UBERTI, Giulio
– Nacque il 5 settembre 1806 a Brescia da Uberto, impiegato pubblico, e da Marianna Albrizzi. Ebbe due fratelli, Giacomo e Vincenzina. Il padre morì per colera nel 1836.
Visse i primi anni tra Brescia e Gargnano sul lago di Garda dedicandosi, da giovane, «agli esercizj ginnastici ed artistici di mimica [...] e ballo e di musica vocale» (Camerini, 1871, p. XX), come scrive in alcune note autobiografiche, con l’intenzione di darsi al teatro, in questo incoraggiato da Saverio Mercadante. Per assecondare la famiglia, rinunciò a calcare le scene e si laureò in legge, non esercitando però mai la professione e rifiutando qualsiasi impiego, geloso della propria indipendenza. Trasferitosi a Milano, si guadagnò da vivere dando lezioni di letteratura e di declamazione musicale e incominciò a pubblicare versi. Tra il 1841 e il 1842 uscirono due poemetti in endecasillabi sciolti di ispirazione pariniana, L’Inverno (Milano 1841) e La Primavera (Milano 1842), dove l’autore riprendeva in maniera piuttosto scolastica e moraleggiante lo stile e i temi del Giorno di Giuseppe Parini seguendo gli insegnamenti di Cesare Arici, poeta classicista bresciano, che gli era stato maestro.
Si tratta di un’opera con qualche ambizione, dove però la satira delle famiglie signorili milanesi, sulle orme pariniane, raggiunge solo occasionalmente una certa efficacia descrittiva nel tratteggiare teatri e salotti della città lombarda.
Pochi anni dopo Alcune liriche (Vienna 1845), elegante raccolta ornata di incisioni, sin dalla veste grafica denotava un cambiamento degli argomenti e il passaggio di Uberti alle modalità e al gusto del romanticismo, ormai dominante: le poesie erano intitolate a grandi personaggi – a esempio George Washington, eroe benefico per il suo popolo, contrapposto a Napoleone Bonaparte assunto come figura negativa – e il modello metrico era Alessandro Manzoni, da allora suo punto di riferimento, insieme a George Gordon Byron e Victor Hugo.
Intanto si avvicinò a Giuseppe Mazzini, condividendone l’ideale politico e la concezione dell’arte, interpretandola come esaltazione di una missione poetica rivolta a cantare le vicende della patria e a ispirare i valori della democrazia. Nelle memorie autobiografiche allude a un coinvolgimento nella rivoluzione del 1848 (Camerini, 1871, p. XXIII) e a successivi problemi con le autorità austriache: probabilmente subì l’esilio, come sembra testimoniare la poesia Dal Canton Ticino alla patria datata 1849 (G. Uberti, Poesie edite e inedite, 1871, p. 35). Nel 1859 stampò a Milano a sue spese la lirica Garibaldi per raccogliere finanziamenti in aiuto della spedizione garibaldina.
La passione politica, espressa in toni concitati e su moduli stilistici di maniera, costituì il filo conduttore delle opere successive: Liriche (Milano 1862), Trilogia americana (Milano 1865) e Poesie edite e inedite (Milano 1871), raccolta che riuniva testi pubblicati precedentemente, a volte con qualche variazione, facendoli precedere da una lunga lettera elogiativa di Mazzini e da una nota biografica di Eugenio Camerini. Pubblicò poi Polimetro - Avvenimenti italiani dal 1859 al 1874 (Milano 1875).
Morì suicida a Milano, nella sua casa al numero 22 di via del Conservatorio, il 19 novembre 1876, forse in seguito alla delusione per l’amore impossibile nei confronti di una giovane inglese cui dava lezioni di declamazione.
Leone Fortis, pochi giorni dopo, dedicandogli nell’Illustrazione italiana (1876) una delle sue Conversazioni, ne parlava con rispetto e con una punta di nostalgia, definendolo affettuosamente «il poeta di una volta» (p. 402).
Di Uberti, figura singolare ed eccentrica, ci ha lasciato un vivido ritratto Giuseppe Cesare Abba, che ne ricorda il fisico vigoroso, l’abilità nella scherma, la personalità passionale, il carattere franco e impulsivo. La sua opera godette del favore critico di personaggi dagli orientamenti molto diversi che ne apprezzavano la sincerità degli intenti e dell’impegno politico come, per esempio, Camerini e Niccolò Tommaseo. Pubblicando un insieme di poesie dedicate a Napoleone, in occasione del centenario della nascita, Giuseppe Rovani accostò l’ode di Uberti a quelle di Ugo Foscolo, Manzoni, Alphonse-Marie-Louis de Lamartine; su di lui scrisse anche Giosue Carducci (1889), che vedeva la sua poesia come un attestato delle «vicende del sentimento e del gusto italiano lungo i primi cinquant’anni del secolo» (p. 275). Un giudizio condivisibile, perché il valore di questo poeta è soprattutto nella sua rappresentatività, non solo sul piano dell’evoluzione stilistica, ma anche su quello di una modalità espressiva che metteva i versi al servizio del patriottismo repubblicano. La sua opera costituisce una sintesi dei motivi ricorrenti nella mitologia di parte democratica – da Venezia schiava all’esaltazione degli eroi ai tradimenti dei moderati –, riallacciandosi a quella tradizione poetica che, per dirla con le parole di Camerini (1875), «ebbe tanta parte al risorgimento dell’antico valore italiano» (p. 201), peccando spesso, è il caso di aggiungere, di una retorica ripetitiva e artificiosa.
Fonti e Bibl.: E. Camerini, Cenni critici e biografici, in G. Uberti, Poesie edite e inedite, Milano 1871, pp. XIII-XXIX; E. Pozzi, Biografie e paesaggi, Lecco 1874 pp. 123-150; E. Camerini, Nuovi profili letterari, II, Milano 1875, pp. 192-208; L. Fortis, Conversazioni, in L’Illustrazione italiana, 26 novembre 1876, pp. 402 s.; G. Carducci, Bozzetti e scherme, Bologna 1889, pp. 275 s.; A. Mozzinelli, G. U. e un pensiero critico di G. Carducci, Modena 1910; D. Bulferetti, Un poeta garibaldino, in Garibaldi e i garibaldini, I (5 maggio 1910), 1, pp. 31-65.