e Barry. In questa storica collettiva Paolini presenta Lo Spazio (1967), con otto caratteri sagomati, ritagliati in legno bianco, disposti a intervalli regolari sulla parete all’altezza dell’asse ottico: lo spazio si trasforma, al tempo stesso, in ambiente, supporto e oggetto della visione.
Sempre del 1967 è l’opera Qui, tre dischi sovrapposti, di materiale trasparente, con incise le tre lettere del titolo per alludere a un punto definito che delimita una porzione di spazio reale e tangibile, un luogo ma anche una presenza. Il Qui non è una semplice locazione, l’accumulo di lettere rende ridondante il significato. Dello stesso anno è Giovane che guarda Lorenzo Lotto. Ricostruzione nello spazio e nel tempo del punto occupato dall’autore nel 1505 e ora dall’osservatore del quadro, è una delle opere più conosciute di Paolini: la riproduzione fotografica su tela del celebre ritratto di Lorenzo Lotto è la trasposizione del campo visivo, della fissità affascinante e concentrata dello sguardo del giovane modello, rivolto verso l’obiettivo. Un ribaltamento del punto di vista, e il dipinto di Lotto, dopo una piccola modifica verbale, diventa un’opera di Paolini. La visione frontale del giovane ritratto, l’ambigua intensità con cui scruta noi osservatori contemporanei, e che nel 1505 doveva trovarsi di fronte a Lorenzo Lotto e osservarlo, innesca sottili e impalpabili identificazioni. Il titolo sottolinea un’operazione mentale, un prelievo dal passato con immagini citate da un ideale museo della storia dell’arte. Italo Calvino, che amava molto quest’opera, scrisse: “Una volta ha esposto la riproduzione fotografica d’un ritratto di Lorenzo Lotto. L’immagine è la stessa ma la sintassi interna cambia. È il soggetto del quadro che guarda Lotto: cioè l’osservatore attuale del quadro vede quel che vedeva Lotto, no: si sente guardato dagli stessi occhi che fissavano Lotto.”
Le citazioni dall’antico e i prelievi dal patrimonio iconografico della storia dell’arte diventano un fil rouge che percorre tutta la ricerca di Paolini, il quale inscena un gioco svelato di passaggi tra autore e spettatore, un circuito chiuso tra artista e opera, un sistema di segni offerti alla nostra silenziosa contemplazione. Una macchina del vedere che traccia una storia dello sguardo tra oggetto e soggetto, fino a Mimesi del 1975 in cui scopre in modo esibito questa specularità dialettica, la poetica del doppio del reale, che non è reale. Nella versione originale due identiche copie della Venere di Prassitele sono poste l’una di fronte all’altra (in altre occasioni, Paolini presenta i frammenti della testa di Hermes, l’Ebe di Canova o altre copie in gesso) e catturano il segreto metafisico di quei contatti che normalmente ci sfuggono. Una situazione così labile come quella del guardarsi si carica di mistero nel rapporto tra realtà e finzione. Scrive Paolini: “Quando pongo una di fronte all’altra due copie uguali di una stessa statua antica non intendo riscoprire, reinventare quella statua, né tanto meno compiacermi della citazione, ma ritrovarmi io stesso a osservare la distanza, il vuoto che le separa, ed è questo vuoto il vero corpo dell’opera. La quale trattiene in sé, nel circuito chiuso di una risposta ermetica, la domanda della sua stessa presenza. Ed è così che la possiamo osservare, senza però poterla davvero vedere”. Un gesto acuto, minimale, di estrema semplicità. Paolini indaga elementi immateriali, passaggi mentali che non si vedono, come appunto lo sguardo, i rapporti tra spazio e percezione, la dimensione atemporale e l’assenza. La citazione non è mai un’imitazione pedissequa né una copia, ma un innesto testuale che l’artista compie attraverso riproduzioni fotografiche, esangui calchi in gesso e collage, ripercorrendo un repertorio che va dalla scultura ellenica al neoclassicismo. In alcune opere ha suggerito già nel titolo la condizione di Averroè, metafisico arabo che si è occupato della teoria del doppio, della duplice contraddittorietà tra testi sacri e scienze empiriche, spesso in contrasto ma in grado di trasformarsi l’una nello specchio dell’altra.
Paolini, in un clima freddo e asettico, rielabora i concetti classici di mimesi, colore, esecuzione. L’occupazione dello spazio espositivo segue le dinamiche dei giochi prospettici rinascimentali. Utilizza mezzi extra-artistici, ossia non tradizionali, come fotografia, ready-made, scritte, operazioni concettuali e al tempo stesso implode nel passato, si aggira nell’immenso deposito museale, ripete alcuni brani scultorei e figurativi appartenuti alla storia. Nel caso di Mimesi, le Veneri che si guardano sono un ready-made, un prelievo effettuato dall’artista, non nella prosaica e banale realtà quotidiana alla maniera di Marcel Duchamp e dei dadaisti ma, dalla storia dell’arte. Dalla mise en abîme degli esordi, all’appropriazione letterale, con immagini ripescate dagli artisti del passato, Chardin, Velázquez, Poussin, Picabia, Canova, al ribaltamento del punto di vista (Giovane che guarda Lorenzo Lotto), fino alla disgregazione dei singoli elementi percettivi: un dipinto di Monet, riprodotto in fotografia è frammentato in tanti piccoli elementi, allestiti sulla parete a raggiera seguendo gli addensamenti del campo visivo. Un percorso coerente che non cerca l’interazione ma assegna al pubblico un ruolo contemplativo: la visione nella sua dimensione più volatile e cangiante, il magnetismo del guardare e l’essere guardato.