RUCELLAI, Giulio
– Nacque a Firenze il 31 maggio 1702 da Cinzia Tantucci di Siena e da Paolo Benedetto, discendente di un’antica famiglia nobile fiorentina, non più dotata di grandi fortune, tanto che secondo Luigi Gualtieri (Firenze, Biblioteca nazionale, Palatini, 745) Rucellai da giovane non esitò a ricorrere ai sussidi caritativi erogati dai Buonuomini a vantaggio dei bisognosi.
Non si hanno notizie precise sulla sua infanzia. Intrapresi gli studi giuridici presso l’Ateneo pisano, si laureò in utroque iure nel 1727 con Bernardo Tanucci, allora straordinario di diritto civile, che fu il tramite attraverso il quale entrò in contatto con la cultura giusnaturalistica. Proprio al legame con Tanucci e altri allievi di Giuseppe Averani, Rucellai dovette l’immediata nomina, il 30 ottobre 1727, alla cattedra di istituzioni civili dello Studio pisano con incarico della lettura pomeridiana e stipendio di 120 scudi. Per quanto a lungo sia rimasto formalmente titolare della cattedra, in realtà tenne lezioni solo nel 1729 e nel 1730, senza peraltro ricevere il gradimento degli studenti. A partire dal 1729 venne designato come coadiutore dell’auditore del Regio diritto Filippo Buonarroti, forse proprio grazie all’interessamento di quest’ultimo, che si erse a protettore del ‘partito’ di Tanucci. L’iniziale stima di Buonarroti scemò tuttavia negli anni seguenti e, ciò nonostante, fu Rucellai a tenerne l’orazione funebre e a esserne designato successore nel 1735. Malgrado alcuni tentativi di sostituirlo, sarebbe rimasto in carica in quell’ufficio fino alla morte, per oltre quarant’anni, contribuendo alla sua progressiva organizzazione burocratica e specializzazione.
Non vanno però dimenticate le svariate esperienze in altri settori dell’amministrazione dello Stato toscano. Nel 1731 (e fino al 1735) ebbe l’auditorato di Monte San Savino, territorio privilegiato e dotato di ampia autonomia fin dall’età medicea. Come cittadino veduto di collegio da parte delle Tratte, fece parte di un ampio numero di magistrature fiorentine per i brevi mandati in cui i membri elettivi restavano in carica, talora ripetutamente nel corso della propria vita: fu per ben sei volte nell’ufficio degli Otto di guardia e Balìa (massima corte criminale dello stato vecchio), per sette volte nei Nove conservatori, l’istituzione che si occupava del governo del territorio, e altrettanto nel Magistrato supremo, tribunale del principe in campo civile. Fu anche senatore dal 1736 e dal 1745 segretario della Pratica segreta, tribunale avente la funzione di dirimere conflitti fra magistrature, enti o comunità dello Stato. Dopo la legge sulla nobiltà del 1750, di cui redasse l’anno prima due bozze scartate dal ministro Emmanuel de Nay conte di Richecourt, venne scelto come membro della Deputazione investita del compito di verificare la spettanza dei titoli nobiliari. Nel 1752 divenne cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano. Assieme con Pompeo Neri e Neri Venturi fu anche nella commissione nominata dal governo lorenese per la revisione delle leggi toscane e in tale frangente si occupò della riforma dei feudi. Dalla sua bozza di legge feudale – molto edulcorata poi da Richecourt –, così come anche dalla sua azione in seno alla Pratica segreta, si evince una forte inclinazione all’uniformazione giuridica dei feudi, alla predisposizione di meccanismi a garanzia delle popolazioni sottoposte ai feudatari e alla riaffermazione dell’esclusività della potestà legislativa e della giurisdizione maggiore in capo alla Corona.
Rucellai non ha lasciato opere giuridiche a stampa, ma innumerevoli, ricche e assai pregevoli sono le sue memorie e relazioni di carattere generale o su singoli affari, talora articolate a tal punto da fornire un affresco di un intero settore dell’ordinamento giuridico. Si distinse anche come estensore di testi legislativi su istituti e argomenti disparati. Apprezzato da Richecourt, ebbe rapporti burrascosi con buona parte del ceto dirigente e dei funzionari fiorentini, anche di impronta riformatrice, come Pompeo Neri, più moderato di Rucellai nella concezione dei rapporti con la Chiesa. L’amicizia con Tanucci fu forte fin dagli anni pisani, quando Rucellai curò l’edizione di un libello del maestro in risposta a Guido Grandi all’interno della polemica pandettaria; come dimostra il carteggio di Tanucci, il legame perdurò ben oltre il trasferimento di quest’ultimo al servizio dei sovrani regnicoli, ma fu attraversato da periodi di crisi, dovuti soprattutto alla diversità di vedute a proposito della politica ecclesiastica toscana. Per Tanucci, che accusò Rucellai di adorare un dio alieno e non Cristo e che gli affibbiò l’epiteto di ‘antipapa’, essa era troppo aspra e antiromana.
Proprio a causa del carattere piuttosto parziale, volubile e vendicativo, Rucellai fu nel corso della propria vita implicato anche in alterchi o episodi violenti, fra cui un duello, nel 1754, con il barone Francesco Del Nero. Non si sposò, né ebbe figli, ma coltivò relazioni sentimentali come quella, ricordata nelle lettere di Tanucci, con Margaret Rolle d’Hayton. Nel 1755 fu istituito erede dell’abate Luca Lippi, con la condizione di aggiungere il suo cognome al proprio.
Non vi è dubbio che Rucellai fu il principale artefice della politica ecclesiastica toscana, specie nel periodo della Reggenza, contribuendo al contenimento delle immunità e al conseguente recupero dei diritti e delle regalie nei confronti della Chiesa, sovente da lui qualificate come inalienabili e imprescrittibili. Al contempo notevole fu il suo influsso nella selezione degli aspiranti ai benefici ecclesiastici di giuspatronato regio. Le sue tendenze giurisdizionaliste emersero fin dai primi anni, sotto Gian Gastone de’ Medici. Con Buonarroti ancora in vita, nel 1731 fu protagonista all’interno di una controversia con la curia fiorentina a proposito della giurisdizione sulle confraternite laicali e sui laici stessi, nonché sull’estensione del privilegio di foro. Qualche anno più tardi si verificò l’episodio relativo al Conservatorio dei poveri, che papa Clemente XII intendeva erigere con proprio breve e che avrebbe compreso anche un istituto laico, trasformandolo in ecclesiastico, con un atto di giurisdizione che esplicava effetti su alcune magistrature fiorentine. La netta opposizione di Rucellai provocò una rottura con il padre Paolo, che accusò il figlio di ‘empia audacia’ e di ignoranza giuridica, ma anche una crisi con il papa, esponente della nobile famiglia fiorentina dei Corsini, che ne chiese invano le dimissioni.
Rucellai, supportato da Richecourt e poi da Antoniotto Botta Adorno, si fece più intraprendente nell’attacco alle prerogative di quello «stato dentro lo stato», com’egli definiva il clero, suscitando reazioni e annose controversie con presuli toscani più vicini alle posizioni romane, come Francesco Piccolomini e Giuseppe Du Mesnil.
Uno dei primi temi caldi fu il possesso di carceri ed esecutori distinti rispetto a quelli delle corti laiche, rivendicato dall’arcivescovo di Firenze e dall’inquisitore. Lo scontro con l’Inquisizione, inasprito dalle nuove norme toscane in tema di censura, si ricompose nel 1754 con un accordo con Roma, che consentì al granduca di applicare un regime giuridico analogo a quello veneziano. In una celebre memoria a Richecourt del 1745, Rucellai passò in rassegna l’intera materia ecclesiastica, delineando un quadro per molti rispetti (a esempio, sull’imposizione sui beni fondiari) non negativo e additando i due veri punti sui quali intervenire nel passaggio dei beni agli ecclesiastici e soprattutto nell’immunità dei luoghi sacri. Proprio in quell’anno fu incaricato di occuparsi del primo aspetto e nel novembre del 1748 di vergare una minuta della legge sulla manomorta, poi emanata nel 1751. Con essa, non solo le contrattazioni, bensì anche l’esperimento di azioni reali da parte degli enti ecclesiastici fu sottoposto al beneplacito del principe, inferendo un colpo mortale alle consuetudini che in diverse diocesi permettevano al clero di citare i laici nel proprio foro. A lungo fu impegnato nella battaglia contro l’abuso dell’immunità locale dei luoghi sacri, causa di impunità dei criminali, ma anche serio ostacolo alle perquisizioni per il rinvenimento di merci di contrabbando e all’accertamento del corpo del reato. Negli anni Cinquanta e Sessanta formulò svariate proposte al governo di Botta Adorno, mai accolte dalla S. Sede, in cui, senza addivenire alla cancellazione del diritto d’asilo, mirò a un suo contenimento e, in particolare, alla sottrazione ai tribunali ecclesiastici della giurisdizione in materia. Fu sua l’idea, poi accolta e trasformata in legge da Pietro Leopoldo nel 1769, di trasformare l’asilo in una causa di riduzione della pena a vantaggio del rifugiato reo di delitti, in omaggio all’intercessione ecclesiastica.
Sotto Pietro Leopoldo, altri traguardi evocati da Rucellai negli anni Cinquanta furono finalmente raggiunti, come la proibizione della bolla In coena Domini (1772) – osservata in Toscana pur non avendo mai avuto l’exequatur regio –, la parificazione fra il regime impositivo sugli ecclesiastici e sui loro beni con quello laicale (1775) o la sospensione del conferimento delle pensioni sui benefici ecclesiastici a vantaggio della Curia romana. Sulle carceri claustrali, moderò l’intento del granduca di abolirle, reputandole comunque indispensabili per assicurare la disciplina interna agli ordini regolari e spingendo per la loro sottoposizione al controllo dei giusdicenti laici. Nel 1776, chiamato a suggerire modalità per ridurre la giurisdizione della Chiesa, propose la trasposizione in Toscana delle soluzioni escogitate in Francia: pur se formalmente mantenuti in vita, i tribunali episcopali dovevano esser indotti a delegare a quelli secolari l’istruzione probatoria o vincolati al responso di un assessore laico, come poi statuì la circolare del 1778, ultimo grande contributo di Rucellai. In campo civile, la cognizione sul possessorio (ovvero sulla dimensione fattuale), riservata alle corti secolari, avrebbe preceduto quella sul petitorio, lasciata a quelle ecclesiastiche, e con tale espediente si sarebbero recuperate allo Stato le cause vertenti su alimenti, dote e separazione del talamo.
L’approccio di Rucellai può apparire contraddittorio, come rilevò Pietro Leopoldo negli appunti sul suo funzionario, se ci si pone su un piano astratto, mentre in realtà può ben dirsi pragmatico e centrato sul principio di preminenza della dimensione pubblica ed economica, intesa secondo le coordinate fisiocratiche. Il segretario del Regio diritto giocò spesso sul salto dal livello teorico a quello concreto e si nutrì di una prospettiva utilitarista, che affiora anche nella prefazione alla sua traduzione dell’opera Il tamburo di Thomas Addison, in cui affermò che la misura della virtuosità delle azioni doveva essere la loro utilità alla società. Così, non è raro notare che egli, dopo aver nitidamente individuato la radice del problema affrontato e la misura in grado di estirparla, ripiegasse su proposte ben più circoscritte e moderate, in considerazione dell’opportunità politica, delle circostanze di tempo e luogo, nonché dei prevedibili riverberi sul piano economico.
Proprio per questo la posizione di Rucellai solo raramente fu netta e inequivocabile. A proposito dello strumento concordatario, a esempio, per quanto molto avverso a una regolamentazione complessiva della materia ecclesiastica attraverso convenzioni con la S. Sede, anche alla luce degli scarsi risultati ottenuti dagli altri Stati italiani, egli non scartò a priori la possibilità di utilizzare questo mezzo per la disciplina dell’immunità locale, seguendo il modello napoletano. A renderlo perplesso fu in tal caso piuttosto l’analisi concreta della situazione toscana, che richiedeva un freno all’alto numero di reati minori, mai compresi nelle norme pattizie. Per Rucellai vi era una connessione, anche dal punto di vista statistico, fra i delitti leggeri e quelli gravi e per incidere sui secondi occorreva abbassare la frequenza dei primi.
Fu parimenti poco coerente l’aspra critica agli ‘stili’ curiali romani, che pure Rucellai talora ripropose nel suo operato concreto attraverso stratagemmi ed escamotages raffinati e vincenti. Un esempio assai degno di interesse è quello della manomorta: attraverso l’abile rinvio all’esperienza francese e alle dottrine di Jean Bacquet e Zeger Bernard van Espen, Rucellai, pur senza darne una definizione espressa, adottò una concezione larga di manomorta, facendovi rientrare ogni persona morale, laica o ecclesiastica, al fine di mascherare il reale obiettivo, quello di colpire proprio l’accrescimento della proprietà fondiaria e della ricchezza degli ecclesiastici.
Più in generale, i suoi scritti furono intrisi di concetti e valori illuministici e protoliberali, che si esplicarono su diversi piani e si manifestarono talora con affermazioni o soluzioni di evidente originalità rispetto a vasta parte della cultura riformistica operante nel periodo. Nei suoi diversi uffici, insomma, Rucellai appoggiò e caldeggiò l’espansione della sfera pubblica nei vari settori della società non già come fine per se stesso e quindi non con un intento prettamente filoassolutistico, bensì come passo funzionale a una maggiore uniformità e certezza giuridica, nonché in vista della tutela dei diritti dei singoli. Così, nel progetto di legge sulla nobiltà si mostrò legato alle antiche concezioni per le quali il titolo nobilitante era solo formalmente la volontà sovrana, mentre il reale criterio era costituito dal preesistente godimento di lungo corso del primo magistrato di una città nobile. Nel dibattito sulla riforma complessiva dell’ordinamento fu equidistante dalle velleità repubblicane e dal sostegno preconcetto dell’assolutismo e ritenne conciliabili l’assetto istituzionale toscano, al quale rivendicò un «fondamento costituzionale», e le esigenze della monarchia (Contini, 2002, p. 255).
Non è mistero la sua adesione alla loggia dei liberi muratori di Firenze, che egli peraltro difese nei confronti delle mire repressive dell’Inquisizione, sostenendo trattarsi di «cosa affatto secolare» (Morelli Timpanaro, 2003, I, p. 284), non concernente questioni di fede e pertanto ricadente sotto l’esclusiva autorità del sovrano. Nel 1739 Rucellai si profuse in una difesa di Tommaso Crudeli, accusato proprio per la sua appartenenza ai circuiti massonici, rimarcando con vigore come il reale obiettivo dell’Inquisizione fosse quello di colpire lo Studio pisano e rilevando il rischio della perdita dei capitali degli inglesi dimoranti a Livorno, spaventati dall’azione del tribunale della fede.
In materia di stampa, egli fu il vero artefice dell’editto promulgato nel 1743 che stabilì la priorità della censura laica su quella religiosa. Nella prassi, tuttavia, il rafforzamento del ruolo dell’autorità secolare era preordinato a favorire un regime di libertà di stampa e di introduzione di libri stranieri, pur escludendo che ciò degenerasse nell’offesa contro Dio e la società. La prospettiva di Rucellai era volta a contemperare le inevitabili esigenze di controllo sul fenomeno da parte di un principe che stava espandendo i propri poteri sulla società civile con l’interesse del commercio. Non casualmente, venti anni dopo Rucellai tornò in tema, propugnando la liberalizzazione della pratica delle edizioni clandestine.
Analoga fu la sua tensione verso il bilanciamento fra il rafforzamento del ruolo delle istituzioni pubbliche e la tutela di quella «libertà civile dell’uomo», che non esitò a definire come «il sommo bene» (Archivio di Stato di Firenze, Regio diritto, 381, c. 198). Ne è testimonianza palese la posizione di Rucellai a proposito del ‘governo della follia’. Negli anni Cinquanta egli spinse, attraverso l’ampliamento della Pia casa di Santa Dorotea, per una sovrintendenza diretta dello Stato sull’internamento dei ‘furiosi’ e la messa a disposizione di queste strutture di ricovero a vantaggio di tutti, ma considerando tutto ciò come strumentale allo sradicamento degli abusi nella reclusione, equiparata a una «carcerazione perpetua» (Roscioni, 2003, p. 131). Assai scettico fu sull’opportunità di erigere una casa di correzione a Livorno, nella quale si volevano ospitare non solo i ‘discoli’, ma anche orfani e allievi della scuola di marina, che avrebbero risentito negativamente della convivenza con soggetti inclini alla criminalità.
Tutt’altro che celate furono le sue idee favorevoli alla libertà di coscienza, e concreto fu l’appoggio dato da Rucellai a una politica di tolleranza religiosa, senza ledere il ruolo dominante della religione cattolica. Ne fa fede l’atteggiamento di protezione nei confronti della comunità ebraica, in particolare verso i battesimi forzati dei bambini e i tentativi di conversione, riguardo ai quali manifestò la contrarietà all’apertura di una casa di catecumeni a Livorno. Per quanto a cuore del ministro toscano stesse in primis l’aspetto economico, nelle relazioni non lesinò ad affermare che un «corpo di nazione eterodossa» avrebbe potuto esercitare il proprio culto «compatibilmente col sistema dello stato in cui» dimorava (Frattarelli Fischer, 2008, p. 54). Tale convinzione lo portò a favorire, nel 1756, l’apertura di una chiesa per la comunità ortodossa di Livorno, pur senza accesso pubblico dalla strada. In tale occasione ebbe a scrivere all’arcivescovo di Pisa Francesco Guidi che la libertà di coscienza era «prima base della grandezza de’ paesi», come pure della loro crescita demografica ed economica, e che, a certe condizioni, non era irrazionale concedere libertà di culto ai «calvinisti, e i turchi ancora, se questi avessero un corpo di nazione in Livorno» (Archivio di Stato di Firenze, Regio diritto, 374, c. 446).
In materia criminale, assai precocemente, in un discorso tenuto nel dicembre del 1764, stando alle Efemeridi di Giuseppe Pelli, Rucellai si schierò a fianco di Cesare Beccaria, lamentando l’influsso esercitato su tale ramo dal diritto canonico, ma anche l’eccesso di arbitrio in capo ai giudici e sostenendo la mitigazione delle pene e la restrizione della condanna capitale ai soli casi di lesa maestà. Del resto, già in precedenza aveva dato saggio delle sue idee. In una memoria del 1759 (Regio diritto, 375) rigettò la categoria giuridica dei delitti di misto foro in quanto legittima solo in relazione a tribunali dello stesso genere e con eguale giurisdizione, cosa che non si poteva riscontrare fra corti ecclesiastiche e laiche, in quanto aventi origine e finalità distinte. Nel 1763, sulla scorta di Ugo Grozio, aveva affermato la punibilità dei soli atti esteriori (Landi, 2000, p. 355).
Non si fatica, in ordine a quanto detto, a comprendere la riluttanza di Rucellai nei confronti dei progetti leopoldini di Chiesa nazionale, ispirati a un giurisdizionalismo pervaso di venature gianseniste e assai più propenso a un’ingerenza diretta nella sfera religiosa, più che strumentale al raggiungimento di una separazione fra i due poteri. Ecco dunque lo scetticismo di Rucellai, fin dal 1766, per i propositi, che andavano ben oltre l’imposizione della riallivellazione obbligatoria dei beni della manomorta ecclesiastica, visti come atti a rovesciare il sistema politico. Per il segretario del Regio diritto le disposizioni vigenti avevano già assicurato la restituzione al commercio delle terre di proprietà del clero e dunque la loro produttività. Come rilevato da Giorgio Giorgetti (1977), di lì a poco Francesco Maria Gianni manifestò sintonia con le posizioni di Rucellai, che portarono a una nuova politica agraria, centrata sulla riforma dell’enfiteusi. La stessa diminuzione degli ecclesiastici non era il vero obiettivo da perseguire, quanto l’uniformazione del loro status «a livello di tutti gl’altri sudditi rispetto alle loro persone, e a loro beni», cosa che avrebbe reso ininfluente la presenza di un clero numeroso. Egualmente, nel 1771, sconsigliò l’adozione di misure volte ad alzare l’età delle professioni religiose e a escludere l’accesso di religiosi stranieri: le prime in quanto inefficaci, poiché incapaci di incidere nel foro interiore e quindi di vincolare i destinatari; le seconde perché atte a provocare una riduzione della spesa (e pertanto deleterie per l’economia) e a sottrarre alla nazione potenziali formatori per il popolo e lettori universitari. Per le stesse ragioni si disse contrario anche alla soppressione dei ‘conventini’ e la sua presa di posizione ebbe eco fuori dei confini toscani, al punto che il cardinale Vincenzo Malvezzi gli scrisse per avere copia di quella «dotta e robusta scrittura» (Archivio di Stato di Firenze, Regio diritto, 435) con cui aveva dissuaso il granduca.
Non può tacersi la spinta di Rucellai, fin dal 1743, per la costituzione di un ‘terzo stato’ femminile, spezzando la classica alternativa fra vita coniugale e professione religiosa, con l’erezione di strutture comunitarie destinate a fornire un’educazione alle donne. Quanto ai monasteri femminili, sollecitò l’abolizione delle doti monastiche e nel 1764 ottenne la ripubblicazione della legge di Cosimo I e la riattivazione della Deputazione sui monasteri, diretta a controllare l’amministrazione dei loro patrimoni, passo che doveva assicurare un loro utilizzo più consono all’economia pubblica.
Indiscutibile fu la penetrazione in Rucellai dei classici del pensiero giusnaturalista, in particolare Grozio e Samuel von Pufendorf. Così, egli sostenne l’istanza della comunità inglese a Livorno di esser dichiarata capace delle successioni. Di contro all’incapacità comunemente affermata dalla giurisprudenza di diritto comune per gli eretici, Rucellai argomentò in base a Grozio l’applicabilità alla ‘nazione forestiera’ del diritto delle genti, dal quale discendeva il loro inquadramento come ‘sudditi temporari’ e di conseguenza il pieno godimento del diritto di testare, di succedere mortis causa e di compiere liberamente ogni contrattazione (Archivio di Stato di Firenze, Regio diritto, 321). Dall’esistenza di una serie di norme penali valide per ogni popolo (relative a un nucleo di delitti gravi, identificati poi tramite il diritto romano), seguendo la dottrina groziana, trasse argomento per sostenere i trattati di estradizione che si stavano diffondendo fra i diversi Stati della penisola.
Senza dubbio assai rilevanti furono le sue capacità di analisi e di sintesi, a partire dalla ricostruzione delle fattispecie, per la quale si avvalse della dimestichezza con la dottrina giuridica, mai usata in modo pletorico, ma anche del metodo storico-critico, secondo i canoni della giurisprudenza erudita giurisdizionalista, senza però porre su questo terreno la disputa con Roma. Sempre più confidenziale fu l’impiego dei dati provenienti dall’archivio del Regio diritto e delle Riformagioni, frutto di una ulteriore messa a punto della già praticata tecnica di elaborazione di indici e regesti. Magistrale fu una relazione del 1776 nella quale, gettando uno sguardo sul passato, osservò acutamente l’impossibilità di parlare di un sistema di diritto ‘giurisdizionale’ (Archivio di Stato di Firenze, Reggenza, 285) sotto il regime mediceo (un «Codice giurisdizionale costante e certo»), poiché tale ramo di affari era considerato come meramente politico e trattato «ora in una forma ora nell’altra». In quel contesto, il controllo sulla Chiesa era imperniato soprattutto sull’exequatur, che Rucellai definì come una vera e propria «legge fondamentale» (Archivio di Stato di Firenze, Regio diritto, 374), per quanto non scritta e che egli peraltro contribuì a rafforzare sotto i Lorena.
Ebbe una buona cultura umanistica, testimoniata dalla conoscenza delle lingue greca e latina, come anche del francese e dell’inglese. I suoi interessi letterari trovarono una manifestazione nella sua appartenenza all’Accademia degli Apatisti e nell’attività di drammaturgo, per la verità tutt’altro che fortunata, anche se gli valse la dedica della Locandiera di Carlo Goldoni. Si segnalano in particolare la commedia Il misantropo a caso maritato (Bologna 1748) e la traduzione dell’opera citata di Addison The drummer.
La sua vastissima biblioteca, oltre a un cospicuo numero di volumi di area giuridica e politica, conteneva altresì ragguardevoli collezioni di classici, storia, geografia, ma anche titoli in ambito chirurgico e matematico, segno di interessi rivolti anche al campo scientifico. Del resto, è ben nota la sua amicizia con il medico Antonio Cocchi, nelle cui carte si conservano disegni di Rucellai che rappresentano operazioni chirurgiche e fasciature. Rucellai, inoltre, propugnò attivamente il restauro dei bagni termali di San Giuliano.
Morì a Firenze il 10 febbraio 1778, dopo aver sofferto diverse settimane di ‘idropisia di petto’. Nel testamento, risalente al 1775, dopo aver disposto la sezione del suo cadavere, lasciò la propria eredità al nipote Giovanni Pietro e alcuni legati alla sorella Maria Deodata e alle nipoti Cintia e Lavinia.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Raccolta Sebregondi, 4623; Ceramelli Papiani, 4134; il testamento è nel Notarile moderno, prot. 27523, cc. 16v-21v; le relazioni sono conservate soprattutto nel fondo Regio diritto , ma anche in Consiglio di Reggenza (una raccolta dal titolo Vota Iulij Oricellarii è in Reggenza, 285) e nella Segreteria di stato leopoldina; l’attività di segretario della Pratica segreta è documentata nell’omonimo fondo; altre collezioni di documenti in materia ecclesiastica sono presso la Biblioteca Moreniana di Firenze (soprattutto Frullani, 41); il carteggio con Tanucci è edito in B. Tanucci, Epistolario, I-XX, Roma (poi Napoli) 1980-2003.
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