GIULIO Romano (Iulius de Pippis, de Ianutiis; Giulio Pippi, Giannuzzi)
Figlio di Pietro de Pippis de Ianutiis, nacque a Roma nel rione Monti, a macel de' Corvi, vicino alla colonna Traiana, tra il 1492 e il 1499. Tale incertezza cronologica deriva dalle discordanti versioni offerte dal necrologio mantovano e da Vasari (1550): nel primo si afferma che nel 1546 G. aveva quarantasette anni; il secondo gliene attribuisce invece cinquantaquattro.
La ricostruzione delle vicende biografiche di G. si fonda sulle Vite vasariane (1550 e 1568) e sull'ampia messe di documenti ora raccolti nel Repertorio di Ferrari e Belluzzi (1992), dove sono state trascritte 1400 carte d'archivio.
L'appellativo de Pippis (con le sue numerose varianti e la forma volgare Pippi) è attestato negli atti relativi al padre e potrebbe essere il cognome della famiglia. Ricorre in tutti i documenti romani. Un margine di incertezza è dato dall'alias de Ianutiis: compare nei documenti relativi al padre e talvolta accompagna il nome di G. (di nuovo nel testamento del 1546), termine agnatizio che può anch'esso essere considerato una alternativa forma cognominale.
La firma "Giulio Romano" è attestata per la prima volta in una perizia del 1519 (Repertorio, I, pp. 4 s.), e sarà il nome usato dall'artista stesso e con il quale viene normalmente identificato dai propri corrispondenti, nome che lontano dalla città natale diventerà epitome di programmatica ispirazione all'antichità (ibid., p. X).
Circoscrivere in modo più preciso l'anno di nascita non è solo una questione erudita, ma investe la ricostruzione della prima attività dell'artista e il suo ruolo all'interno della bottega di Raffaello. Nessun documento finora rinvenuto dirime in maniera determinante la contrapposizione tra il 1492 e il 1499, date che al momento costituiscono i termini post e ante quem. Due documenti romani consentono, forse, di accorciare la distanza tra le date limite. Nell'atto di acquisto della collezione Ciampolini da parte di G. e di Giovan Francesco Penni (5 sett. 1520: ibid., pp. 11 s.), Pietro è chiamato "legitimo administratori" del figlio e rappresenta i due acquirenti che sono assenti: "vice et nomine dicti Iulii ac Iohanni Francisci […] absentibus". Se ne desume che il padre non agisse come tutore di un minorenne, bensì come rappresentante legale di maggiorenni. La raggiunta maggiore età di G. è confermata nel testamento del padre, rogato a Roma il 3 febbr. 1521 (ibid., pp. 18 s.), in cui Pietro nomina "Iulium tutorem ac curatorem" dei fratelli minorenni. Sembra quindi molto probabile che già nel settembre 1520 G. avesse compiuto almeno venticinque anni, età che lo ius commune fissava a termine della tutela. Se così fosse, l'ante quem per la nascita di G. andrebbe anticipato all'ultimo trimestre del 1495.
Dal precedente matrimonio della madre di G. erano nati Lucrezia e Giovanni Battista del Corno. A questo "frater uterinus" G. fu molto legato: nell'aprile 1524 lo nominava suo erede universale, e, alla partenza da Roma, gli affidava i propri beni. Nel 1526 Giovanni Battista ottenne la cittadinanza mantovana, si presume a seguito di un intervento di Giulio. Il padre si sposò altre due volte: in data non precisata con Antonina de Carnariis e all'inizio del 1508 con Graziosa. Figli di Pietro furono, oltre a G., Domenico e Francesco, Geronima, Laura e Silvia. La famiglia era romana; e i documenti relativi a Pietro lo qualificano sempre come "Romanus civis, regionis Montium". Nel testamento del 3 febbr. 1521 Pietro chiedeva di essere sepolto nella chiesa di S. Nicola alla Colonna Traiana, la stessa dove poi volle avere sepoltura anche G. (testamento del 29 apr. 1524: ibid., pp. 58-60), indicando un legame molto solido con questa zona della città. In nessuna delle carte finora rinvenute si indica la professione di Pietro, intestatario di beni immobili, tra cui la vigna ai Trofei di Mario, proprietà di famiglia ampliata nel 1517. Il ceto nel quale la consorteria familiare gravita è quello artigianale; e il censo di Pietro non era particolarmente elevato, se viene quasi sempre definito "providus vir" e lo stesso G. è ricordato come "discretus iuvenis". La possibile ascesa sociale, forse legata alle fortune del figlio, si evince dai rogiti del 1518 e del 1520, nei quali Pietro è designato "nobilis vir".
Vi è un fitto e consueto intreccio di rapporti familiari e professionali, che portò nel febbraio 1523 al matrimonio della sorella di G. Geronima con lo scultore Lorenzetto (Lorenzo Lotti), altro seguace di Raffaello.
Non è dato conoscere l'anno di ingresso di G. nella bottega di Raffaello. L'incontro con il maestro potrebbe risalire agli inizi del soggiorno romano dell'urbinate, che giunse in città nell'autunno 1508 e che in poco tempo ottenne un numero molto elevato di commissioni, cui altre se ne aggiunsero dopo la morte di Donato Bramante (1514). Vi è invece chi propende a collocare l'inizio dell'apprendistato attorno al 1516. Identificare lo stile personale e gli interventi di G. nell'affiatata e attivissima bottega raffaellesca, distinguere l'opera tarda del maestro da quella giovanile dell'allievo è impresa ardua e piena di insidie. L'incertezza si riflette su un numero non insignificante di pitture e disegni di oscillante e discussa attribuzione. Certamente, prima della morte di Raffaello (6 apr. 1520), G. vi assunse grandissima autorità, tanto da esserne nominato erede insieme con G.F. Penni, altra figura dalla personalità artistica molto sfuggente che lavorò in simbiosi anche con lo stesso Giulio Romano.
Per ricostruirne l'attività prima del 1520, bisogna partire dal catalogo redatto da Vasari (1568), che, nell'ordine, ricorda la decorazione ad affresco di alcune scene delle Logge di Leone X (1517-18), l'intervento nella stanza dell'Incendio, sempre in Vaticano e il ruolo preponderante avuto nella loggia di Psiche alla Farnesina (1518).
Le logge costituiscono il caposaldo per ricostruirne la personalità di frescante, anche per il loro evidente legame con i documentati dipinti nella loggia di villa Madama. Nelle prime l'intervento di G. fu più esteso e probabilmente l'artista aveva anche il ruolo di supervisore sull'intera impresa, controllando forse che gli schizzi del maestro fossero fedelmente riportati nei cartoni e poi nell'affresco (Ferino, in G. R., 1989, p. 81), e la sua opera nel palazzo Vaticano viene anche riconosciuta nella loggetta e nella stufetta (piccolo bagno) del cardinal Bibbiena. Anche per la loggia di Psiche la testimonianza vasariana sembra essere sostanzialmente attendibile. Sotto l'egida di Raffaello, la cui presenza è sottolineata da Oberhuber (1999), intervennero nell'impresa G., Giovanni Ricamatore da Udine e Penni. La mano del primo è individuata nell'esecuzione delle figure nude dall'accentuato risalto plastico del modellato, desunto dai panneggi bagnati della scultura classica, nel trattamento, al tempo stesso, sensuale e ironico conferito alle scene che diventerà poi qualità e caratteristica delle mitologie mantovane.
Tra i dipinti a olio Vasari enumera tre tavole ora conservate al Louvre che a tutt'oggi costituiscono il punto di avvio per gli studi su G. pittore: la Sacra Famiglia di Francesco I, dove avrebbe eseguito solo la S. Elisabetta, la S. Margherita, anch'essa eseguita in collaborazione con Raffaello e il ritratto di Giovanna d'Aragona (identificata anche in Isabel de Requesens), di cui gli viene attribuita in modo unanime l'esecuzione. Discordano semmai i pareri sull'invenzione, stante l'importanza iconografica del dipinto, caposaldo del ritratto cortese di genere femminile. Raffaello stesso - per bocca di Beltrando Costabili, legato e corrispondente di Alfonso d'Este da Roma - riferiva in una nota lettera (2 marzo 1519) che il cartone della Giovanna d'Aragona era opera di "uno suo gargione", mandato a Napoli dal cardinale Bernardo Dovizi detto il Bibbiena "per ritrare quella signora" (Golzio, 1936, p. 77; Repertorio, I, pp. 3 s.). L'allievo che nella primavera del 1518 fu inviato a ritrarre la nobile dama era senza dubbio Giulio Romano.
La formazione di G. architetto si svolse contemporaneamente a quella del pittore e i due momenti non furono mai disgiunti: la conoscenza dell'architettura scaturì, come era stato per il suo maestro e per Bramante, dall'architettura disegnata e dipinta.
"Non andò molto - scrive Vasari (1568, p. 325) - che seppe benissimo tirare in prospettiva, misurare gli edifizi e levar piante". Le architetture affrescate nelle stanze furono, quindi, la palestra nella quale il pittore si avvicinò e si impossessò di questa arte (Frommel, in G. R., 1989, p. 97). Le prime tracce di tale attività risalgono all'inverno 1518-19, cui si data il disegno relativo al cortile di palazzo Branconio dell'Aquila e quello per la scenografia dei Suppositi (Firenze, Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi, 1884A, 242, 560A), nei quali viene riconosciuto l'intervento del giovane assistente di Raffaello. Nel primo foglio, soluzioni e pentimenti dimostrano che G. godeva già di un discreto margine di autonomia (Frommel, in G. R., pp. 289 s.).
Il 6 apr. 1520, l'improvvisa morte di Raffaello proiettò nella affollata scena romana i suoi allievi ed eredi. G. e Penni furono costretti a uscire allo scoperto, senza la tutela del caposcuola, per difendere l'eredità artistica e commerciale della avviata bottega in una città dove non mancavano agguerriti rivali. Il 12 aprile Sebastiano del Piombo scriveva a Michelangelo per comunicargli la morte di Raffaello, ma soprattutto per ottenere - attraverso i suoi buoni uffici presso Giulio de' Medici - la decorazione della sala di Costantino. La struttura resse, anche se non mancarono tensioni: gli eredi, restituiti gli emolumenti percepiti da Raffaello per le commissioni rimaste in sospeso, conservarono le imprese avviate. Il notissimo carteggio tra Mario Maffei e Giulio de' Medici testimonia le liti tra "quiei duo pazzi" - G. e Giovanni da Udine - sui ponteggi di villa Madama, cantiere che evidentemente non si arrestò. Qui G., oltre agli affreschi della loggia, con il Polifemo espressamente ricordato da Vasari, e quelli del salotto, dove disegnò anche il camino ionico, sovraintese alla costruzione delle facciate verso valle e sul cortile. Nel luglio 1520 "li garzoni de Raphaello" - il testimone è di nuovo Sebastiano del Piombo - si erano assicurati l'esecuzione della sala di Costantino, portando così a termine il progetto appena iniziato dal loro maestro, e il 5 settembre, quando G. e G.F. Penni acquistarono per 180 ducati d'oro la collezione di antichità di Michele Ciampolini (Repertorio, I, pp. 11 s.), il momento di sbandamento seguito alla morte di Raffaello era ormai superato. Fino alla morte di Leone X, il 1° dic. 1521, la bottega raffaellesca continuò a lavorare intensamente; e G. ne assunse la guida.
La decorazione della sala di Costantino nel palazzo apostolico Vaticano non fu solo una importante occasione di lavoro, ma sancì pubblicamente il passaggio del testimone tra il maestro defunto e i suoi allievi. Nel 1519 erano stati montati i ponteggi e le pareti erano state preparate per essere dipinte a olio. La decorazione, ad affresco, ripresa nell'ottobre 1520, rimase incompleta alla morte di Leone X, per poi essere definitivamente conclusa durante il pontificato di Clemente VII.
Il progetto decorativo fu messo a punto molto rapidamente, tanto che il 6 sett. 1520 Sebastiano del Piombo poteva darne un circostanziato resoconto a Michelangelo, nel quale si descrive l'Adlocutio con l'apparizione della croce e la Battaglia di ponte Milvio nella "fazata mazore". Le prime relazioni sulle pitture, "chosa ribalda" - scrive Leonardo Sellaio a Michelangelo -, risalgono a dicembre; e nel febbraio 1521 sono documentati i pagamenti "per i ponti di Iulio pittore" (ibid., I, p. 19), facendo intendere che l'impresa entrò nella fase esecutiva in tempi molto stretti. Sulla base di questi dati, che presuppongono l'esistenza già a settembre di un dettagliato progetto, è ormai acclarato che G. e Penni si attennero per quanto possibile al materiale grafico ereditato da Raffaello, dovendo dare prova di essere all'altezza del maestro e sembra infine che in tale processo di "traduzione" il ruolo di G. sia stato davvero preponderante.
La Lapidazione di s.Stefano (Genova, S. Stefano), nel 1519 fu allogata da G.M. Giberti a Raffaello, che eseguì un disegno preparatorio. Alla morte di questo la commissione passò a G. che, partendo dall'idea del maestro, sviluppò una vera propria parafrasi della sua ultima opera, la Trasfigurazione: il contrasto degli affetti e delle fisionomie, nell'opposizione tra i carnefici e il martire è portata al limite del grottesco. L'atmosfera carica, il paesaggio costellato da ruderi, tra i quali si nota una veduta dei mercati traianei, surriscaldano l'ambientazione eroica delle Storie di Costantino. Emerge una tempra drammatica che nella raffigurazione della violenza, talvolta travalica i limiti del decoro dando il la a quelle ricerche espressive che caratterizzeranno la pittura di Giulio Romano. "Non fece mai Giulio la più bella opera di questa, per le fiere attitudini de' lapidatori e per la bene espressa paciencia di Stefano" (Vasari, 1568, p. 532).
Il palazzo Adimari Salviati a Roma è la prima costruzione che G. realizzò in maniera del tutto autonoma; la sua progettazione ebbe inizio solo dopo l'acquisto del terreno nel maggio 1520 e risale, forse, all'estate di quell'anno (Frommel, 1973). Punto di avvio è palazzo Pandolfini a Firenze di Raffaello (1519-20), di cui si riprende il carattere ancipite, al tempo stesso urbano e suburbano.
Vicina nello spazio - sulla vetta del Gianicolo - e nel tempo è la villa commissionata nel 1521 da Baldassarre Turini da Pescia (poi villa Lante), altro eminente e facoltoso personaggio della corte di Leone X, esecutore testamentario di Raffaello, prelato che risulta coinvolto nelle vicende di G., anche dopo la partenza da Roma.
Nella dimora vi è un deliberato tentativo di ricreare un linguaggio modernamente antico e anticamente moderno (Vasari, 1550, p. 828): la pianta (senza considerare la loggia) è riconducibile a un modulo quadrato che governa anche la divisione degli spazi interni. Gli ordini architettonici, dorico e ionico, articolano le facciate e le serliane connotano il prospetto del loggiato. Tale ricerca, nella quale non mancano soluzioni originalissime e non ortodosse, prese avvio dal progetto di una pianta di Roma antica, la grande ricostruzione archeologica documentata dalla Lettera a Leone X (Di Teodoro, 1994), e iniziata nella bottega di Raffaello insieme con l'illustrazione del trattato di Vitruvio, la cui testimonianza più significativa è il codice di Fossombrone, di cui G. fu proprietario (Nesselrath, 1993). La decorazione interna fu coordinata da G., al quale spettano alcuni brani del Ritrovamento del sarcofago di Numa Pompilio, mentre le altre scene furono affrescate da Polidoro da Caravaggio (Gnann, 1999).
Nel gennaio 1522 fu eletto Adriano VI: il nuovo papa giunse a Roma solo il 29 agosto e morì il 14 sett. 1523, risiedendo quindi in città poco più di un anno. Il suo pontificato segnò una battuta d'arresto per la committenza artistica papale ed ebbe come prima immediata conseguenza l'interruzione dei lavori nella sala di Costantino in Vaticano e a villa Madama. Le parole di Vasari (1568, p. 527), secondo il quale "Giulio […] e gli altri artefici eccellenti furono poco meno (vivente Adriano) per morirsi di fame", pur segnalando la diversa attitudine del pontefice fiammingo nei confronti delle arti, amplificarono la realtà dei fatti per motivi cortigiani e di partigianeria medicea. Se vi fu un'eclissi della committenza papale, questo non vuol dire che Roma e il mondo curiale non continuassero a offrire opportunità di lavoro. Gli allievi di Raffaello non rimasero inoperosi; né mancarono gli introiti: riscossero pagamenti arretrati, vendettero opere del maestro, di cui portarono a termine anche commissioni rimaste in sospeso. La più importante è certamente la pala di Monteluce, per l'omonimo convento perugino (Pinacoteca Vaticana). La tavola era stata allogata a Raffaello nel 1503, poi nel 1505 e nel 1516 furono stipulati un secondo e un terzo contratto, infine nel luglio 1523 G. e Penni "discipoli de maestro Raphaello" (Repertorio, I, pp. 36 s.) ne sottoscrissero un quarto. Nella transazione i due si impegnarono a consegnare l'opera entro un anno, ma il dipinto giunse a Perugia il 2 giugno 1525.
Al regno di Adriano VI risale anche la Sacra Famiglia con i ss. Marco e Giacomo, generalmente datata all'inizio del 1523. La pala d'altare fu commissionata dal banchiere Jacob Fugger per la propria cappella gentilizia a S. Maria dell'Anima (Roma, in situ, ora presso l'altare maggiore), chiesa della nazione tedesca alla quale il cardinale G. van Enkevoirt, braccio destro del pontefice, dedicava assidue cure.
Il dipinto è opera paradigmatica nella pittura del Cinquecento, spesso accostato ai capolavori giovanili del Rosso Fiorentino (Giovanni Battista di Iacopo) e del Parmigianino (Francesco Mazzola). La classica composizione piramidale viene fatta ruotare di 45 gradi, la rappresentazione dello spazio si allontana dal nitore raffaellesco, come sottolinea anche la prospettiva curva dell'esedra dei mercati traianei. L'atmosfera tenebrosa, osservata e criticata da Vasari (1568, p. 533), si carica di presenze ambigue, quali "una femina che filando guarda una sua chioccia e alcuni pulcini". Nel creare tali atmosfere inquiete e sospese, il punto di partenza fu certamente la Trasfigurazione, tuttavia gli accenti insistiti sul paesaggio, sulle notazioni atmosferiche dalla connotazione drammatica risentono anche dell'opera di Sebastiano del Piombo, l'unico concorrente di Raffaello e - come si è visto - temibile rivale per i suoi garzoni.
Palazzo Stati (poi Cenci, Maccarani, Brazzà) è l'architettura più significativa tra quelle progettate da G. a Roma. Ne fu committente Cristoforo Stati, concittadino e coetaneo di G. - un romano, non un curiale -, fatto che si riflette nella tipologia dell'edificio. La trasformazione delle case avite, incuneate tra edifici di proprietà o legati a interessi medicei, poté essere avviata dopo la morte di Leone X. Solo allora fu possibile accorpare i lotti irregolari in un unico palazzo con botteghe. Il progetto, per il quale non è stata finora rinvenuta documentazione archivistica, s'iniziò nel 1522; prima dell'ottobre 1524 (partenza di G. da Roma), il piano terra doveva essere concluso, quindi solo questa parte dell'edificio sembra essere stata eseguita sotto la diretta supervisione del maestro. La dimora non era ancora abitata nel 1526; e la data 1529, rinvenuta sul timpano di un'edicola del piano nobile, indica il lento procedere dei lavori.
Il 19 nov. 1523, l'elezione di Giulio de' Medici, papa Clemente VII, mutò la situazione romana. Da cardinale, l'eletto era stato colto mecenate e raffinato patrono delle arti. Per gli allievi di Raffaello il ritorno di un Medici sul soglio papale avrebbe potuto riproporre il quasi incontrastato controllo della scena artistica romana di cui si erano grandemente avvantaggiati durante il pontificato di Leone X. Da questo punto di vista, la ripresa quasi immediata della decorazione della sala di Costantino fu un segnale incoraggiante.
Il primo mandato di pagamento per "Iulio et Giovanfrancesco pictori" - indirizzato quindi ai due eredi della bottega raffaellesca - risale al 1° febbr. 1524 (Repertorio, I, p. 52), altri seguirono con regolarità e i lavori furono completati entro settembre.
Alla morte di Leone X rimanevano da affrescare le pareti ovest e nord, quindi circa metà della sala. A partire dal 1524 si dipinsero il Battesimo e la Donazione di Costantino. La prima scena, dalle figure statiche ed esangui, è attribuita a Penni; l'animatissima Donazione fu certamente eseguita da G., come provano diversi studi preparatori del maestro. Nel Battesimo, dove il battistero lateranense è ben riconoscibile, si ricostruisce uno storico hic et nunc: qui Costantino fu liberato dalla lebbra pagana, alludendo così al potere spirituale della Chiesa. La Donazione non va soltanto intesa come anacronistico revival teocratico, né come reazione alla libellistica protestante, come è stato autorevolmente sostenuto da Chastel (1983, p. 44). Nell'affresco Costantino offre a Silvestro il simulacro della dea Roma, all'interno dell'antica basilica vaticana, presso la tomba di Pietro. Si introduce rispetto alla leggenda una significativa variante topografica che elimina il tradizionale riferimento al Laterano. L'autorità temporale del pontefice è quindi solo emanazione di quella spirituale che gli deriva dall'essere erede del primo apostolo.
La sala di Costantino fu il maggiore impegno del 1524, ma non mancarono altri incarichi. Per Clemente VII edificò la "loggia dei Trombetti", loggiato che in piazza S. Pietro sovrastava l'ingresso al palazzo apostolico. La costruzione fu demolita per fare posto al colonnato berniniano e ora è documentata solo attraverso alcuni disegni cinquecenteschi. G. trasformò la tipologia architettonica introducendo un'esedra centrale secondo un motivo sviluppato nella pala Fugger, riferimento che può anche costituire un'utile indicazione cronologica.
La decisione di rimodellare la casa di famiglia "il canto del Macello de' Corbi" (Vasari, 1568, p. 535) è certamente posteriore al febbraio 1524, quando G. ne ottenne il pieno possesso (Frommel, 1973). A gennaio Graziosa, vedova del padre, aveva infatti rinunciato ai suoi diritti sull'eredità e il mese seguente lasciò la casa di Pietro per trasferirsi nel rione S. Angelo (Repertorio, I, pp. 51-54).
L'edificio è stato demolito alla fine dell'Ottocento, ma svariati disegni cinquecenteschi ne offrono una concorde descrizione (Gombrich, 1934). G. trasformò la modesta casa-bottega ricostruendo la facciata a due campate in ordine rustico. Il massiccio portale bugnato, l'edicola che lo sovrastava con le colonne imprigionate nelle bugne cubiche, i rilievi antichi che vi erano inseriti ne trasfigurarono teatralmente l'aspetto, sfruttando forse la veduta della colonna Traiana che sorgeva a breve distanza (Burns, in G. R., 1989, p. 297).
All'autunno 1524 risale l'antefatto di quello che da lì a pochi mesi si sarebbe trasformato nello scandalo dei Modi, le sedici incisioni erotiche, immagini di accoppiamenti "disonesti" che suscitarono censure e pesanti sanzioni. Questioni di moralità si intrecciarono alle rivalità personali e ai contrasti politici che si consumavano nella corte clementina. La vicenda è stata indagata in maniera approfondita dalla Talvacchia; ma non tutti i suoi risvolti possono essere completamente chiariti, sia per la distruzione delle immagini, sia per la reticenza delle fonti. Rimangono oggi due stampe originali e poche repliche; possiamo avere un'idea dell'intera serie solo attraverso le rozze xilografie che corredano l'edizione dei Sonetti di Pietro Aretino (1527 circa). Le lascivie erano connotate da una evidente componente antiquaria e gli amori degli dei - soggetto familiare alla bottega raffaellesca - ne costituivano l'immediato precedente. Alla base della rinascita di un genere, subito condannato alla clandestinità, vi erano le spintriae, tessere di età romana raffiguranti le diverse posizioni, e la letteratura erotica e pornografica del mondo antico. Nelle incisioni il pretesto mitologico è assente, vi compaiono atleti del sesso, osservati talvolta da voyeuristiche mezzane, evocando così amori mercenari, certo non ignoti in una città celebre per cortigiane, postriboli e stufe (bagni) promiscue. I Due amanti (San Pietroburgo, Ermitage), dipinti a Roma nel 1524 o all'inizio del soggiorno mantovano, evocano meglio di ogni altra opera l'atmosfera sensuale, raffinata e ambiguamente ammiccante dei Modi. Benvenuto Cellini, in un passo dell'autobiografia (I, XXX), è testimone del clima gioioso della Roma del 1524, stagione vissuta in prima persona dagli allievi di Raffaello: le riunioni conviviali organizzate dallo scultore Michelangelo da Siena, alle quali partecipavano "Giulio Romano pittore e Gian Francesco, discepoli maravigliosi del gran Raffaello", dove si era obbligati a essere accompagnati da "una donna di partito […] per non restare a quella virtuosa cena svergognati".
Prima di partire per Mantova, G. fornì i disegni a Marcantonio Raimondi, che li tradusse in incisioni. Le stampe giunsero sul mercato ottenendo immediato successo, ma scatenarono la reazione indignata dell'autorità pontificia, turbata non dalle immagini in sé, quanto dal mezzo di rapida replica e diffusione cui erano affidate e dal potere dirompente dei versi che le accompagnavano. Le matrici furono distrutte, le stampe confiscate; e Raimondi finì in carcere. Solo l'intervento di Ippolito de' Medici, Pietro Aretino e B. Bandinelli pose fine alle sue disgrazie. G. era ormai a Mantova e non fu sfiorato dallo scandalo, né si incrinarono i buoni rapporti con G.M. Giberti, indicato invece da Pietro Aretino come il mandante della persecuzione.
Il 6 ott. 1524 Baldassarre Castiglione intraprese il cammino per Mantova seguendo la via di Loreto e Urbino e G. era al suo seguito. La partenza del maestro neppure un anno dopo l'elezione di Clemente VII è stata letta in vari modi. Non si trattò certo di una decisione improvvisa, né di una fuga, come è stato anche scritto. Il trasferimento al servizio dei Gonzaga nacque piuttosto da una lunga contrattazione.
Le carte d'archivio sono eloquenti. Il giorno 8 dic. 1521, a una settimana dalla morte di Leone X, il marchese Federico II Gonzaga scrisse a B. Castiglione, suo ambasciatore presso la corte pontificia, dandogli delle precise direttive: "desideravamo haver ad star con noi quelli dui garzoni di Raphael da Urbino che lavoravano così bene […] et vedeti di accordarvi seco che li trattaremo bene […]" (Repertorio, I, pp. 22 s.). A Mantova mancava un pittore che potesse sostenere il prestigio e la magnificenza della corte: Andrea Mantegna era morto nel 1506 e Lorenzo Costa il Vecchio non era riuscito a rimpiazzarlo. Castiglione il 16 dicembre comunicò al marchese di avere parlato con i due giovani che "sono deliberati di venirla ogni modo a servire", ma prima vogliono portare a termine la decorazione della sala di Costantino. Nel frattempo i rapporti tra Castiglione e G. diventarono molto stretti; mentre Penni non sembrava più interessare l'ambasciatore mantovano. Quest'ultimo nel maggio 1522 intervenne presso Giulio de' Medici per sollecitare un pagamento arretrato relativo alla Trasfigurazione a favore di G., definito "suo servitore ed amico mio". A settembre iniziò l'invio dei disegni per la residenza di Marmirolo, prima impresa di G. per Federico Gonzaga.
L'elezione di Clemente VII cambiò di nuovo la situazione. I lavori nella casa di macel de' Corvi, che certamente comportarono un impegno economico, potrebbero indicare che all'inizio dell'anno le intenzioni di G. fossero mutate, ma il 29 apr. 1524 G., "sanus mente et corpore", dettò il proprio testamento nel convento dell'Ara Coeli: il trasferimento a Mantova era ormai all'ordine del giorno, i lavori nella sala di Costantino e gli impegni di Castiglione procrastinarono la partenza.
Dal testamento del 1524 emerge anche qualche notizia sulla bottega. Raffaellino dal Colle, suo stretto collaboratore nelle imprese pittoriche (definito "eiusdem testatoris garzono"), in caso di morte avrebbe ereditato tutte le opere iniziate e non portate a termine, nonché gli strumenti "ad exercitium pictoris tantum et non ultra", disposizione che ricorda - con qualche limitazione - quanto stabilito da Raffaello nelle sue ultime volontà. Molto più oscuro è il profilo del pittore Bartolomeo (alias Merlino) da Bologna, figlio di tal Luca de Blondis, al servizio di G. almeno dal 1521, cui è destinato un ricordo del maestro. Rispetto alla lista di Vasari (1568, p. 533), il numero degli allievi citati nel testamento è molto ridotto. Forse la fine del sodalizio con Penni e la ormai imminente partenza avevano portato allo sfoltimento dei ranghi. Oltre a Raffaellino dal Colle, nelle Vite sono ricordati Bartolomeo da Castiglioni, il discepolo di L. Signorelli Tommaso Bernabei da Cortona (il Papacello), Benedetto Pagni da Pescia e il biturgense Giovanni da Lione, con una straordinaria preponderanza di pittori umbro-toscani a indicarne la provenienza dal nucleo originario della bottega raffaellesca.
Sabato 22 ott. 1524 Castiglione arrivò a Mantova insieme con Giulio Romano. Per l'artista iniziava una situazione completamente nuova, entrava al servizio di un signore e si apprestava a diventare un cortigiano in maniera assai più stretta e vincolante che a Roma, senza tuttavia avere ricevuto specifiche garanzie sul ruolo da svolgere e sui compensi promessi. Al suo arrivo aveva dalla sua la positiva accoglienza dell'architettura di Marmirolo, giudicata a corte "una bellissima cosa et edifitio de grandissimo ingenio et de grande delectatione", ma doveva confrontarsi con gli artisti - tra gli altri Lorenzo Costa e Lorenzo Leonbruno - e con il gusto sofisticato ed esclusivo di Isabella d'Este, né poteva ricorrere all'affiatata équipe di aiuti con i quali era abituato a lavorare. Le grandi ambizioni del giovane marchese, il ruolo attribuito per tradizione alle arti dalla corte mantovana e le capacità operative di G. fecero sì che l'esperimento fosse un successo. Gli oltre due decenni di attività mantovana non solo trasformarono la corte e la città, ma segnarono una svolta nella storia delle arti figurative nell'Italia padana e nell'Europa delle corti.
Suo primo incarico furono il completamento e la decorazione del palazzo di Marmirolo (distrutto), dove iniziò a introdurre al suo stile e al suo metodo di lavoro i primi collaboratori mantovani.
Questa fase sperimentale e di prova fu felicemente superata nel 1526. Nell'arco di pochi mesi iniziarono i lavori di palazzo Te, G. divenne cittadino mantovano (5 giugno), ricevette in dono una casa, fece trasportare da Roma la sua collezione di antichità, fu nominato prefetto delle fabbriche (31 agosto). Quanto si legge nel decreto di nomina a superiore delle strade (20 nov. 1526) travalica la retorica cancelleresca e ne sancisce l'indiscussa autorità, come architetto, pittore e sovrintendente al decoro pubblico (Repertorio, I, pp. 183 s.).
Il radicamento nella società mantovana fu rapido. Nel 1528 "viveva da signore", come scrive Cellini; nel giugno 1529 sposò Elena Guazzi (ibid., pp. 318-320) e nell'aprile 1531 acquistò le case in contrada Unicorno (ibid., pp. 372 s.), dove sorgerà la sua ultima e celebre dimora. Non si sa se il reddito di oltre 1000 ducati, che secondo Vasari (1568, p. 549) percepiva alla morte di Federico, sia cifra veritiera. È certo che lavorò intensamente per la corte e ricevette in cambio numerosi donativi, privilegi ed esenzioni, riuscendo ad accumulare un patrimonio non disprezzabile.
Palazzo Te è la prima opera mantovana elencata da Vasari. La sua genesi, nella seconda edizione delle Vite, è collocata all'arrivo di G. a Mantova, durante una casuale passeggiata a cavallo con il marchese. L'iperbole narrativa sottolinea la straordinaria sintonia tra artista e principe, unità di intenti dalla quale era nata la residenza che, forse più di qualsiasi altra dimora cinquecentesca, incarna lo spirito cortigiano, il legame tra la vita cortese, arte e politica.
L'edificio, "opera grande e maravigliosa" (Cellini, I, XL), nella sua apparenza compatta e unitaria, sottolineata dalla pianta quadrata e dall'ordine unico, si è prestato a interpretazioni totalizzanti sulla poetica di G. e sul manierismo. L'aggressivo bugnato rustico, le irregolarità ritmiche delle lesene, i triglifi che scivolano, i timpani spezzati insieme con il tono rutilante degli affreschi sono stati in passato letti in maniera unilaterale e poco attenta alla genesi e alla funzione dell'edificio. Si sono sottovalutati il legame con le preesistenze e il deliberato gioco illusivo della pietra imitata e contraffatta con mattoni e stucco. Nonostante le perdite, le trasformazioni tardosettecentesche e l'alterazione dell'ambiente circostante il Te rimane opera fondamentale per la comprensione della sua opera. La concezione plastico-volumetrica delle facciate, l'adozione dell'ordine rustico divennero elemento costante del suo linguaggio architettonico. In pittura, soprattutto nella sala di Psiche, l'eredità raffaellesca si confronta con e assimila la tradizione locale, lombarda e ferrarese, dando corpo allo stile maturo del maestro, ormai sganciato dalle esperienze romane.
Il Te nacque come residenza suburbana edificata su un'isola al limitare della cinta muraria, partendo dalle più antiche scuderie, "le mura vecchie" (Vasari, 1568, p. 536), di cui sono stati ritrovati numerosi brani, che furono incorporati e che forse definirono la planimetria della nuova costruzione. La dimora fu edificata tra il 1526 e il 1534; ma i lavori procedettero in maniera irregolare e non del tutto prevedibile, ed è possibile che il progetto giuliesco sia stato sviluppato e ampliato in due momenti distinti, anche se vicini nel tempo. Sembra che si sia proceduto prima alla trasformazione delle scuderie, poi alla decorazione degli spazi interni e infine all'apparecchiamento delle cortine esterne. Tra il 1526 e il 1528 pittori e stuccatori lavorarono principalmente nel braccio nord (appartamento delle Metamorfosi, loggia delle Muse e sala dei Cavalli) e in quello orientale (sala di Psiche). La sala di Psiche fu forse iniziata nel 1526 - quando si acquistarono pennelli per dipingere a olio, tecnica impiegata nella volta - e fu certamente completata prima dell'agosto 1528. Quell'anno l'attività decorativa fu particolarmente intensa, come attestano i documenti, la presenza di Penni e di Girolamo da Treviso il Giovane. La visita di Carlo V a Mantova - dal 25 marzo al 19 apr. 1530 - ebbe un riflesso anche sul palazzo. L'attenzione dimostrata dall'imperatore contribuì a modificarne la natura e la funzione. Da luogo destinato in modo precipuo all'ozio e al ristoro dagli affanni della vita pubblica - così recita la celeberrima iscrizione della sala di Psiche - l'edificio divenne manifestazione della magnificenza del principe.
In questo cantiere prese forma la bottega mantovana di G., di cui va sottolineata la caratteristica simbiosi tra tecniche diverse e il fondamentale contributo degli stuccatori. Nei dipinti la mano del maestro emerge nella fase iniziale, soprattutto, nella sala di Psiche, mentre nella seconda campagna decorativa l'esecuzione delle pitture è delegata con maggiore autonomia agli aiuti, ricordati da Vasari e poi attestati in maniera analitica dalle scritture contabili. Le figure di maggiore risalto furono Benedetto Pagni, attivo nella sala dei Cavalli e nella loggia di Davide, Rinaldo Mantovano che svolse un ruolo importantissimo nella sala dei Giganti, dove Fermo Ghisoni dipinse il tempio al centro della volta e i paesaggi lungo le pareti. La bottega era fortemente gerarchizzata, fatto che spiega l'accoglienza non troppo calorosa tributata a Penni, la cui mano va ricercata nella sala di Psiche, ma anche la carriera di Luca da Faenza, doratore nel 1531 e pittore di grottesche nel 1534. Non troppo prolungata fu la presenza di Francesco Primaticcio e decisamente breve quella di Girolamo da Treviso, probabilmente perché G. non lasciava molto spazio a personalità emergenti e a potenziali antagonisti.
La sequenza costruttiva di palazzo Te rende poco plausibili l'esistenza di un unitario progetto iconografico e l'ipotesi che l'invenzione sia stata sviluppata da un solo letterato. In alcuni casi si ricorre a temi molto comuni nella decorazione delle dimore rinascimentali, sottolineando la diversa funzione degli ambienti; altrove vi è un diretto riferimento agli interessi del committente. "I cavalli più belli e più favoriti della razza del marchese" (Vasari, 1568, p. 537) sono ritratti nella stanza che porta il loro nome. Nella sala riservata ai banchetti privati, la favola di Psiche - ciclo per il quale sono state proposte interpretazioni di segno molto diverso - è tratteggiata con picchi di conclamato erotismo nel coito tra Giove e Olimpia o nel satiro che abborda Psiche dormiente. Le Storie di Davide sono scelte per sottolineare la funzione ufficiale della loggia orientale. Nella Caduta dei giganti vi è certamente un riferimento encomiastico all'imperatore Carlo V, ma non andrebbe dimenticato che da quella stanza si accedeva alla "Racchetta", spazio destinato al gioco.
A partire dal cantiere di palazzo Te, gli incarichi affidatigli da Federico Gonzaga, duca dal 1530, si susseguirono a ritmo incalzante, talvolta sovrapponendosi l'uno all'altro, costringendo il maestro a mobilitare tutti i suoi collaboratori e a lasciare in sospeso quanto era già in corso d'opera. Le nozze tra il duca e Margherita Paleologo, presumibile erede del Marchesato di Monferrato (3 ott. 1531), aprivano la strada all'ampliamento dei possessi gonzagheschi ed elevavano di importanza lo Stato mantovano. A partire dal maggio 1531 si progettò la trasformazione degli appartamenti nel castello di S. Giorgio e si avviò la costruzione di una "fabrica nova" adiacente al medesimo; nacque così la palazzina della Paleologa (demolita nel 1899), che fu poi decorata tra marzo e agosto dell'anno seguente. Nel 1536 l'acquisizione del Monferrato ereditato da Margherita e l'accresciuto prestigio della casata fecero sì che si deliberasse l'estesa trasformazione della residenza gonzaghesca. I lavori, che terminarono nel 1539, furono l'ultima grande impresa patrocinata da Federico.
Il palazzo ducale fu ampliato in direzione del lago, sfruttando gli elementi paesistici e la veduta che il sito offriva. In prossimità del castello di S. Giorgio fu costruito l'appartamento di Troia, dal nome della sala più importante destinata alle udienze pubbliche; di fronte sorse la Rustica, fabbrica di ridotte dimensioni concepita per trovare refrigerio nella calura estiva e collegata con il primo da una corte rettangolare ispirata al cortile del Belvedere. Sfruttando le preesistenze, si costruì un appartamento di Stato nel quale le esigenze di rappresentanza dettarono il programma decorativo e imposero all'architettura un carattere solenne, interpretato da G. attraverso gli accentuati toni antiquari della loggia dei Marmi nella quale è palese il ricordo di villa Madama. Nella decorazione pittorica, progettata da G., ma eseguita dalla bottega, la celebrazione del casato e dell'alleanza con gli Asburgo si dipana nelle diverse sale e raggiunge l'apogeo in quella di Troia. La costruzione della Rustica fu iniziata nel 1538-39 e completata dopo la morte di G., come suggeriscono numerosi dettagli esecutivi (Pagliara, in G. R., 1989, p. 420).
Accanto alle grandi imprese architettoniche e decorative di Marmirolo, del Te e del palazzo ducale, G. fu assorbito da numerose altre incombenze: feste, allestimenti teatrali, apparati effimeri; in più occasioni progettò oggetti di pregio e argenterie, disegnò cartoni per arazzi. La nomina a superiore delle strade fece sì che l'artista fosse incaricato di interventi relativi alla manutenzione, alla difesa e al decoro della città, con una particolare attenzione alle opere idrauliche: "Non è gran tempo che la città di Mantova si teneva per un padullo, dove che al presente […] è un'altra Roma; perciò che quanto di bello e acconcio vi è, tutto è proceduto da Giulio Romano" (Armenini, 1586, pp. 242 s.). Le consulenze e gli interventi in questo ambito furono innumerevoli; andranno ricordati almeno i progetti per le porte urbiche, i lavori per il macello (1536) e per la dogana (1538). Nella committenza aristocratica vanno segnalati i numerosi monumenti funebri eretti a Mantova e in altre città; mentre nell'edilizia privata una posizione di assoluto rilievo spetta alla casa dell'artista. L'edificio fu acquistato nel 1531 e vi risiedeva nel 1541, quando fu visitato da Vasari, ma i lavori di riadattamento continuarono fino al 1544, data rinvenuta nel 1800 sotto gli intonaci della facciata.
Al tempo di G., gli edifici preesistenti erano stati nascosti sotto la nuova facciata, caratterizzata dalla zona basamentale piuttosto bassa e da un solo ordine che corrispondeva al piano nobile. Difficoltà che diede luogo alla soluzione più originale: presso l'ingresso la cornice marcapiano si spezza e si trasforma in timpano, mentre nel corrispondente ordine superiore il finestrone è cieco e alloggia una nicchia con la statua di Mercurio. La scultura, pezzo antico integrato con parti moderne, è il punto di partenza per un programma iconografico basato su dotti riferimenti a Luciano e Omero. Un concetto che sembra essere sviluppato negli affreschi della sala principale. Qui, inquadrate in architetture fittizie, Giove e altre divinità olimpiche, tra cui le coppie Mercurio e Minerva, Apollo e Prometeo, diventano i numi tutelari del suo genio. La dimora autoritratto dell'artista cortigiano ha un ovvio precedente in Raffaello e nell'abitazione di G. a macel de' Corvi. La casa mantovana assurse a modello per lo stesso Vasari ad Arezzo, per Leone Leoni (Milano), per Federico Zuccari (Firenze e Roma), e per Pieter Paul Rubens ad Anversa.
Le divinità dipinte nella sala, esemplate su dotte citazioni antiquarie, erano la cornice per le "antiquità di Roma" (Vasari, 1550, p. 835), i pezzi della collezione Ciampolini e di quanto aveva raccolto negli anni mantovani, sculture, medaglie, disegni e dipinti, anche ereditati da Raffaello. "Fra le molte cose rare che aveva in casa sua", scrive Vasari (1568, p. 551), "vi era in una tela di rensa sottile il ritratto naturale d'Alberto Duro, di mano di esso Alberto, che lo mandò […] a donare a Raffaello d'Urbino; […] Il quale ritratto, che a Giulio era carissimo, mi mostrò egli stesso per miracolo, quando, vivendo lui, andai per le mie bisogne a Mantova".
Durante il principato di Federico l'intensa attività nella quale l'artista era continuamente impegnato ne limitò gli spostamenti fuori città, che furono rari e poco prolungati. Il viaggio a Casale Monferrato (dicembre 1536) non sembra avere avuto alcun esito. Per motivi dinastici fu inviato più volte a Ferrara al servizio di Ercole II d'Este: la prima volta nel gennaio 1535, per rinnovare gli appartamenti del castello. Vi ritornò nel novembre 1537, nell'aprile 1538 e nell'ottobre 1539, forse per dare il proprio parere sulla residenza di Belriguardo. Durante il governo di Federico, il linguaggio di G. si diffuse soprattutto attraverso i disegni inviati da Mantova in altri centri e ad artisti di formazione e cultura molto diversa. Primo esempio di tale procedimento è la decorazione dell'abside della cattedrale di Verona, commissionata dal vescovo G.M. Giberti, che conosceva G. dagli anni romani e gli aveva commissionato la Lapidazione di s. Stefano. L'artista realizzò i cartoni che nel 1534 furono tradotti ad affresco da Francesco Torbido, che passò così dal tonalismo giorgionesco a un esasperato risalto plastico e spaziale.
La costruzione del cosiddetto palazzo italiano nella Stadtresidenz di Landshut (Bassa Baviera) è un caso esemplare della disseminazione di un linguaggio artistico per imitazione ed emulazione. La straordinaria nomea di palazzo Te si diffuse molte presto nelle corti europee, grazie anche alle parentele gonzaghesche, ed ebbe una straordinaria cassa di risonanza nelle visite di Carlo V. Nel settembre 1534 Luigi X, duca di Baviera e consanguineo di Federico, inviò un suo pittore a Mantova "molto desideroso di vedere et imparare el modo del depenzere italiano, havendo specialmente inteso vostra illustrissima signoria havere un depentore di rara et eximia excellentia" (Repertorio, I, pp. 635 s.). Due anni dopo, nel 1536, Luigi X visitò Mantova e palazzo Te, di cui lasciò un'entusiasta descrizione nella corrispondenza con il fratello.
Nella primavera del 1537 Luigi X diede inizio alla costruzione del nuovo padiglione del palazzo ducale di Landshut, per il quale si adottò un progetto di G., e furono impiegate maestranze specializzate reclutate a Mantova. Il progetto consentì a G. di ritornare sul tema del palazzo urbano in grande scala, riprendendo idee degli anni romani e creando una costruzione che si inserisce, anche cronologicamente, tra palazzo Te e quello di Troia.
L'Incoronazione della Vergine nell'abside di S. Maria della Steccata a Parma, disegnata da G. e dipinta da Michelangelo Anselmi, ripropone in scala diversa e con un impegno ben più consistente la collaborazione con Francesco Torbido a Verona. L'artista dovette confrontarsi con gli affreschi di Antonio Allegri, il Correggio, nella cupola della cattedrale (1524-30), tentando "di riunire la chiarezza visiva di Raffaello con le pretese illusionistiche di Correggio" (Oberhuber, in G. R., 1989, p. 138). L'opera fu portata a termine prima del settembre 1542 con profonda insoddisfazione dei committenti che censurarono G. e che nel 1547 chiesero ad Anselmi di modificarla.
Nel dicembre 1539 gli ufficiali della Confraternita della Steccata avevano rescisso il contratto con il Parmigianino e deliberarono di assoldare un nuovo pittore (Repertorio, II, pp. 831, 833, 836-838). Il 14 marzo 1540 venne sottoscritto a Mantova il contratto con G. (ibid., pp. 833 s.). Il pittore si impegnava quindi a realizzare un modello a colori in scala ridotta e un grande cartone con le principali figure della composizione. I disegni dovevano essere consegnati a dicembre e il compenso venne stabilito in 100 ducati d'oro. Il giorno successivo, il pittore cambiò idea e scrisse agli ufficiali della Steccata, chiedendo di rescindere il contratto. Le ragioni di tale repentino mutamento di opinione si ricostruiscono attraverso il successivo intrecciarsi di lettere tra G., il Parmigianino e gli ufficiali della Steccata. Innanzi tutto G. chiarisce agli ufficiali quanto la sua disponibilità sia condizionata: "si degnino risguardare a tanta mia obligatione et servitù ch'io già tanti faccio al mio signor duca, volendo inferire ch'el tempo serrà forse più longo o più breve, come el prefato duca me ne darà la comodità" (ibid., II, p. 846). Il 4 aprile il Parmigianino scrisse una risentita lettera a G., accusandolo di concorrenza sleale e di avergli così procurato una perdita di 300 scudi (ibid., p. 839); a maggio a sua volta G. chiese lumi ai committenti, che evidentemente gli avevano taciuto il pregresso contratto con il Parmigianino, e riferì lo scambio di idee non troppo amichevole con un allievo del pittore parmense: "Messere Francesco mi mandò a posto un giovane sbarbato molto arrogante con una gran chiaccara et parlava per geroglifichi […] et meglio c'uno advocato sapeva defendere le sue ragioni et comfonder quelle de le signorie vostre" (ibid., pp. 842 s.). Poiché - proseguiva G. - aborriva gli scandali, chiedeva di rescindere il contratto o di ricevere una liberatoria scritta del Parmigianino. La vertenza si risolse con la morte di quest'ultimo in agosto. Nel frattempo, nel maggio 1540 Michelangelo Anselmi si impegnava a tradurre in pittura il cartone di Giulio Romano. Il progetto si fermò per un anno intero a seguito della morte di Federico Gonzaga. Nel nuovo contratto con Anselmi (8 maggio 1541) si ha il quadro della situazione. G. non eseguì, come promesso, i due cartoni, consegnò solo il modello piccolo e insegnò a Michelangelo Anselmi "modum et ordinem designandi maiorem cartonum" (ibid., pp. 923-925).
A lavori conclusi, la risposta alla missiva degli ufficiali della Steccata (13 sett. 1542) dà conto delle critiche mosse al dipinto. Riferendosi all'aquila, troppo vicina al Battista, scrive: "Mi piaceria fossi levata via quell'aquila et facilmente diventarà un altro santo perché invero confesso fu errore et inavvertenza mia". Ma ai committenti non piacevano neppure il colorito fuso della maniera moderna (ibid., pp. 976-978). La vicenda evidenzia, da una parte quanto fosse importante che l'esecuzione fosse affidata a un artista che avesse dimestichezza con l'opera del maestro, dall'altra quanto il gusto degli ufficiali della Steccata fosse diverso da quello della corte mantovana.
La morte di Federico II Gonzaga (29 giugno 1540) pose fine a un sodalizio intenso e non privo di intemperanze. La scomparsa del duca colpì forse l'artista anche sul piano personale, se è vero che dopo la morte del principe si ammalò "ob mesticiam" (ibid., p. 923). La reggenza fu assunta dal fratello del duca, il cardinale Ercole, e dalla vedova, Margherita Paleologo, con il primo che risulta avere maggiori responsabilità. A partire dal 1540, Mantova fu governata da un alto ecclesiastico "riformatore", in rapporti con G. Contarini e R. Pole. Tale orientamento dottrinale non interferì con la fisionomia della committenza gonzaghesca, e ne modificò solo gli interessi. I progetti edilizi e decorativi non interessarono più il palazzo ducale, ma quello vescovile, residenza del cardinale, dove i lavori iniziarono nell'agosto 1540, poi l'abbazia benedettina di Polirone e, infine, la cattedrale di Mantova.
Il restauro della chiesa abbaziale di S. Benedetto in Polirone iniziò nel 1540; ma i lavori erano previsti da decenni, in quanto clausola vincolante di cospicui legati, e avevano avuto una prima falsa partenza nel 1525-27. G. fu chiamato a intervenire su un organismo romanico, trasformato all'inizio del Quattrocento in forme tardogotiche. Nelle intenzioni del committente, l'abate Gregorio Cortese, il restauro doveva inglobare e mantenere visibili le preesistenze e G. aveva già dato prova di tale camaleontica capacità nella costruzione di palazzo Te. Rispetto alle sue precedenti esperienze, la novità di Polirone consiste nell'esibire le strutture più antiche che non vengono camuffate, e nel conseguente confronto con l'architettura gotica, che viene accostata con straordinaria disinvoltura agli ordini classici.
Nel corso della reggenza di Ercole G. ebbe maggiore libertà di movimento. Le consulenze, gli spostamenti e i soggiorni, per quanto brevi, contribuirono alla diffusione del suo stile e a consolidarne il prestigio. Nel luglio 1541 fu inviato a Milano per organizzare i festeggiamenti per l'arrivo in città di Carlo V; in quella occasione collaborò con la Fabbrica del duomo ed entrò in contatto con l'architetto Cristoforo Lombardi. Durante il breve soggiorno a Vicenza, dove si trattenne due settimane nel dicembre 1542, conobbe Andrea Palladio. G. era stato interpellato dal Consiglio cittadino per avere un parere sulle logge del palazzo della Ragione, sulle quali da tempo si discuteva senza approdare a una decisione. I progetti che presentò furono approvati nel gennaio seguente; ma nel 1549 l'opera fu affidata a Palladio.
La convocazione era dovuta all'interessamento dei Thiene, famiglia molto in vista e in rapporto con i Gonzaga. I patrizi vicentini erano direttamente interessati ad avvalersi della consulenza dell'architetto, sia per il palazzo di famiglia, sia per il monumento di Lavinia Thiene (morta nel 1542). La vasta e complessa costruzione era stata avviata nell'ottobre del 1542 e alla metà degli anni Cinquanta era stato costruito il piano nobile. I caratteri romani e giulieschi dell'edificio sono stati messi in evidenza da tempo: il bugnato del piano terreno, le colonne rustiche dell'atrio, ispirate a palazzo Te, le edicole del piano nobile, quasi una citazione dalla casa di macel de' Corvi. Agli indizi molto forti a favore di un progetto di G., in un edificio realizzato da Palladio (Ackerman, 1966; Burns, in G. R., 1989, pp. 502-504), ostano la cronologia della costruzione e l'analisi stilistica di Frommel (1989), che propende invece a favore di una decisa paternità palladiana. In ogni caso palazzo Thiene prova la diffusione del linguaggio architettonico di G. nel Veneto alla metà del Cinquecento. Controversa anche l'attribuzione del sepolcro di Lavinia Thiene iniziato nel 1544, per il quale sono stati fatti il nome dell'architetto veronese Michele Sanmicheli, ma che per i riferimenti alle tombe chigiane di Raffaello a S. Maria del Popolo (Roma) e al monumento Castiglione (S. Maria delle Grazie, Curtatone) potrebbe rientrare nel catalogo di G. (Burns, in G. R., 1989).
Dal dicembre 1545 al gennaio 1546, G. soggiornò a Bologna (aveva già visitato la città nel 1538), lasciando tracce significative nella cultura artistica locale, come tra l'altro, emerge da palazzo Bocchi (Vignola, 1545). Era stato convocato dai soprastanti della Fabbrica di S. Petronio: "desiderosi di dar principio alla facciata […] con grandissima fatica vi condussono Giulio in compagnia d'uno architetto milanese" (Vasari, 1568, p. 554). In effetti G. lavorò insieme con Cristoforo Lombardi, architetto del duomo di Milano, conosciuto in quella città nel 1541. I due redassero in piena collaborazione l'alzato di una facciata gotica con paraste corinzie e archi a sesto acuto, G. e Lombardi cercarono "di utilizzare un vocabolario di forme tardo-medievali con una sintassi esplicitamente classicheggiante" (Tuttle, in G. R., 1989, p. 548). Il disegno è datato 23 genn. 1546 e a quella data i due architetti ricevettero un compenso di 100 scudi a testa. A questo soggiorno risale anche il progetto per il monumento di Ludovico Boccadiferro, giurista molto legato alla famiglia Gonzaga e al cardinale Ercole.
L'incendio che il 1° apr. 1545 distrusse parte del duomo di Mantova diede avvio alla costruzione della nuova fabbrica; la decisione fu presa il 13 aprile da Ercole Gonzaga. Si procedette molto rapidamente sia nelle demolizioni, sia nella ricostruzione, tanto che alla fine dell'anno erano stati innalzati transetto e navate. Nella sua ultima opera, G. si confrontò con l'architettura paleocristiana, con la vecchia S. Pietro, ma anche con i progetti per la nuova basilica vaticana.
La nuova costruzione mantenne il perimetro di quella medievale; ma all'interno l'impianto a croce latina fu suddiviso in cinque navate e nel coro era probabilmente prevista una soluzione con ambulacro (Tafuri), che però non fu mai realizzata. Le colonne, scanalate e rudentate, sono di ordine corinzio e sostengono direttamente l'architrave. Nelle coperture interne vi è una studiata alternanza tra coperture piane e volte a botte, tutte plasticamente modellate a cassettoni. L'impostazione è severa; ma il disegno rigoroso e modulare crea molteplici punti di vista e una stupefacente, ambigua varietas (ibid.). Alla morte di G. non era stato ancora realizzato il soffitto a cassettoni della nave maggiore, né la cupola, né la facciata. Il progetto fu completato in maniera unitaria, con gli interventi di G.B. Bertani, con la facciata disegnata da G. Genga, artista legato alla corte roveresca.
Vasari (1550, p. 837), a conclusione della biografia di G., scrive che, morto Antonio da Sangallo il Giovane, si pensò di affidare a G. l'incarico vacante di sovrintendente alla Fabbrica di S. Pietro: "E nel vero egli più che volentieri vi sarebbe andato se due cose non l'avessero ritenuto. L'una era che il Cardinale non voleva per alcun modo contentarsi ch'egli si partisse, l'altra che la moglie, gli amici e parenti di lui lo confortavano a non lassar Mantova". Il dispiacere fu così grande - prosegue lo storico aretino - da accelerarne la fine. L'episodio non ha altro riscontro ed è probabilmente infondato; alla morte di Sangallo fu Michelangelo Buonarroti a succedergli in quella ambita carica. Quanto Vasari scrive nel 1550 avvicina dunque G. a Michelangelo e diventa un inaspettato omaggio al maestro romano. Ma il racconto mette in luce il legame strettissimo con i Gonzaga e il suo straordinario contributo all'architettura del Cinquecento. L'importanza delle sue invenzioni era già stata sottolineata da Sebastiano Serlio (1537); e un fine conoscitore quale Iacopo Strada aveva un altissimo concetto della sua opera.
G. morì a Mantova, dopo una breve malattia, il 1° nov. 1546. Nel necrologio si legge: "Illustre Iulio romano di Pipi, superior de le fabriche ducale, contrata Unichorno, morto de febra, infermo zorni 15, età ani 47" (Repertorio, II, pp. 1167 s.). Fu sepolto nella chiesa di S. Barnaba che sorgeva di fronte alla sua dimora.
Il figlio, Raffaello, ne ereditò il patrimonio e la collezione di antichità, dipinti e disegni: l'autoritratto che A. Dürer aveva inviato a Raffaello, numerosi fogli di Raffaello e dello stesso G., disegni che furono acquistati da Iacopo Strada attorno al 1555. G.B. Bertani, che ne era stato allievo, ne continuò l'opera a Mantova succedendogli anche nella carica di architetto ducale (1549), ma le sue idee, rese celebri attraverso gli scritti di Serlio, furono riprese da Palladio. In pittura, nessuno degli allievi mantovani fu mai alla sua altezza, le sue invenzioni ebbero vasta eco anche attraverso la traduzione incisoria, nella quale si avvalse della famiglia Scultori, ma forse suo unico erede può essere considerato Francesco Primaticcio.
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