Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La vita e la carriera di Giulio Romano, artista fra i più influenti e apprezzati del Cinquecento italiano, si inscrivono solo nell’ambito della corte pontificia a Roma e di quella mantovana dei Gonzaga. Agli anni romani, periodo di formazione durante il quale Giulio compie il suo apprendistato e conquista precocemente lo status di maestro, segue la sua consacrazione come stimato artista di corte a Mantova, dove è attivo per più di vent’anni, fino alla morte.
Gli inizi di Giulio Romano sono in una certa misura leggendari. Non si ha notizia sicura della sua data di nascita, avvenuta nell’ultimo decennio del Quattrocento, si sa però – ed è cosa ben nota ai suoi contemporanei – che nasce a Roma alle pendici del Campidoglio: vanta così il privilegio (unico tra i grandi artisti del Rinascimento e del barocco) di aver conosciuto il Colosseo, la Colonna traiana e i ruderi del Foro romano non in età adulta, già avvolti dell’aura di icone della classicità, ma come elementi del paesaggio urbano della sua infanzia. Il presunto "imprinting" che ne è derivato è spesso richiamato nella letteratura contemporanea che lo riguarda – Vasari, Aretino) – e influenza anche i comportamenti dell’artista che si atteggia a patrizio e si firma "Iulius Romanus". Naturalmente il mito è alimentato dal rapporto dell’arte di Giulio Romano con l’antico che non sembra di emulazione, ma di autentica identificazione: egli esprime nel modo più diretto e con la massima naturalezza lo spirito dell’antichità pagana.
Giulio Romano entra giovanissimo nella bottega di Raffaello. Sono gli anni cruciali in cui a Roma operano artisti come Bramante, Michelangelo e lo stesso Raffaello che in ogni campo (architettura, scultura, pittura) mutano i destini dell’arte, dandole non solo nuove forme ma nuova dignità culturale. La sua formazione avviene dunque al più alto livello possibile: nel secondo decennio del Cinquecento, Raffaello – che presto individua nel giovane l’allievo più dotato e capace di autonomia – lavora a innumerevoli e importantissimi progetti architettonici e di decorazione.
In Vaticano, alla Farnesina, a Villa Madama e nelle altre molteplici commissioni che riceve, il maestro organizza il lavoro della bottega, prepara disegni, segue lo sviluppo dei lavori, interviene a correggere, ma affida anche agli allievi compiti di responsabilità; ciò consente a Giulio Romano, tra gli altri, di mettere immediatamente in pratica quanto va imparando.
L’attribuzione al maestro o agli allievi di singole sezioni delle opere prodotte in questi anni è una questione più che mai aperta e forse irrisolvibile, visto il metodo di lavoro della bottega e la capacità di Raffaello di ottenere un risultato unitario pur in tanta dispersione di cantieri e maestranze. Gli studiosi sono comunque concordi nel ritenere che Giulio Romano partecipi alle imprese degli ultimi anni, a partire dalla terza delle Stanze Vaticane detta "dell’Incendio di Borgo" (1514-1517), e nei dipinti da cavalletto realizzati contemporaneamente, tra i quali spiccano il Ritratto di Giovanna d’Aragona e la Sacra famiglia del Louvre, la Sacra conversazione detta la Perla, e la Madonna della quercia (entrambe al Prado).
Nonostante le difficoltà d’attribuzione, sono state individuate alcune tavole, sicuramente autografe, dipinte da Giulio Romano negli ultimi anni di vita di Raffaello o subito dopo la sua morte (1520). Sono molto interessanti perché vi si coglie lo sviluppo originale della sua arte. In due piccole opere, la Madonna con il Bambino e san Giovannino e la cosiddetta Madonna Hertz, il gruppo sacro, accostato con grande delicatezza, è ambientato nell’intimità di interni ombrosi; la pennellata è morbida e fluente, il cromatismo prezioso. A questo versante "affabile" fa riscontro un atteggiamento più complesso, caratteristico della maturità di Giulio Romano, che vediamo elaborato nelle due pale d’altare raffiguranti la Lapidazione di santo Stefano e la Madonna e Santi di Santa Maria dell’Anima. Benché per la prima si ipotizzi l’esistenza di un abbozzo di Raffello, entrambe sono opera dell’allievo, concluse nei primi anni Venti. Il chiaroscuro è accentuato in modo drammatico mediante il largo impiego del nerofumo, le forme sono modellate in modo scultoreo, la composizione è sbilanciata (si noti il forte stacco tra registro superiore e inferiore nel primo caso, la decisa asimmetria nel secondo). Dissonanze e contrasti sono evidenti anche nel trattamento del tema, poiché nel martirio del santo emerge una brutalità che travolge le regole di equilibrio e armonia imposte dal classicismo anche a questo genere di scene, mentre sullo sfondo della Sacra conversazione di Santa Maria dell’Anima sbuca una donna intenta a nutrire alcuni pulcini.
Pur partendo dalle premesse del maestro, Giulio Romano fa una cosa nuova rispetto a Raffaello. Alla limpida ricerca di armonia sostituisce il gusto per immagini dominate da un dissidio, attraversate da una tensione che coinvolge stile e contenuto. La citazione dei monumenti classici sullo sfondo (nella Madonna e santi compare una puntuale ripresa dei mercati traianei) rivela il gusto per l’antico come rovina, cui Giulio Romano è tra i primi a dare espressione e che sarà un importante motivo ispiratore della sua arte. Proprio attraverso un paragone con l’antichità si può intendere la distinzione tra Raffaello, la cui arte si ispira a ideali che sono affini a quelli dell’Atene del V secolo, e Giulio Romano, il quale avanza verso uno stile che è stato definito ellenistico, perché interessato alla cronaca e alla rappresentazione del reale.
Nonostante le diversità esistenti, dopo la morte del maestro egli viene visto dai contemporanei come suo erede artistico. Benché a fatica, ottiene l’incarico di portare a termine l’ultima delle Stanze Vaticane, la sala di Costantino (1521-1524), il cui progetto spetta probabilmente a Raffaello. Nelle grandi scene dipinte sulle pareti (in particolare la Battaglia, eseguita interamente da Giulio Romano) e nelle figure dei pontefici e delle Virtù che ne costituiscono l’articolata cornice, l’arte dell’ultimo Raffaello, più dinamica e tesa rispetto al passato, si incontra con quella del suo unico allievo in grado di concepire in proprio programmi di grande monumentalità.
Sembra che dopo la morte del maestro, Giulio Romano si trattenga a Roma in attesa dell’occasione, che tra 1523 e 1524 gli viene offerta da papa Clemente VII, di concludere la decorazione dell’ultima sala delle Stanze Vaticane, omaggio estremo all’amato Raffaello e prova delle proprie capacità.
Nel 1524 l’artista lascia Roma per Mantova, dove il marchese Federico II da tempo lo vuole insistentemente. A far da tramite per il trasferimento di Giulio è Baldassare Castiglione che lo accredita anche come architetto, visto che come pittore è già conosciuto e stimato.
I disegni inviati nel 1522 da Roma per il perduto Palazzo Nuovo di Marmirolo e il progetto per il monumento funebre dello stesso Castiglione (1523) sono una sorta di garanzia offerta al marchese.
Una volta a Mantova, nei primi due anni Giulio Romano si impegna a consolidare la sua posizione a corte soprattutto come architetto. Solo nel 1526 infatti è stabilmente assunto da Federico, pienamente soddisfatto, che lo nomina "prefetto delle fabbriche e superiore delle strade". Benché la sua attività sia sottoposta allo stretto controllo del signore e dei cortigiani più autorevoli, l’artista assume in realtà una posizione di monopolio che nemmeno Mantegna aveva raggiunto, e il cui unico termine di paragone possibile è la posizione di Raffaello a Roma nel secondo decennio del secolo. Vasari, che nel 1544 fa la conoscenza di Giulio Romano a Mantova, scrive che tra gli allievi di Raffaello egli era il "più fondato, fiero, sicuro, capriccioso, vario, abondante et universale; per non dire al presente, che egli fu dolcissimo nella conversazione, ioviale, affabile, grazioso, e tutto pieno di ottimi costumi". Come si vede sono caratteristiche professionali e umane che ne giustificano il successo: Giulio Romano è un perfetto cortigiano e come artista diventa indispensabile per la sua capacità di fornire, in breve, progetti per edifici sacri e profani, idee e cartoni per affreschi, stucchi, arazzi, ma anche disegni per argenterie, apparati effimeri, allestimenti teatrali e giardini. Pressato dalla fretta del committente (ci sono note lettere di Federico II molto eloquenti in tal senso), Giulio Romano si dedica quasi esclusivamente a progettare e dirigere i lavori; nessuno dei suoi collaboratori – a parte Francesco Primaticcio, che però resta a Mantova poco tempo – eccelle, anche perché egli è un maestro che non concede agli allievi grandi occasioni per rendersi autonomi, e in questo è molto diverso da Raffaello.
In pochi anni Giulio Romano costruisce e decora Palazzo Te, la sua creazione più bella e omogenea (1525-1534 ca.), e la palazzina della Paleologa (1531), crea inoltre l’appartamento di Troia (1536-1539) e progetta il corpo di fabbrica detto "la Rustica" in Palazzo Ducale, ristruttura e orna la propria casa (1540-1544). È impegnato sul versante dell’architettura religiosa soprattutto dopo la morte di Federico II, quando passa alle dipendenze del cardinale Ercole Gonzaga.
A partire dal 1540 si occupa del rinnovamento della chiesa abbaziale di San Benedetto in Polirone e nel 1545 intraprende i lavori nel duomo di Mantova.
Giulio Romano fornisce inoltre disegni per opere da realizzarsi in altre città: nel 1534 e nel 1540 prepara i cartoni per gli affreschi nell’abside del duomo di Verona e della chiesa della Steccata a Parma, dipinti rispettivamente da Francesco Torbido e da Michelangelo Anselmi; intorno al 1545-1546 propone una soluzione per la facciata di San Petronio a Bologna in collaborazione con Cristoforo Lombardo, architetto della cattedrale di Milano.
La sua attività, nota in tutta Europa anche grazie alla diffusione dei suoi disegni, nel 1546 gli frutta la nomina ad architetto della Fabbrica della basilica di San Pietro. Giulio Romano muore poco dopo: per un’amara ironia proprio a lui, romano, che secondo i contemporanei fa di Mantova una nuova Roma, non è concesso di tornare nella città alla cui storia passata e recente è ancorata ogni sua creazione.
Palazzo Te è considerato in modo unanime l’opera più rappresentativa del periodo mantovano, summa di quello spirito "anticamente moderno e modernamente antico" che Pietro Aretino coglie acutamente nell’arte del contemporaneo. Con una fantasia che sembra inesauribile, Giulio Romano provvede alle soluzioni architettoniche e decorative, ma interviene spesso, come non farà più, anche come esecutore. La struttura dell’edificio è improntata al repertorio classico, i cui motivi sono utilizzati con una libertà che è chiaro segno della consapevolezza dell’artista rispetto ai suoi modelli. Nella loggia di entrata, il raffinato decoro in stucco della volta si oppone alle grevi colonne appena sbozzate, mentre lungo l’edificio nella parete liscia e rifinita si inseriscono quasi a forza sezioni di bugnato rustico, a creare un accentuato contrasto e l’impressione di non finito. Di tanto in tanto, nel fregio dorico che corre lungo i muri, un triglifo "scivola" dalla sua posizione e appare in procinto di cadere, squilibrio evidentissimo a cui fanno riscontro numerose irregolarità e asimmetrie nelle serie di finestre o di arcate che interrompono l’ordine sintattico proprio del classicismo. Giulio Romano non mira a creare un nuovo linguaggio architettonico (ambizione che gli autori attribuiscono a Michelangelo), ma fa un uso spregiudicato e "antidogmatico" degli strumenti che la tradizione gli consegna. Questo accade anche perché egli ha una concezione molto concreta dell’architettura, è interessato alla salvaguardia dei rapporti tra interno ed esterno dell’edificio e, quando vi siano, cerca di integrare le preesistenze nella nuova struttura senza mascherarle.
Straordinaria libertà di azione Giulio Romano si concede pure all’interno dell’edificio. Villa dedicata all’"onesto ozio", come dichiara un’iscrizione che corre in una delle stanze, presenta una trama esuberante di decorazioni, destinate a compiacere e talvolta a impressionare e sorprendere. Nella Sala dei Cavalli, gli animali sono ritratti contro fondi di paese che si aprono come finestre in un apparato architettonico dipinto illusionisticamente nella parte alta delle pareti. Progettata e dipinta nei primi anni mantovani, la sala presenta – proprio nelle figure monumentali dei cavalli – una splendida prova di Giulio Romano pittore.
Nella successiva Sala di Psiche l’artista elabora un progetto fastoso e interviene di nuovo come esecutore per risolverne i punti più spinosi. La decorazione celebra il sentimento amoroso con scene tratte dal mito negli affreschi delle pareti, e con il labirintico racconto delle avventure di Psiche (dalle Metamorfosi di Apuleio) nelle lunette e negli ottagoni del soffitto. I livelli di lettura del programma iconografico sono molteplici e ancora non pienamente chiariti; alla molteplicità dei significati corrisponde comunque la capacità di Giulio Romano di intrecciare i percorsi visivi e di variare stile e tono della narrazione pittorica. Su due delle pareti si svolge senza soluzione di continuità la preparazione di un banchetto, forse destinato a celebrare le nozze di Amore e Psiche rappresentate sul soffitto. La scena è gaia e a tratti simile a un chiassoso baccanale, ben diversa dagli sfondati di cui dovrebbe costituire la conclusione. Gli ottagoni infatti, impreziositi da ricchissime cornici dorate, presentano scene immerse in un autentico notturno in cui le figure scultoree, illuminate da improvvisi bagliori, sono rese difficilmente leggibili dallo scorcio violento adottato da Giulio Romano che certamente vi interviene in prima persona.
Regno del contrasto e dell’imprevisto, Palazzo Te ha probabilmente il proprio apice nella Sala dei Giganti, dove l’artista agisce sulla struttura stessa dell’ambiente, eliminando gli angoli e voltando il soffitto perché manchino punti di riferimento certi a chi vi entra. La decorazione, contemporaneamente ipertrofica e centrifuga, presenta al livello dello spettatore le figure spropositate dei giganti precipitate dall’Olimpo e sommerse dal crollo di macerie.
La forma concava delle pareti e l’enorme mole delle figure vuol coinvolgere lo spettatore nell’immane sciagura, la cui spinta violenta verso il basso è opposta alla fuga vertiginosa del trono di Giove, da cui gli dei, di nuovo scorciati con impressionante virtuosismo, lottano o assistono alla disfatta.
A Palazzo Te Giulio Romano, meno che trentenne, nel momento stesso in cui mette a frutto come grande impresario gli insegnamenti di Raffaello, si allontana irrimediabilmente dal clima del pieno Rinascimento romano che già nel 1524 può dirsi una stagione conclusa.