SADOLETO, Giulio.
– Come attestano gli atti inquisitoriali a suo carico, fu figlio del banchiere e notabile modenese Ludovico.
I dati relativi alla sua famiglia si possono ricavare, oltre che dagli incartamenti processuali, da alcuni passaggi degli annali cittadini. Il 20 maggio 1533 il cronista Tommasino de’ Bianchi annotò infatti la morte precoce di Ludovico, appena trentaduenne, ricordando che l’uomo, «belo de corpo, doto in litre latine et in l’arte dela prospetiva et de la architetura e [...] benissimo accomodato de facultà», aveva lasciato dietro di sé un unico figlio di circa otto anni e «la mogliere zovene» (de’ Bianchi, IV, 1866, p. 275). Sebbene non ne venissero fatti i nomi, si trattava con ogni evidenza di Giulio, la cui data di nascita si può dunque fissare intorno al 1525, e di quella Margherita degli Erri che, dopo quattro anni di vedovanza, sarebbe passata in seconde nozze con l’umanista modenese Filippo Valentini (l’unione fu celebrata il 1° settembre 1537; de’ Bianchi, V, 1867, pp. 335 s.). Giulio era pertanto strettamente imparentato con un illustre esponente del Sacro collegio – il cardinale Iacopo, suo zio per parte di padre – e con il futuro vescovo di Carpentras, Paolo, suo cugino.
Segnalatosi per avere partecipato al movimento eterodosso della città natale e, in particolare, alla cosiddetta comunità dei ‘fratelli’ modenesi, fu indicato come uno dei capi del dissenso religioso, nonostante il suo ruolo fosse, per contro, relativamente defilato. Forse fu ritenuto tra gli esponenti più autorevoli per le ricchezze di cui poteva disporre e per i traffici commerciali che gli consentirono di mantenersi aggiornato sulle principali novità religiose dell’epoca. I processi celebrati dall’Inquisizione di Modena nei decenni centrali del Cinquecento rivelano i contatti che tenne soprattutto con i vertici della comunità. Additato da molti come ‘lutherano’, ammise, almeno in parte, le sue deviazioni dall’ortodossia davanti al vescovo Egidio Foscarari (1550-64) che lo assolse in via straordinaria grazie agli speciali privilegi conferitigli da Giulio III.
Con l’ascesa al soglio pontificio di Pio V Ghislieri (1566-72) e la progressiva definizione della frattura confessionale, il clima andò inasprendosi e la stretta inquisitoriale si fece più salda. I giudici di fede si misero sulle tracce di Sadoleto, approfittando della delazione del suo fattore, Giovanni Battista Ingoni. Dopo averlo denunciato nel 1564 all’inquisitore di Ferrara Camillo Campeggi, nel febbraio-marzo del 1568 Ingoni aveva ritrattato la sua versione sotto le minacce di Sadoleto, «huomo terribile et solito a vendicarsi» (Archivio di Stato di Modena, Inquisizione, 6, f. 12; deposizione del 5 marzo 1568). Convocato presso il tribunale di Modena, il fattore ribadì le accuse formulate quattro anni prima, revocando la precedente ritrattazione. Per quanto è possibile ricostruire, oltre all’amicizia con Giacomo Graziani, esponente di spicco del dissenso modenese, a Sadoleto fu imputato di non frequentare la messa – contro cui si era ripetutamente pronunciato –, di considerare il papa come la bestia profetizzata dall’Apocalisse e di non credere nella presenza reale nell’eucarestia (durante una celebrazione, nei primi anni Sessanta, si fece scherno del sacramento con queste parole: «Sentite che Christo ha ben da venire un’altra volta [alla fine dei tempi] et costoro [i preti] vogliono che venghi ogni dì et ogni qual hora nelle hostie che consacrano in questa chiesa et in quell’altra, in Franza, in Spagna et altri luochi», Archivio di Stato di Modena, Inquisizione, 6, f. 12; deposizione del 18 marzo 1568).
Avendo visto fuggire verso i Grigioni la maggior parte dei capi della comunità dei ‘fratelli’ e comprendendo che le possibilità di salvarsi si assottigliavano, Sadoleto si convinse a imboccare la via dell’esilio. L’ultima attestazione della sua presenza in città risale al 10 febbraio 1569, giorno in cui riceveva dalle mani del suo amministratore Spinazzo Seghizzi 12.000 ducati provenienti dalla vendita dei suoi beni mobili. Erano a tutti gli effetti i prodromi della fuga che lo avrebbe definitivamente portato lontano da casa. Già all’inizio di giugno, se non prima, si trovava in terra riformata, nella convinzione – come rivelò a un confidente modenese, Nicolò Grassetti – di essere ingiustamente perseguitato. In una lettera scritta all’amico da Francoforte il 9 novembre, espose i suoi piani: trattenersi nella città tedesca fino alla Quaresima successiva, quindi spostarsi a Carpentras per celebrare la Pasqua con il cugino Paolo e «poi tornarmene a Modena, nella qual città non per stanciarvi, havendo io sempre havuto desiderio di abandonarla [...], né mai più tolererei habitarvi più di un mese in doi» (lettera in Archivio di Stato di Modena Inquisizione, 1, f. 7). Quelle parole suonavano come un presagio, dato che il 17 novembre 1569 fu convocato dall’Inquisizione modenese – convocazione cui non avrebbe mai risposto. Il 17 febbraio 1570, secondo ciò che aveva progettato, stava per incamminarsi alla volta di Lione per incontrare il cugino e di lì rientrare in patria.
È tuttavia verosimile che Sadoleto non rimettesse più piede a Modena: nell’autunno del 1570, infatti, gli inquisitori lo dichiararono contumace e scomunicato (8 ottobre), decretando il 27 dicembre 1571 sia il rogo in effigie, sia la confisca dei beni.
Le sue disavventure continuarono anche Oltralpe: nel giugno del 1571, mentre era in corso il processo inquisitoriale, fu convocato davanti al sinodo di Chiavenna, la città riformata dove si era rifugiato. Le autorità ecclesiastiche gli chiesero conto di quanto era accaduto nel gennaio precedente, quando Scipione Lentolo e altri membri del concistoro chiavennasco avevano condannato l’eretico Giovanni da Modena – con ogni probabilità l’eterodosso Giovanni Bergomozzi, uno dei capi della comunità dei ‘fratelli’ modenesi – per avere professato la dottrina dell’impeccabilità dei rigenerati. In aperto contrasto con la decisione di seppellirlo senza riti religiosi, il ministro di Piuro Girolamo Turriani organizzò una cerimonia funebre, officiata dallo stesso Sadoleto che, a riprova dei rapporti intessuti con personaggi sospetti, l’8 giugno 1571 aveva tra l’altro conferito una procura per la gestione dei suoi affari a Pietro del Torchio e Giovanni Angelo Stampa, residenti a Chiavenna, e al mercante di stanza a Piuro Niccolò Camulio, di aperte simpatie anabattiste.
A ogni modo, negli anni che seguirono Sadoleto ammorbidì le proprie posizioni, distaccandosi dalle frange più radicali e diventando un membro attivo della Chiesa elvetica. Nel 1589 riuscì così a ottenere l’aiuto dell’avversario di un tempo, Lentolo, che raccomandò due dei suoi nove figli a Johann Jakob Grynaeus, perché li accogliesse e li istruisse. A quella data, Sadoleto si trovava ormai nei Grigioni da venti anni e, nello stesso periodo in cui indirizzava i figli a Grynaeus, risultava tra gli abitanti di Morbegno, dove svolgeva l’ufficio di pastore, affiancato dalla moglie Giulia.
Morì nel 1590, probabilmente a Morbegno, in condizioni di notevole agiatezza.
Malgrado la florida situazione economica, non smise mai di provare a recuperare i beni lasciati in Italia: il 30 agosto 1575 e il 15 gennaio 1579 i governanti di Coira scrissero ad Alfonso II d’Este per caldeggiare le richieste dell’esule e anche uno dei suoi figli, Giacomo, nel 1596 si presentò davanti all’Inquisizione modenese per abiurare, con l’evidente intento di riabilitarsi e rientrare in possesso dei beni di famiglia. Le cose però si complicarono: due anni dopo il giovane ingaggiò una lite con il parente Ottavio Sadoleto per ottenere la metà dei redditi derivanti dai possedimenti nella campagna di Corlo, a pochi chilometri da Modena. Non dandosi per vinto, Ottavio mandò due emissari in Valtellina per raccogliere informazioni sulla condotta di Giacomo e scoprirne i reali convincimenti: gli agenti accertarono che viveva ancora secondo la fede riformata, che una delle sue sorelle era stata data in sposa a un membro della famiglia dei Moscone (anch’essi esuli religionis causa) e che a Morbegno i Sadoleto avevano una spezieria ed erano dediti all’attività di prestito. Dimostrata dunque la pretestuosità e l’inconsistenza del ritorno di Giacomo al cattolicesimo, Ottavio riuscì ad avere la meglio.
Nei decenni successivi, i discendenti di Sadoleto erano ancora radicati nei cantoni svizzeri: nel 1620-22 si trovava a Ginevra un Giulio proveniente da Traona e, nel 1632, si registrava la presenza di un certo Camillo.
Delle lunghe traversie ereditarie dell’eretico modenese resta un’eco in un manoscritto di Giacomo Castelvetro, nipote del celebre Ludovico: i Pezzi d’historia, cioè diversi lieti et tristi avenimenti accaduti a’ prencipi da Este. Castelvetro affermò di aver udito personalmente da Giulio Sadoleto un consiglio che il duca di Ferrara avrebbe dato ai dissidenti dei suoi Stati: fuggire in attesa di poter rientrare in patria e recuperare i propri beni alla morte del papa.
Fonti e Bibl.: Il processo a Sadoleto è in Archivio di Stato di Modena, Inquisizione, 6, fasc. 12; il processo al figlio Giacomo, ibid., 9, fasc. 4. Per i contenziosi sui beni di Sadoleto Archivio di Stato di Modena, Archivio per materie, Letterati, 58; Modena, Biblioteca Estense universitaria, Fondo Campori, gamma. G.4.36.
T. de’ Bianchi detto de’ Lancellotti, Cronaca modenese, IV, Parma 1866, p. 275; V, 1867, pp. 335 s.; A. Mercati, Il sommario del processo di Giordano Bruno con appendice di documenti sull’eresia e l’Inquisizione a Modena nel secolo XVI, Città del Vaticano 1942, p. 144; A. Pastore, Nella Valtellina del tardo Cinquecento: fede, cultura, società, Milano 1975, ad ind.; A. Biondi, La «Nuova Inquisizione» a Modena. Tre inquisitori (1589-1607), in Città italiane del ’500 tra riforma e controriforma, Lucca 1988, p. 65; D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento e Prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento (1939), a cura di A. Prosperi, Torino 2002, p. 310; E. Fiume, Scipione Lentolo (1525-1599). Quotidie laborans evangelii causa, Torino 2003, pp. 147, 184; C. Franceschini, Nostalgie di un esule. Note su Giacomo Castelvetro (1546-1616), in Cromohs, VIII (2003), pp. 1-13; A. Rotondò, Esuli italiani in Valtellina nel Cinquecento (1976), in Id., Studi di storia ereticale del Cinquecento, II, Firenze 2008, pp. 425-432; M. Al Kalak, L’eresia dei fratelli. Una comunità eterodossa nella Modena del Cinquecento, Roma 2011, ad indicem.