GIUOCO
(lat. iocus; fr. jeu; sp. juego; ted. Spiel; ingl. play). -
Sommario. - Filosofia e pedagogia (p. 334). - Giuochi degli animali (p. 335). - Giuochi dei primitivi (p. 336). - Giuochi nell'antichità classica (p. 337). - Giuochi nel Medioevo (p. 339). - Giuochi nell'età moderna: Giuochi popolari (p. 341); Giuochi fanciulleschi (p. 342); Giuochi di società (p. 343); Giuochi di carte (p. 344); Giuochi matematici (p. 351). - Diritto: Giuoco e scommessa (p. 353); Repressione penale del giuoco d'azzardo (p. 353).
Filosofia e pedagogia.
Il giuoco è un aspetto della vita umana universalmente diffuso nel tempo e nello spazio, vario di forme, e di natura estremamente complessa, giacché in esso gli elementi biologico, psicologico, sociologico, spirituale s'intersecano e si sovrappongono, secondo un significato e una funzione affatto particolari, il cui valore antropologico muta tuttavia in riguardo all'età, alla classe, alle condizioni di civiltà e di cultura.
Per determinarne la natura, l'antropologia positivista ha anzitutto studiato il giuoco negli animali (v. appresso). Sono state in seguito poste in rilievo - spesso sotto un'errata forma definitoria - le condizioni biologiche (esuberanza di energia: H. Spencer), psicologiche (l'imitazione: Spencer, W. Wundt, G. J. Romanes; la tendenza costruttrice e creatrice: K. Groos, G. A. Colozza), sociologiche (disposizioni ataviche: Halls) del giuoco. È stato illustrato il finalismo a esso immanente, la sua funzione nella vita fisica, psichica e spirituale, sia come riposo attivo (J. Schaller, M. Lazarus), sia come ristabilimento di equilibrio tra attività fisiche e psichiche (F. A. Lange), sia come processo di esercitazione e di autoformazione dell'individualità (Groos). Ma la natura del giuoco umano, la sua legge di sviluppo e d' influenza non può derivarsi dagli aspetti e dal senso del giuoco negli animali, né definirsi secondo suoi elementi o significati particolari. Essa deve piuttosto ricercarsi nella forma caratteristica dell'attività umana che in esso si esprime e si concreta. L'attività umana può venir considerata sotto tre aspetti, che, pur intersecandosi spesso nell'azione reale, presentano tre gradi o momenti diversi della sua effettiva libertà sull'ordine naturale.
Il primo, che caratterizza appunto il giuoco, è l'affermazione spontanea delle energie - così fisiche come psichiche - indipendente dall'interna centralità personale, indifferente alla natura obiettiva del reale, che appare qui solo come il campo del loro esercizio, il quale muta scopi, direttive, intensità, secondo il ritmo di una vita sciolta da ogni concreto e definito ordine di fini. L'altro aspetto, che diremo tecnico, si può considerare in genere come il lavoro; il terzo, infine, è l'aspetto propriamente spirituale dell'attività in quanto essa è l'atto di puri valori ideali.
La forma d'attività caratteristica del giuoco è nei fanciulli originaria e dominante, come quella in cui la loro vita si libera dal finalismo cieco dell'istinto, sollecita ed esprime senza ordine e con piena indipendenza sulle cose le energie e le tendenze non ancora organizzate a personalità. Essa vive in ogni atto e in ogni pensiero del fanciullo, dinamica, mutevole, ma, perciò stesso, raramente è fine a sé stessa: nell'intreccio irriflesso delle sue manifestazioni viene progressivamente tentandosi e sostituendosi la personalità, e in ciò essa trova il proprio termine ideale. In tale fine superiore, benché ignoto all'anima del fanciullo, sta la ragione della gioia e della soddisfazione piena che esso ritrae dal giuoco. Negli adulti invece il giuoco rappresenta un'interruzione all'attività normale, come riposo, oblio dei compiti determinati in una sfera di artificialità, di primitività, di fantasia, in cui si dissolve la flssità dei rapporti tra la persona e il mondo e la solida struttura pragmatica dell'uno e dell'altro. Perciò il giuoco stesso si presenta qui nei limiti ben definiti di forme giustificate dal suo scopo e consentite dalle convenienze sociali, mentre il suo piacere ha una tonalità spesso artificiosa e un'azione a volte deprimente.
Il determinarsi del giuoco in forme concrete si può considerare a volte come il risultato naturale dello spontaneo, indipendente esercizio delle energie fisiche e psichiche, che gode della sua perfezione (giuochi di forza, di agilità, ecc.), ma spesso rappresenta la creazione di un'atmosfera fantastico-emotiva (giuoco a rincorrersi, a rimpiattino, giuochi di sorpresa) in cui si esercita la capacità ideatrice e costruttrice; e più spesso ancora è il prodotto di un processo di riduzione delle concrete forme della vita, sia che si astraggano da esse, svuotandole dell'originaria serietà, elementi particolari (per es., giuochi derivanti da cerimonie religiose); sia che si riproducano deformandole o semplificandole in modo da adattarle alla natura del giuoco (giuochi d'imitazione).
Il processo di cristallizzazione del giuoco in tali forme che isolano l'attività personale dall'influsso e dal controllo degl'interessi pratici normali, è ottenuto naturalmente con l'introdurre in essi una finalità particolare, per mezzo del rischio, della gara, del premio, della penitenza. E questo processo può giungere a tal grado, da dare al giuoco un vero e proprio organismo autonomo, perfettamente equilibrato nelle sue funzioni, che si tramanda per tradizione e costituisce una vera e propria istituzione sociale e culturale: è questo il caso dei giuochi popolari pubblici, specialmente di quelli dell'antica Grecia.
Per una più precisa analisi fenomenologica del giuoco, giova ora porre in rilievo il suo rapporto con le altre forme di attività, e riconoscerne i caratteri nel campo biologico psicologico e sociale, per poi chiarire così la sua funzione e il suo valore nella vita umana e infantile. Rispetto all'attività propriamente spirituale, il giuoco può avere un valore negativo, in quanto fa valere il momento della spontaneità irriflessa delle energie individuali, indipendenti da ogni norma; e positivo, in quanto, in opposizione alla finalità utilitaria del lavoro, fa valere il momento del disinteresse, e alla determinazione obiettiva dell'attività sostituisce una libera spontaneità in cui può trovar luogo la pura finalità spirituale. Questo valore positivo del giuoco come radice dell'attività spirituale, si rivela specialmente in quei periodi e per quelle forme in cui la spiritualità si manifesta come creazione spontanea piuttosto che come adeguazione a valori prefissati. Anche di fronte al lavoro il giuoco ha un valore negativo, in quanto nell'esprimersi irriflesso di energie spontanee vien perduto di vista il sistema concreto e universale dei fini che determinano la vita tecnica e si smarrisce con l'attitudine la virtù necessaria al lavoro; e positivo, in quanto l'attività fantastica e costruttrice del giuoco mette in azione, esercita e prova le attitudini e le destrezze pratiche; onde avviene che il giuoco si tramuta in lavoro quando uno scopo particolare si fissa e concentra a sé l'attività e il lavoro si tramuta in giuoco quando, perdendo di vista il compito e risultato particolare, diviene semplice esercizio di abilità. Tra i caratteri e i riflessi del giuoco sono poi notevoli: dal punto di vista biologico, l'accentuazione dell'esercizio fisico, che aumenta, educa, equilibra le forze, quando non giunga all'esasperazione; lo sfogo di energie accumulate, l'addestramento funzionale degli organi; dal punto di vista psicologico, l'esercizio libero e variabile delle forze psichiche con particolare prevalenza della fantasia e delle sue capacità ricreatrice e ricostruttrice, il senso di libertà e di disinteresse che lo accompagna e il piacere intenso e fecondo che lo sostiene; dal punto di vista sociale, l'indipendenza dal vincolo delle relazioni basate sulla funzione pratica dell'individuo, l'esperienza di rapporti sociali spontanei, elastici, aperti alle iniziative e capacità individuali. Quindi il giuoco, in quanto stimola le energie fisiche e ne risolve la quantità esuberante, sostituendosi a manifestazioni morbide e pericolose (H. A. Carr), agisce come restauratore dell'equilibrio fisiologico; garantisce l'equa coordinazione tra attività fisiche e psichiche; normalizza lo sviluppo di queste e nel senso di euforia che lo accompagna, solleva dai motivi deprimenti e tiene deste la coscienza e la fiducia nelle capacità individuali, le esercita permettendo loro una libera prova, consente alla personalità una formazione naturale e coerente, attraverso una più fresca e umana esperienza sociale e può avviare, insieme con l'attività positiva del lavoro, alla genialità creatrice dello spirito. Da questo punto di vista il giuoco ha un valore del tutto positivo per la formazione e lo sviluppo della personalità. Ma v'è anche un valore negativo. La mancanza di un controllo oggettivo all'attività fa sì che esso s'esasperi oltre i limiti di sopportabilità in una forma di ebbrezza fisica e d'irragionevolezza mentale; che esso provochi una dispersione della personalità, accentuando in modo esagerato e morboso tendenze particolari, distogliendo o indebolendo la volontà di scopi concreti. Si aggiunga il pericolo che il disinteresse si tramuti in indifferenza al lavoro e ai valori superiori dello spirito e in un vacuo edonismo soggettivo e che, per la libertà dei rapporti sociali, il giuoco diventi occasione allo sviluppo di tendenze egoistiche e brutali.
In quanto il giuoco è per il fanciullo la forma prima ed essenziale d'attività umana (per cui si libera dalla sfera dell'istintività, afferma la sua indipendenza, prova le proprie energie, costruisce sé e il proprio mondo) esso - nonostante i possibili eccessi e le possibili deviazioni - non solo è una cosa sola con la vita del fanciullo ma può essere un principio di sviluppo verso forme d'attività superiori. A questa tendenza giovano sia il concretarsi di forme tipiche di giuoco, dove, per processo spontaneo o per tradizionale influsso pedagogico, acquistano valore le disposizioni al lavoro o il riconoscimento dei valori ideali (giuochi costruttivi, giuochi fondati sulla sincerità, sulla cavalleria, sulla collaborazione reciproca, ecc.) sia l'assistenza che l'adulto presta spesso ai giuochi dei minori.
Nella storia della pedagogia il giuoco è considerato sotto il suo aspetto negativo là dove l'educazione è determinata o da uno scopo pratico-tecnico o da un ideale trascendente, giacché di fronte all'uno o all'altro il giuoco fa valere il diritto delle energie spontanee individuali. Ma dove l'educazione è concepita come formazione di una personalità attiva, al giuoco infantile si riconosce un profondo valore positivo. L'educazione antica vede nei giuochi consacrati dalla tradizione una scuola di perfetto equilibrio delle energie personali; Platone, Aristotele, Quintiliano, pur rilevando i pericoli del giuoco sfrenato, insistono sul valore essenziale che esso ha per la vita infantile e sulla necessità di organizzarlo. Nella pedagogia moderna, via via che l'idea dell'educazione come formazione della personalità si fa strada, il giuoco è riconosciuto come essenziale alla vita infantile, come garanzia d'equilibrio interiore e di normale sviluppo (Vittorino da Feltre, Rabelais, Montaigne, Comenius); in seguito, come vita effettiva dell'individualità infantile, da cui devono svilupparsi gli elementi della tecnica, del sapere, della morale (Locke, Rousseau, Basedow, Pestalozzi). Il Froebel concepì il giuoco nel suo essenziale elemento d'attività libera e tentò di fondare su esso nei giardini d'infanzia tutta l'educazione infantile: principio questo che sino ai nostri giorni è venuto sviluppandosi più libero ed elastico. Rimanendo fuori d'ogni dubbio l'assoluta necessità fisica e psichica del giuoco per i fanciulli e l'utilità che esso non si ripieghi su sé stesso in una pigrizia edonistica, ma si sviluppi in una concreta vita personale, è da osservare che il processo per cui la spontaneità irriflessa e mutevole dell'attività infantile si apre alla coscienza di concreti e universali fini obiettivi (si determina cioè nel lavoro e questo s'illumina di valori ideali), deve essere sollecitato e guidato dall'esempio degli adulti e dall'azione diretta della loro vita e della loro cultura sull'anima dei fanciulli.
Bibl.: K. Groos, Die Spiele d. Menschen, Jena 1899; id., Das Seelenleben d. Kindes, 4ª ed., Jena 1913; H. A. Carr, The survival values of play, Londra 1902; P. Hildebrandt, Das Spielzeug im Leben des Kindes, Berlino 1904; M. Enderlin, Das Spielzeug in seiner Bedeutung für die Entwicklung d. Kindes, Lipsia 1907; M. Lazarus, Die Reize des Spiels, 2ª ed., Berlino 1907; G. A. Colozza, Il giuoco nella psicol. e nella pedag., 2ª ed., Torino 1923; V. Battistelli, Il nostro fanciullo, Firenze 1923; A. Franzoni, La nuova educ. infant. in Italia, Milano 1926; G. Lombardo-Radice, Il problema dell'educ. infantile, Venezia 1929.
Giuochi degli animali.
Per poter affermare con sicurezza che gli animali giuocano si dovrebbero conoscere le loro intenzioni e sapere, caso per caso, se giuocano o se fanno sul serio. Mancandoci il modo di soddisfare tale curiosità, dobbiamo contentarci di giudicare dalle apparenze. E ci troviamo, in questo caso, come di fronte al problema molto più ampio e complesso dell'istinto (v.), nel quale rientra in gran parte questo dei giuochi. Due tendenze estreme si sono da tempo combattute nell'interpretazione degli atti degli animali: quella che induce a considerarli dovuti ai medesimi motivi che determinano le azioni umane, e l'altra che nega assolutamente agli animali anima, ragione e volontà. Se si accetta questo modo di vedere, si deve logicamente rinunziare a cercare nella vita degli animali il significato dei loro atti. La verità sta forse nel mezzo. Chiunque abbia direttamente avuto occasione di vedere folleggiare cuccioli, gattini, correre e saltellare allegramente puledri e caprette, e un cane insistere per farsi gettare il sasso e aspettare il lancio con fremebonda impazienza, non vorrà certo negare che quelli trovino un gran gusto a spassarsela.
Ma se ci limitiamo a esaminare la vita degli animali superiori, di quelli che per organizzazione e manifestazioni più ci sono vicini, dobbiamo pur riconoscere che nella giovane età vi è una evidente tendenza a sollazzarsi e giuocare in mille guise.
Questi giuochi sembrano avere un profondo significato biologico, come preparazione ad affrontare le evenienze della vita, quando toccherà poi di far sul serio. La grande irrequietezza dei giovani animali favorisce lo sviluppo della muscolatura e li rende a poco a poco più padroni dei proprî organi; è una vera continua efficacissima ginnastica educativa. Le lotte incruente in cui gattini e cuccioli si mordono per celia, senza farsi il minimo male, e l'avventarsi e il rincorrersi e l'atterrare l'avversario e il divincolarsi, sono altrettanti esercizî preparatorî per le vere lotte, per l'inseguimento della preda, per la fuga, ecc. Non già che l'animale sia consapevole del vantaggio che può ricavare da questa educazione: ma prova certamente gusto a tali esercizî per un'innata disposizione opportunamente concessagli dalla natura, e così, senza volere, si addestra e perfeziona nei suoi movimenti. Non diversamente dobbiamo forse considerare i giuochi infantili. Si può concludere che la tendenza ai giuochi, soprattutto nell'età giovanile, è innata e istintiva: ma è accompagnata da una sensazione di piacere che incita l'animale a giuocare consapevolmente.
Bibl.: K. Groos, Die Spiele der Tiere, 2ª ed., Jena 1907; trad. francese della 1ª ed., Parigi 1902.
Giuochi dei primitivi.
I giuochi dei primitivi e dei loro assimilati vanno divisi in due principali classi: ginnici e drammatici, a seconda degli elementi che vi prevalgono, come la forza, la resistenza, l'agilità, la destrezza nel primo caso; i caratteri simbolico-cerimoniali, scenici, coreografici nel secondo
Giuochi ginnici. - I giuochi ginnici propriamente detti, come la lotta, il pugilato, la corsa, il nuoto, il bersaglio con pietre e frutti, l'altalena, il disco, la palla, i trampoli ed altri, hanno forma di esercitazioni e pratiche sportive.
Presso gli Uoggerà, stirpe galla della Dancalia etiopica, tre o quattro volte l'anno i giovani si riuniscono presso un torrente, col proposito di venire fra loro a una lotta in forma legale e pubblica alla presenza dei compaesani, e senza dividersi in gruppi o partiti, giostrano a curbasciate, cantando e vantando ciascuno la propria forza. Le corse a cavallo sono in onore presso quasi tutte le popolazioni nomadi, le quali sogliono organizzarle nelle circostanze solenni (feste nuziali, ecc.); le gare nautiche, invece, sono in onore presso le popolazioni rivierasche: superbe erano quelle degl'indigeni delle Isole Hawaii. Ad eccezione dei Negri africani, quasi tutti gli altri popoli che si trovano nei bassi stadî della civiltà sanno adoperare la palla, che i giovani Neozelandesi formano con foglie ravvolte e legate e lanciano e prendono alternativamente con bastoni provvisti di due punte. A tale genere appartiene il tica dei Figiani, consistente in una palla appuntita da una parte, come la testa di un'anguilla, e dall'altra provvista di una canna della lunghezza di un metro. I giocatori devono lanciare siffatte palle correndo, il più lontano possibile. Fra gl'Indiani dell'America del Nord e fra varie tribù del Chaco è diffuso un giuoco quasi identico al hockey: la palla, di legno, è gettata con bastoni ricurvi o con rozze racchette. Fra gl'Indiani del SO. e fra gli Eschimesi la palla viene calciata e rincorsa dai giocatori per grandissimi tratti. Caratteristica del giuoco della palla (di gomma) nel Matto Grosso, nel Messico, e in gran parte dell'America del Nord è che i giocatori possono toccare la palla con tutto il corpo ma non con le mani. Pare che questa limitazione sia dovuta al fatto che varie popolazioni (Hopi) ritengono la palla un oggetto sacro e quindi intoccabile. Nella Guiana invece, fra i Macusci, la palla, di foglie di mais intrecciate, viene gettata e ripresa a mano. A questi giuochi con la palla le donne non prendono mai parte; esse giuocano invece con una specie di diabolo e ai birilli. Fra gl'Indiani della California e altri esiste il giuoco degli anelli, che gettati da una delle parti sono ricevuti dall'altra mediante bastoni. Il disco non è ignoto alle popolazioni inferiori, le quali spesso lo costruiscono di pietra (maica delle Isole Hawaii); come non è ignota la boccia, che presso alcune tribù algonchine si suole lanciare in una fossetta, fra due birilli, senza urtarli o farli cadere. Altra volta la destrezza consiste nel colpire con un bastone o altro strumento un oggetto che sta nascosto sotto un pezzo di stoffa (Polinesia).
Con questo giuoco si entra in quella speciale categoria che mette a prova la perspicacia dei sensi, facendo indovinare in quale mano è nascosto un oggetto (Negri africani, Indiani dell'America del Nord e specialmente i Tlingit del versante del Pacifico): e se più sono gli oggetti, quale il loro numero. Questa ultima specie, che richiama alla mente il nostro "pari e dispari", si presenta in varie forme, tra cui caratteristiche quella dei Haida, i quali adoperano bastoncini in fasci da 40 a 50, e quella di altri Indiani dell'America del Nord, che si servono di bastoni dipinti ad anelli rossi. Il giuoco consiste nell'indovinare il numero dei bastoncini nascosti o degli anelli coperti con erba.
Maggiore perspicacia richiedono quei giuochi che si eseguono mediante pietruzze sopra scacchiere tracciate sul terreno con un certo numero di fossette (14, 20, 28, 40) ripartite fra i due giocatori, che stanno l'uno di fronte all'altro. Molto diffuso è questo passatempo nell'Africa (lo troviamo fra i Baila della Rhodesia Settentrionale, fra i Batonga, fra i Banyangia), dove si vuole sia stato importato dagli Arabi, i quali avrebbero fatto conoscere da un capo all'altro del continente nero, dall'Egitto alla Colonia del Capo, dal Senegal al Madagascar, le loro scacchiere di legno con 12, 16, 24, 32 fossette. I dadi, la cui presenza è stata notata nell'Europa preistorica, sono rappresentati da denti di lontra o di castoro, ovvero da granelli differentemente incisi o colorati (America del Nord) oppure da astragali di montone (Asia centrale, Gauchos dell'Amerca del Sud), o da due ghiande divise in due parti nel senso della lunghezza, con punti neri o rossi sulla faccia esteriore. I dadi così fatti si scuotono fra le mani e si gettano in una cesta larga e piatta.
I giuochi con le dita, analoghi alla morra, sono conosciuti anche dagli incivili (Nuove Ebridi, Isole Salomone, Ottentotti, ecc.). Il giuoco del filo, che noi diciamo "la matassa" o "il ripiglino" e gl'Inglesi chiamano "la culla del gatto" (Cat's cradle) è uno dei più praticati nel mondo primitivo (Australia, Nuova Zelanda, Nuova Guinea, Isole Figi, Salomone, Guiana, Eschimesi, America del Sud, Africa negra). Consiste nel combinare con un filo o una cordicella riunita ai due capi e passata attraverso le dita delle due mani figure differenti e complicate. Talvolta, a rendere più complessa la varietà delle combinazioni del filo, sono chiamati in aiuto i denti, i piedi, il collo. Le figure prendono nomi differenti a seconda del contorno o della rappresentazione (il granchio, il serpente marino, il nido, il canotto, l'arpione, il sole, gli uomini in lotta, ecc.); e quando si susseguono in un ordine determinato possono significare un avvenimento, un fatto, un fenomeno, come la coltivazione del tabacco, il sorgere del sole, gli uccelli che volano dal nido, ecc.
Giuochi drammatici. - Pur partecipando del carattere ginnico come esercitazioni, i giuochi drammatici si presentano in forma di spettacoli per gli elementi rappresentativi o scenici o coreografici che sono in prevalenza. La loro organizzazione, il più delle volte, è imitativa, in quanto l'idea informatrice è tratta dalla vita reale, dalla caccia, dalla pesca, dalla guerra.
Presso i Baila e altre genti della Rhodesia settentrionale, lo spettacolo preferito è la finta caccia al leone. Due uomini camuffati da leoni, stanno a piè d'un albero aspettando l'assalto dei cacciatori, dei quali uno solo, in un primo tempo, si avanza, lasciando agli altri il compito d'intervenire in seguito per strapparlo agli artigli delle finte belve; di queste una è catturata e portata in trionfo tra i canti della popolazione. Spesso, in siffatti sollazzi, l'elemento coreografico prende il sopravvento sì da conferire al giuoco le forme di pantomima o di danza (v. danza: La danza dei primitivi). Alcuni di essi riproducono cerimonie magico-sacre, se pure, come vuole G. E. Hartland, non costituiscano veri e proprî riti magici eseguiti con l'intenzione d'influire sulla vegetazione, sui fenomeni atmosferici, sul cambiamento delle stagioni. Come gli Zuñi, che abitano un territorio arido del Nuovo Messico, credono coi loro giuochi di accrescere l'effetto delle operazioni magiche eseguite per ottenere la pioggia; così alcune tribù del Marocco credono di ottenere lo stesso risultato in tempi di siccità, eseguendo sulle aie il giuoco della palla con lunghi bastoni incurvati. Più animati e complessi i giuochi coi quali nella tribù dei Wichita (Indiani dell'Oklahoma) uomini e donne, divisi in due schiere, di cui una rappresenta il vento impetuoso e l'altra il dolce zefiro, in contrapposto fra loro, credono di poter annientare le malefiche forze invernali e aiutare a prevalere quelle della bella stagione. Simili rappresentazioni cerimoniali, con carattere magico-mitico, si eseguiscono nella California, presso gli Hupa, nel Marocco e altrove.
Combattimenti fra animali o contro animali. - Presso le popolazioni alquanto dirozzate sono prediletti i combattimenti di animali contro animali e di questi contro uomini.
Una grande passione hanno i Malesi per tali spettacoli. A Giava portano nell'arena rinoceronti e tigri. La tigre, chiusa in una gabbia di bambù coperta di paglia, sta in mezzo a un quadrato di uomini armati di lancia e disposti in quattro file, di cui le prime due in ginocchio. L'orchestra incomincia a suonare una lenta melodia guerresca, e due uomini si avvicinano alla gabbia per dar fuoco alla paglia. La belva infuriata si dimena nella sua prigione, finché irrompe sui due uomini i quali si ritirano seguendo il tempo della musica, per rifugiarsi dietro la siepe delle lance. Nello sforzo che la tigre fa per rompere con un gran salto il muro degli armati trova la morte. I combattimenti dei galli durano intere giornate, e i proprietarî negli animali, per rendere più dolorose le ferite dei combattenti, pongono alle zampe lamette di acciaio taglienti spalmate con succo di limone.
Giuochi di fanciulli. - Al pari dei nostri, anche i fanciulli dei primitivi giuocano imitando le occupazioni degli adulti: simulano cacce, pescagioni, battaglie, razzie, raccolte di frutti, matrimonî; si costruiscono piccoli archi, frecce, lance cerbottane, scudi, canotti, ecc. Diffusione quasi generale hanno le bambole.
I bambini della Nigrizia si divertono a costruire recinti e steccati per il bestiame, i cui capi sono frutti combinati con quattro o cinque legnetti; i bambini eschimesi fabbricano capannucce di neve che illuminano con piccole lampade; quelli australiani inscenano cerimonie nuziali alla maniera esogamica, col finto ratto di fanciulle. Passatempi comunissimi nel mondo infantile della Polinesia e della Micronesia sono il nuoto e le barchette. Al tempo di Cook, nelle isole Hawaii i fanciulli e le fanciulle riproducevano i giuochi di guerra e di armi degli adulti, le loro gare e i loro pugilati. Inoltre, in gran parte dei loro passatempi, i fanciulli si applicano a contraffare i costumi, le movenze, gli atteggiamenti degli animali. Un buon numero di consimili ricreazioni è stato osservato tra i fanciulli dei Baila, i quali imitano a meraviglia, e in maniera faceta, stormi di uccelli che si avventano sulle carogne e le beccano, belve intente a giocare, fiere che fuggono inseguite dai cacciatori, pesci che scherzano con la lancia del pescatore, ranocchie che saltano e gracidano, e via dicendo. Uno di tali giuochi raffigura il vitello che, legato per i piedi, si dimena e tenta di prendere il largo; un altro la vacca cieca e si svolge in maniera analoga alla nostra mosca cieca.
In molti giuochi dei fanciulli è facile riconoscere i giuochi degli uomini e talvolta le sopravvivenze di giuochi dimenticati o decaduti dagli usi sociali.
Il cervo volante (detto l'"uccello" nelle isole Figi, il "falco" nella Nuova Zelanda) è un divertimento comune tanto agli adulti quanto ai fanciulli. Ma non sempre è così, perché la libertà d'imitare o riprodurre ha i suoi limiti nelle prescrizioni magico-sacre (tabu) che governano la vita dei primitivi, presso i quali i fanciulli e i giovanetti non iniziati non possono prendere conoscenza di fatti, di usi e di riti che fino al giorno dell'iniziazione devono restare per loro dei misteri. Grave fallo sarehbe per i ragazzi, fra gli Eschimesi, l'eseguire col filo il giuoco della matassa, che è riservato agli adulti, i quali se ne servono come incantesimo, per impedire al sole, nel tempo in cui va a declinare, di sparire troppo presto. Se i ragazzi ardissero di riprodurlo, rischierebbero di perdere la vita.
Bibl.: G. B. Tylor, The history of Games, in The Fortnightly Review, 1879; G. Groos, Die Spielen der Menschen, Jena 1899; D. Kidd, Savage Childhood, a study of Kafir Children, 1906; W.A. Cunnington, String figures and tricks from central Africa in Journal of the Anthrop. Institute, XXXVI, Londra 1906; S. Culin, Games of the North American Indians, 24° Report of the Bureau of American Ethnology, Washington 1907; A. K. Haddon, The study of Man, Londra 1908; G. E. Hartland, Games, in Hasting's, Encyclopaedia of religion and ethics; E. Nordenskiöld, Spiele und Spielsachen im Gran Chaco und in Nord Amerika, in Zeit. für Ethnologie, XLII, Berlino 1910; K. Haddon, Cat's Cradles from many Lands, Londra 1910; E. W. Smith e A. Murray Dale, The Ila-speaking People of Northern Rhodesia, II, Londra 1920; C. Read, The origin of Man, and of his Superstitions, Cambridge 1925, p. 78; Y. Hirn, I giuochi dei bimbi, Venezia 1931.
Giuochi nell'antichità classica.
Giuochi infantili e balocchi presso gli antichi non erano, né potevano essere, troppo differenti dai nostri.
Balocchi. - Nei primi mesi di vita i bambini si divertivano col sonaglio (πλαταγίον, crepitacillum), la cui invenzione i Greci attribuivano ad Archita; poi con le bambole (χόραι) e i burattini (νευρόσπαστα), o con oggetti che riproducevano in piccolo gli animali più comuni, ovvero utensili di casa, come pentole, brocche. Le bambole erano di cera o di coccio e ve n'erano di quelle che si potevano spogliare e vestire. Balocchi viventi erano anche gli animali; fra i Greci soprattutto le quaglie. Diffuso sin d'allora era l'uso di catturare il maggiolino e di farlo volare tenendolo legato per una zampa μηλολόνϑη). Sembra che i ragazzi di quei tempi acchiappassero anche i topi per attaccarli a un carrettino e farli correre. Quando moriva un bambino si gettavano sul rogo o si seppellivano con lui i suoi giocattoli; le giovanette romane, quando si sposavano, dedicavano ai Lari le loro bambole.
Giuochi infantili. - Più ancora dei balocchi erano simili ai nostri i giuochi dei bambini; i più semplici erano i più comuni: cavalcare su una canna (κάλαμον περιβῆναι, equitare in harundine), mandare il cerchio (τροχός, κρίκος), che era provvisto di anelli e di sonagli, e si guidava con un bastoncino ricurvo (clavis), far girare la trottola (ῥόμβος, στρόβιλος, βέμβιξ, κῶνος) con lo spago o con la frusta, giocare a palla, andare sull'altalena (αἰώρα, altalena sospesa; πέταυρον, altalena con l'asse), mandar l'aquilone (ἀετός). Alcuni di questi giuochi, che richiedevano una certa abilità, si potevano fare in parecchi; a volte assumevano il carattere di una gara come nel "giuoco del re" (βασιλίνδα): il più bravo era proclamato "re", il più inetto usciva dal giuoco col nome presso i Greci di "ciuco" (ὄνος), presso i Romani di "scabbioso". Il re, vincitore, doveva poi trattare gli altri come sudditi; questo giuoco rientra quindi fra i cosiddetti giuochi d'imitazione, come il fare ai soldati, ai giudici, ai cavalli (ἱππαστὶ καϑίζειν, humeris vectari).
Altri giuochi in comune erano i seguenti: fare "a nascondino" (μυίνδα); "a mosca cieca" (χαλκῆ μυῖα): un ragazzo bendato inseguiva i compagni gridando: "darò la caccia alla mosca di rame", e i compagni: "la caccerai e non l'acchiapperai", e giù botte con una verghetta; ad acchiappino (ἀποδιδρασκίνδα), alla spicciolata ovvero a squadre (ὀστρακίνδα); al "giuoco del giunco" (σχοινοϕολίνδα), che consisteva nel mettere un filo di giunco presso un compagno senza che questo se ne accorgesse. Nel giuoco della pentola (χυτρίνδα), che in una forma meno sguaiata era in uso anche fra le bambine, un ragazzo, la pentola, sedeva in mezzo ai compagni, i quali girandogli intorno gli davano dei pizzicotti, gli tiravano degli scapaccioni, ovvero gli facevano il pizzicorino, cercando, però, di non essere presi; chi si lasciava prendere rimaneva a far da pentola, liberando il precedente.
Numerosissimi erano i giuochi di abilità, consistenti, per es., nel lanciare in aria un certo numero di pietruzze e raccoglierle sul dorso della mano, nel tenere un bastone in equilibrio su un dito, nel camminare con le mani (τροχὸν μιμεῖσϑαι), nel lanciare dadi o altri piccoli oggetti in modo che cadessero a distanza in una piccola buca o in un campo circolare precedentemente segnato. Altri erano veri e proprî esercizî ginnastici, come il saltare con la fune e l'arrampicarsi su corde, alberi, ecc. A volte l'abilità consisteva nell'indovinare; per es., nel giuoco "a pari e caffo" (ἀρτιάζειν, ludere par impar) che si faceva con le monete o anche con le dita (διὰ δακτύλων κλῆρος, digitis micare, la nostra "morra").
Giuochi di adulti. - Alcuni giuochi, che oggi sono esclusivamente infantili, come mandare il cerchio, nel mondo greco e romano erano in uso anche fra gli adulti. Ma, in genere, ed è naturale, i giuochi degli adulti erano diversi e più complicati. Questi giuochi, che servivano soprattutto a passare il tempo durante i banchetti, erano di vario genere: alcuni richiedevano una particolare abilità intellettuale o fisica, altri calcolo e riflessione, come quelli sul tipo dei nostri giuochi d'azzardo.
Una tradizione conservataci da Erodoto (I, 94) designava i Lidi come i primi inventori di tutti i giuochi più in uso, tranne la πεττεία (v. sotto). Molti di questi giuochi originariamente greci, penetrarono fra i Romani, che però mostrarono sempre una predilezione per i giuochi d'azzardo.
Giuochi d'abilità. - Fra quelli nei quali si esercitava l'intelligenza, i principali erano l'improvvisazione di un carme conviviale, o la soluzione di un enigma (αἵνιγμα, γρῖϕος); chi non indovinava l'enigma era costretto per penitenza a bere tutta d'un fiato una coppa di vino. Giuoco di abilità fisica, molto in uso tra i Greci, era invece il còttabo (v.).
Giuochi di riflessione. - Il più diffuso fra questi era la πεττεία: con questo nome vanno intesi tutti i giuochi che si fanno con una tavola divisa a scompartimenti, dove i giocatori segnano con sassolini (ψῆϕοι, πεττοί) le posizioni occupate. A rigore di termini il giuoco prendeva propriamente il nome di πεττεία quando consisteva solo nell'abilità di muovere i pezzi; se, invece, entrava nel giuoco anche il getto dei dadi, si chiamava κυβεία. Il giuoco della πεττεία è antichissimo. Ve ne erano varî tipi; non sempre è possibile indovinare quale fosse la legge del giuoco. Per esempio ci rimane oscuro come si giocasse quello che appare come il tipo più comune di πεττεία, il πεντέγραμμα: sulla tavola erano segnate cinque linee e ogni giocatore aveva cinque sassolini che disponeva sulle linee secondo il lancio dei dadi (κύβων βολαί). La linea di mezzo era chiamata linea sacra (ἱερὰ γραμμή). Poiché solo in caso di necessità estrema si ritirava il sassolino dalla linea sacra, era divenuto proverbiale il dir "ritirarsi dalla linea sacra" nel senso di "giocar tutto per tutto". Altro non sappiamo.
Più chiaro appare il giuoco "delle città" (πόλεις), corrispondente a quello che è fra i Romani il ludus latrunculorum. Ogni giocatore aveva un numero di pezzi, sembra trenta, di colore diverso da quello dell'avversario; ciascuno di questi pezzi era chiamato "cane" (κύων); la tavola era divisa da linee in tanti compartimenti (πόλεις, più tardi χῶραι). Il pezzo che veniva a trovarsi fra due pezzi nemici era tolto dal giuoco; vinceva chi riusciva a mettere l'avversario in condizione da non potersi più muovere. Si trattava di un giuoco difficilissimo. Simile al precedente, ma coordinato al lancio dei dadi, era il γραμματισμός.
Giuochi d'azzardo. - Tra questi il più semplice era la "morra", in uso anche fra i ragazzi; ma gli adulti, specie del mondo romano, dove i giuochi d'azzardo, sebbene proibiti, avevano una grande diffusione ed erano compresi tutti col nome generico di alea, si giuocavano con gli astragali (ἀστράγαλοι, tali) e coi dadi (κύβοι, tesserae). Gli astragali erano dei dadi allungati con sei facce diseguali, delle quali solo quattro avevano valore, rispettivamente di uno (χῖος, canis, vulturius), tre, quattro, sei (κῷος, senio); le due più piccole, che si trovavano alle due estremità opposte (κεραῖαι) del dado, non contavano: del resto era molto difficile che l'astragalo rimanesse dritto su una di quelle. Si giocava di regola con quattro astragali, i quali venivano lanciati con un bussolotto (pyrgus, turricula, fritillus, phimus), in una tavola speciale (tabula aleatoria, alveus). Vi erano 35 combinazioni: la migliore di queste (iactus Venerius). si aveva quando ogni astragalo mostrava una faccia diversa. I dadi, eguali ai nostri, avevano sei facce eguali col valore progressivo da uno a sei, e si giocavano come gli astragali, lanciandone ogni volta due o tre. Si sa in varî tempi di leggi romane, senaticonsulti, editti che vietavano di giocare d'azzardo per denari (in pecuniam ludere); tranne durante i Saturnali, giorni di licenza o di follia (per la repressione dei giuochi d'azzardo nell'antichità, v. appresso: Diritto).
Bibl.: L. Becq de Fouquières, Les jeux des anciens, Parigi 1869; L. Grasberger, Erziehung u. Unterricht im kl. Alterth., I, Würzburg 1864, pp. 1-162; Becker-Göll, Charikles, II, Berlino 1877; Hermann-Blümner, Lehrbuch der griechischen Privat-alterthümer, Friburgo e Tubinga 1882, pp. 291 segg., 508 segg.; Becker-Göll, Gallus, II, Berlino 1878, p. 79 segg.; III, ivi 1882, p. 454 segg.; J. Marquardt-A. Mau, Das Privatleben der Römer, Lipsia 1886, p. 60 segg.; G. Lafaye, in Daremberg e Saglio, Dictionn. d. ant. gr. et Rom., s. v. Ludi (jeux privés), 1904; H. Blümner, Die römischen Privataltertümer, Monaco 1911; Hug, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., III-A, 1927, col. 1762 segg., s.v. Spiele. Il materiale archeologico è sistematicamente raccolto in L. Weisser, Lebensbilder aus dem klassischen Alterthum, Stoccarda 1864, tav. 38; H. Heydemann, Griech. Vasenbilder, Berlino 1870, tav. 12; Robert, in Archäol. Zeitung, XXXVII (1879), tav. 5 segg., p. 78 segg. Si veda inoltre l'articolo esauriente del Lamer, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XIII (1926), coll. 1900-2029.
Giuochi nel Medioevo.
Spettacoli, giuochi pubblici e guerreschi. - Negli alti secoli medievali pensava il Muratori che fossero caduti in disuso quei giuochi "diletti e divertimenti praticati con tanta diffusione dai Romani", e, fra i regnanti, non trovava che Teodorico che ne avesse salvata la tradizione. I Longobardi pare che non si prendessero cura che dei giuochi guerreschi, ai quali continuò per tutta l'età di mezzo il favore popolare, come è provato da carte e cronache dei secoli XII-XIV, in cui ricorrono frequentemente menzioni più o meno estese di giostre, di tornei, di bagordi, di astiludi, ecc. Il periodo delle "corti bandite", quando i principi annunciavano con bandi nuovi sollazzi e allegrie, era particolarmente consacrato a giuochi pubblici. E sono celebri le feste tenute nella Marca gioiosa o di Trevigi e a Ferrara nei secoli XIII e XIV. Alle corti bandite intervenivano in gran numero istrioni, musici, ballerini da corda, giullari. Caratteristica era la festa della "cornomannia" che si teneva a Roma (secoli IX-X), con partecipazione del popolo, dal papa e dalla schola cantorum il sabato dopo Pasqua. Giuochi pubblici si celebravano durante le feste cittadine, come i tornei e i castelli d'amore, o durante cerimonie per l'ingresso di principi, ecc.
Giuochi giullareschi. - Nei sirventesi provenzali (sec. XII-XIII) di Giraut de Cabreira (Cabra juglar) e di Giraut de Calanson (Fadet joglar) per non dire dei romanzi cavallereschi come Flamenca, compaiono allusioni a varî esercizî e giuochi che facevano i giullari per tener desta la curiosità del pubblico, alla fine dei banchetti signorili: il giuoco dei bavastels (o delle "marionette"), i giuochi di prestigio, il giuoco del cariglione (cascavel), quello dei coltelli, ecc.
Giuochi popolari e ginnici. - Giuochi popolari erano quelli dei zoni, del pallamaglio, della porchetta a Bologna, ecc. Giuochi di carattere educativo, d'imitazione classica, erano in uso così nel Medioevo, come nel periodo del Rinascimento. Si sa che a quei giuochi davano grande importanza i maggiori fra gli educatori umanisti: Guarino da Verona e Vittorino da Feltre. Una descrizione dei giuochi ginnici ci è data dal Salutati in una sua epistola (edizione Novati, vol. III, p. 600); altre informazioni abbiamo nel Cortegiano del Castiglione (I, xxi). Un trattato sull'arte del duello si trova nel Flos duellatorum (1410) di maestro Fiore dei Liberi da Premariacco, dal quale impariamo le denominazioni delle varie figure del duello con la spada e col bastone (v. duello; scherma). Accanto al duello, era in onore la lotta, detta anche "palestra".
Così la lotta è chiamata in un trattato manoscritto estense del sec. XV (ms. Ital. n. 34) consacrato all'esame e allo studio dei varî atteggiamenti o delle varie posture del lottatore e delle molte "astuzie" (o "versutie") di cui si può far uso per abbattere l'avversario: come la "sacaligna" (che si faceva "mettendo uno de li nostri pedi fra le gambe, et cum uno altro ancinando, alligando la parte di fora del pede et carcandoli adosso lo corpo"), la "rotazione", il "clunilevio" ("se subleva lo inimico cum la clune et cum le braze cum revolutione et si spiana a terra cum le spalle: la quale versutia da li Hyspani si chiama anche discaderada"), la "mediana" o "anguigera" ("quando una gamba a modo de un serpente incavalca et implica l'altra a se contraria"), la "amplamagna" detta dagli Spagnoli "ancia" ("si fa quando alzando assai una gamba de lo inimico cum una de le nostre rivoltamo quello per spalla), la "transbucata", ecc.
Giuochi di fortuna, d'inganno e di società. - Dei primi si trova ricordo frequentemente negli statuti, nei bandi e nelle provvisioni. I due gruppi principali dei giuochi di fortuna nel Medioevo erano il giuoco dei dadi (v.) e quello delle tavole.
Il giuoco dei dadi era chiamato generalmente zara (ma anche ludus morbiole, ludus taxillorum e ludus aleae), e si faceva con tre dadi (o taxilli) gettati sopra un banco o un piano liscio. I giocatori pronunciavano, durante il giuoco, la parola azar, che è d'origine araba: zahr "dado" (donde venne, attraverso il franc. hasard, l'ital. azzardo). Tutti sanno che a questo giuoco allude esplicitamente Dante nel Purg., VI, 1-3. Il Vannozzo ha tutta una lirica sulla zara. Il Petrarca nei Remedia utriusque fortunae fa che uno degl'interlocutori del dialogo sul giuoco (Ratio) metta innanzi argomenti contro la zara, e che l'altro (Gaudium) risponda imperterrito con frasi categoriche, che stanno a mostrare una profonda conoscenza della natura delle passioni umane. Queste frasi sono: Delector tamen hoc ludo; Delector taxillorum ludo; Lusi et lucratus sum; Lusi, vici, gaudeo. A nulla valgono, insomma, i discorsi della Ragione. Il giuoco delle tavole si distingueva da quello della zara perché vi si adopravano le pedine e lo scacchiere (la parola "tabula" significava le pedine, non lo scacchiere, che era detto tabulerium). Di concessioni e, più ancora, di proibizioni di questi giuochi abbondano gli statuti medievali. Per es., nel 1272 il comune di Bologna concesse di aprire ludum azardi et biscazariae in quatuor locis tantum in civitate vel burgis, ma presto la consuetudine del giuoco degenerò in malcostume e furono emanate norme restrittive. Nel 1419 si dovette vietare ogni sorta di giuoco e si chiusero le botteghe dei conduttori di "biscazaria", i quali erano chiamati "barattieri" o anche "marrocchi". Dagli statuti di Bologna si desume che la zara era anche detta ludus ad gnaffum; da quelli di Brescia del 1313 e di Como del 1458 si imparano altre denominazioni e modi di giocare coi dadi (ad girolam, ad pariandum, ad passarellam, ecc.); da quelli di Firenze del 1415 si ricava che sui tabuleria si giuocava anche ad marellas o merellas, un giuoco fatto con le pedine.
Altri giuochi medievali meritano un cenno: anzitutto quello della corezola corrigiola (di cui parlano gli statuti di Brescia, di Cremona, di Crema, di Padova, di Pisa, d'Ancona, ecc.).
Il Sacchetti, nella Novella 69, lo descrive così: "Passera del Gherminella... portava una mazzuola in mano a modo una bacchetta da podestà e forse due braccia di corda come da trottola, e questo si era il giuoco della gherminella, che tenendo la mazzuola tra le due mani, e mettendovi la detta corda, dandogli alcuna volta, e passandogli uno grossolano dicea: ch'ell'è dentro, ch'ell'è di fuori?, avendo sempre grossi in mano per mettere la posta. Il grossolano, veggendo che la detta corda stava che gli parea di tirarla fuori, dicea di quello ch'ell'è di fuori; e Passera dicea: E ch'ell'è di dentro; e il compagno tirava, e la corda, comeché si facesse, rimaneva e fuori e dentro, come a lui piacea; e spesse volte si lasciava vincere per aescare la gente".
Un giuoco d'inganno era anche quello de coniello, a cui si riferiscono varie rubriche del Breve communis di Pisa del 1310. Giuochi d'abilità e di fortuna erano quelli ad animellas (stat. di Modena: ad armellas) cioè con noccioli di frutti, ad rapellum, un giuoco che dava forse facoltà di rivendicare una par te del danaro perduto; ad ruellas, con dischi lanciati quanto più possibile lontano; ad zurlos, cioè con la trottola, ecc., ecc. Quanto fosse comune nel Medioevo il giuoco degli scacchi, e come fosse "moralizzato" sullo scorcio del sec. XIII da Jacopo da Cessole in un'opera ben nota (De ludo scacchorum), non occorre dire. Nel secolo XV, Niccolò III e Borso d'Este furono giocatori formidabili di scacchi. Più diffuso ancora fu il giuoco delle carte, ricordato frequentemente sia in documenti di archivio, sia nei bandi, sia nelle provvisioni, sia negli statuti: ad abbates (Lodi, sec. XIII; l'abbas doveva essere una figura del giuoco); ludus bazeghae (Soncino, 1532; la bazzica); ad begam (Riva, 1274); ludus criche (Bergamo, sec. XV; Velletri, Ancona, sec. XVI); ludus mayne (Padova, sec. XIII; mayna dev'essere "immagine" o figura); ad reginetam (sec. XIII-XIV); ad terziam, ad quartam; ad triginta hebraeorum; ludus fancinellorum, ecc. Verso la metà del sec. XIV furono introdotti in Italia dai Catalani i "naibi" (voc. arabo), cioè i "tarocchi" (v. carte).
Il giuoco dei tarocchi, o giuoco dei trionfi o degli imperatori, fu molto in uso nelle corti del Rinascimento. I letterati di quelle corti si valevano delle figure di queste carte per fare allusioni in versi a questa o quella dama. Appunto il giuoco dei tarocchi ha fornito la chiave per la spiegazione di cinque capitoli di M. M. Boiardo che sembrano, a prima vista, singolarmente e stranamente costruiti. I tarocchi diedero poi origine nel '500 a piccoli componimenti, come i Trionfi appropriati (cioè versificati in onore delle signore di Ferrara), i Motti alle signore di Pavia del Susio, ecc.
Un altro giuoco di società, le sorti, consisteva nell'estrarre bollettini, sui quali figuravano motti e allusioni argute ricavate non di rado dalle poesie del Petrarca. Un curioso giuoco, anch'esso di società e molto comune nel Rinascimento, è descritto dallo storico estense cinquecentista Alessandro Sardi: "nella Corte d'Urbino consuetudin era che... ciascun huomo pigliava per mano una donna et postisi in cerchio il primo dicea una parola, la quale era tenuta la donna seguire con un'altra parola et il terzo con un'altra". A questo giuoco si riferisce un sonetto del Bembo: Io ardo, dissi, e la risposta invano; e a un giuoco analogo allude l'Ariosto nel Furioso (VII, 21).
Storiografia. - Non si può dire che il giuoco abbia trovato, per l'età medievale, molti illustratori. La dissertazione XXIX delle Antiquitates italicae del Muratori sugli spettacoli e giuochi pubblici dei secoli di mezzo fu, a lungo, dimenticata; e, d'altronde, essa era ristretta quasi esclusivamente all'esame dei giuochi militari e, come tale, incompiuta e lacunosa. Tuttavia le pagine del Muratori sono un insigne tentativo volto a chiarire uno degli aspetti più singolari e interessanti del costume medievale. Quando, nel sec. XIX, fiorirono gli studî filologici, era naturale che l'attenzione degli eruditi fosse richiamata con maggiore intensità sull'argomento. Le prime ricerche in proposito furono allora dedicate ai cosiddetti giuochi giullareschi, esaminati con l'intento di meglio chiarire certi testi letterarî. Con l'approfondirsi degli studî sulla storia della cultura, le ricerche si estesero ai giuochi popolari e l'attenzione si rivolse anche ai giuochi di carattere educativo. Minori cure si diedero dagli studiosi ai giuochi di fortuna, a quelli d'inganno e a quelli di società.
Bibl.: A. Schultz, Höfisches Leben zur Zeit des Minnesänger, Berlino 1879-80; L. Zdekauer, Il giuoco in Italia nei secoli XIII e XIV e specialmente in Firenze, in Archivio storico italiano, s. 4ª, XVIII (1886), pp. 20-74; F. Novati, L'influsso del pensiero latino sopra la civiltà italiana del medio evo, 2ª ed., Milano 1899 (sulla "cornomannia"); G. Ungarelli e F. Giorgi, Documenti riguardanti il giuoco in Bologna nei secoli XIII-XIV, in Atti e Mem. d. R. Dep. di St. Patria per le Romagne, s. 3ª, XI, p. 360 segg.; U. Dallari, Sulla festa della Porchetta, in Atti e Mem., cit., s. 3ª, XIII, p. 57 segg.; L. Frati, La vita privata di Bologna dal sec. XIII al XVII, Bologna 1900; F. Malaguzzi-Valeri, La Corte di Lodovico il Moro, I (La vita privata), Milano 1913; G. Bertoni, Tarocchi versificati e Buffoni alla Corte di Ferrara, in Poesie leggende costumanze del medio evo, Modena 1917; 2ª ed., 1921, p. 207 segg.; P. Sella, Nomi lat. di giuochi negli statuti ital. (secoli XIII-XVI), in Archivum lat. Medii Aevi, V (1930), p. 199 segg.
Giuochi nell'età moderna.
Giuochi popolari. - Le varie distinzioni che si sono proposte tra i giuochi non hanno valore assoluto. Una è fondata sull'età dei partecipanti, ma è relativa perché varî giuochi infantili non sono che sopravvivenze o riduzioni o imitazioni di giuochi degli adulti. Un'altra, cui si è accennato anche sopra, è fatta a seconda dell'elemento prevalente e distingue giuochi di sorte, di abilità, ginnici, cerimoniali e coreografici; ma anch'essa non ha carattere rigido, perché i varî motivi si trovano spesso mescolati nello stesso giuoco. Questo fatto va tenuto presente anche accettando, per convenienza pratica, la distinzione accennata; e così anche l'altro, che un giuoco, pur rimanendo sostanzialmente lo stesso, riceve a seconda dei tempi e dei luoghi, nomi diversi e differenziazioni nei particolari.
Tra i giuochi affidati alla sorte il più diffuso è quello della morra che in qualche regione si distingue in chiamata e muta, a seconda che i giocatori esprimano o no a parole il numero indicato dalle dita della mano. Questo giuoco serve spesso per la designazione delle cariche con cui ha inizio il giuoco del vino (la romanesca passatella; anche voce, o padrone e sotto o i regnanti): in esso il vino acquistato collettivamente viene distribuito tra i partecipanti a libito del capo ("padrone"), solo limitato in parte dal subalterno ("sottopadrone" o "sotto") e in modo che taluno "rimane olmo", cioè a bocca asciutta.
Anche in altri giuochi, in cui concorrono la sorte, la destrezza e l'agilità, la prima costituisce il prologo con l'elezione delle cariche, la distribuzione degli uffizî e delle incombenze. Nel giuoco della barca i partecipanti, in numero di sei, otto, dieci o dodici, divisi in due schiere e seduti a gambe spalancate, gli uni con le gambe fra quelle degli altri, si dondolano a guisa dei rematori in una barca, tentando di tingersi scambievolmente la faccia ai cenni del capo. Al giuoco della civetta prendono parte soltanto tre persone: quella che sta nel mezzo, volgendosi or dall'una, or dall'altra parte, e dicendo: "cucù", tenta di dare uno scapaccione a questo o a quello dei compagni. Nel giuoco dello scarpone i due contendenti, posti l'uno di fronte all'altro, levano le gambe in aria a un dato segno e cercano di colpirsi alle natiche con la grossa scarpa che portano in mano. Giuoco del cieco è quello in cui gli attori con gli occhi bendati, brancolando, si cercano per colpirsi con fazzoletti annodati; giuoco della volpe quello in cui un uomo a cavallo di una pertica, che ha l'estremità inferiore imbrattata di bovina, viene assalito e inseguito dai compagni, che cercano di impossessarsi della pertica senza sporcarsi le mani; giuoco dello scappa-sorcio, quello in cui più individui stanno in fila e a gambe divaricate, mentre un altro corre intorno e, per sfuggire alle scudisciate di un terzo che l'insegue, cerca di passare sotto le gambe di qualcuno dei giocatori, rimanendovi talvolta stretto come in una morsa.
Più animati e vivaci per l'elemento drammatico che prevale su quello ginnico e su quello dell'abilità, sono tanti altri divertimenti che riproducono scene di caccia, di agricoltura, di guerra, di tribunale, di culto.
Col titolo di giuoco del cacciatore s'indica quello in cui i partecipanti che prendono ciascuno il nome di un uccello, debbono stare attenti ai movimenti e alle parole del capo che procede alla caccia dei varî animali col fucile sulla spalla, rappresentato da un bastone. A mano a mano che gli uccelli sono fittiziamente colpiti, si allineano dietro il cacciatore formando un lungo corteo. Analogo è il giuoco dell'animale: in cui ogni attore prende il nome di una bestia (gallo, bue, gatto, volpe, ecc.). Il padrone o capo finge di andare per la campagna, chiamando or questo or quell'animale, e chi li rappresenta deve immediatamente rispondere imitando il verso o la voce dell'essere che rappresenta.
Un giuoco al quale prendono parte i giovani e le giovani d'ambo i sessi è quello che porta il nome di Madonnina della guardiola. La volpe chiede alla Madonnina, che sta nel mezzo del circolo dei partecipanti, che fanno da galline: "Madonnina della guardiola, quante galline nel tuo pollaio?". La Madonnina in tono sprezzante risponde: "Ce n'è quante ce ne debbono essere: basta che siano di buona sorte". E quella di rimando: "Me ne dareste una per consorte, e poi me ne andrò in casa vostra". La Madonnina concede, dicendole: "Va pure nel pollaio, prendi quella che ti piace". La volpe allora dà una toccatina a uno dei giocatori, che la segue uscendo dal circolo, col canto:
Prendo quello dal capo biondo,
Poi me ne vado a girare il mondo.
Segue un evviva in coro, e quindi tutti cantano:
Viva le trezze, viva le bionde,
Viva i capelli di filo d'or.
La scena si riprende fino a quando nel cerehio rimangono due sole persone.
Quando l'elemento scenico, per la complessità dell'intreccio e per la varietà delle figure e degli attori, prende il sopravvento, il giuoco acquista carattere drammatico e talvolta diviene un vero e proprio spettacolo. Ludo carnevalesco chiama G. Pitrè la finta battaglia che, sotto il nome di Mischia, si svolgeva a Enna fra i due partiti, gareggianti nel raggiungere il palazzo comunale per collocarvi il proprio vessillo. La mischia aveva luogo con tutte le formalità e le apparenze d'uno scontro guerresco e quelli dei combattenti che cadevano prigionieri, erano tenuti in tale stato fino alla Pasqua, quando si concludeva, tra festeggiamenti, la pace. Carattere di giuoco ha la cerimonia dello Scaccio della pica, che i contadini di Monterubbiano fanno nella Pentecoste, portando in giro un piccolo ciliegio con una pica legata fra i rami; e mentre uno di essi porta l'arboscello di contrada in contrada, gli altri lo seguono facendo finta di scacciare l'animale con pertiche, gridando: "Sciò a la pica". E carattere di giuochi, sebbene partecipino della forma degli spettacoli, hanno la Caccia al toro o la Corsa del bufalo, che inseguito dai cani, si fa correre entro un recinto o in una piazza con un fascio di spine attaccato alla coda.
Varî altri giuochi, nell'organizzazione dei quali spicca, oltre il carattere cerimoniale, l'elemento ritmico o coreografico, si confondono con le danze, come il cosiddetto giuoco della nave o della torre, che più individui inscenano disponendosi gli uni sulle spalle degli altri, in tre o quattro ordini; e varî altri, poi, si confondono coi giuochi ginnici per il prevalere dell'agilità e dell'abilità muscolare. Tipico fra questi il giuoco della bandiera o ballo dell'insegna (v. danza, XII, p. 368).
Giuochi ginnici veri e proprî per il popolo sono il disco, la corsa, la giostra. Il disco è ordinariamente costituito da una forma di cacio, la quale viene guadagnata da chi la lancia più lontano. La corsa può essere a piedi, a cavallo, sopra carri. Nel primo caso i corridori possono procedere coi piedi insaccati (corsa dei sacchi); nel secondo a dorso di asini (torsa degli asini o dei somarelli), che talvolta cavalcano alla rovescia; nel terzo sopra carri tirati da buoi recanti sulla fronte l'effigie del santo in onore del quale la corsa si svolge. Tra quelle a piedi, caratteristiche sono le corse delle donne, che portano sul capo secchi d'acqua o in mano piatti o cucchiai con uno o più uova. Nei paesi costieri si hanno le regate con barche a remi o a vela, ovvero coi mastelli entro cui discendono nell'acqua i contendenti facendo uso di due spatole (in luogo dei remi), o delle braccia. Con la parola "giostra" impropriamente adoperata, il popolo designa alcune rustiche gare al bersaglio. Le forme più note sono le giostre dell'oca, dell'anitra, del gallo, del montone, del vitello, in cui i giostratori a piedi, o a cavallo, o sopra carri, tentano di colpire passando a gran corsa, con sassi, coi fucili, con le spade, coi coltelli, coi bastoni la bestia legata in varî modi. Talvolta il bersaglio è un cerchio (giostra dell'anello) entro cui i contendenti debbono far passare un'asta; tal'altra il cerchio è sostituito dal manico di un secchio pieno d'acqua, che pende dai piedi di un fantoccio (giostra del buratto). In varî luoghi i giostratori debbono strappare con le labbra o coi denti una moneta attaccata al fondo di una padella o rompere a colpi di bastone e con gli occhi bendati una fra le pentole di creta che contengono i premi e che stanno sospese a una fune, attraverso la strada.
Giuochi fanciulleschi. - I giuochi fanciulleschi sono generalmente riproduzioni di quelli degli adulti; anzi spesso questi, dimenticati o decaduti nella pratica degli uomini, sopravvivono in quella dei fanciulli, per i quali diventano altresì giuoco le costumanze e le varie attività degli adulti, sovente in una forma antiquata; sicché armi e utensili dei tempi remoti, come la cerbottana, la fionda, l'arco e le frecce, la balestra sopravvivono come balocchi.
Comune a fanciulli e adulti è il giuoco dell'anello (parecchi ragazzi si dispongono in circolo: chi sta nel mezzo deve indovinare in quali mani si trova nascosto l'anello o il cerchietto, ecc.). Comunissimo è pure l'altro giuoco, detto sempre acceso o sempre vivo te lo dò o l'ometto vive ancora e, in Toscana, fare al luminello, in cui i partecipanti si scambiano rapidamente, dicendo le parole su accennate, un fiammifero o un tizzo acceso: giuoco che in parte ricorda le tesmoforie della Grecia antica. Agli adulti appartennero giuochi come il campo e come ladri e carabinieri, o gli altri (picca, bandiera, guerra francese, barriera e ora designati con nomi desunti da fatti recenti o addirittura la guerra), in cui s'imitano usi di guerra, si dànno talvolta vere battaglie - non senza seguire taluni rudimentali principî di tattica - e che sono retti da una serie di regole, spesso tradizionali, assai precise.
In molti giuochi del nostro mondo infantile continuano quelli del mondo antico. Il cosiddetto testa o croce o croce e lettera o croce e corona (in Francia croix ou pile, in Inghilterra heads or tails, ecc., a seconda delle immagini portate dalla moneta cui ci si riferisce), che consiste, com'è noto, in una scommessa se la moneta gettata in aria ricadrà mostrando il recto o il verso, e che viene usato tuttora, p. es., per la scelta del campo in competizioni atletiche (giuoco del calcio, ecc.), era presso i Romani il caput aut navis (dalle monete recanti da una parte la testa di Giano bifronte, dall'altra la prora: v. aes Grave, I, p. 669 e tav. CII, 1, 5). Il popolarissimo Daino daino, che si trova sotto varî nomi in quasi tutte le regioni dell'Italia e in varî paesi dell'Europa (Francia, Portogallo, Svezia, ecc.) e che si svolge con tre personaggi (il maestro, seduto, il cavaliere e il cavallo, che con gli occhi bendati deve indovinare quante dita mostri il cavaliere che gli sta addosso) è ricordato da Petronio Arbitro nel Satyricon. In molti altri giuochi, poi, rivivono antiche e dimenticate pratiche di magia. Il diffusissimo giuoco dell'ambasciatore non è che la riproduzione, in forma drammatica, della procedura con la quale i nostri lontani progenitori si solevano procurare la sposa. Secondo il De Gubernatis la procedura rispecchia quella degli antichi Celti per la parte preponderante del messaggero; ma esistono giuochi come quelli inglesi del tipo noci in maggio (nuts in may), che sono chiare reminiscenze dei matrimonî per ratto. Gli studiosi attribuiscono generalmente origine guerresca a quei giuochi che mostrano i piccoli attori schierati su due file, l'una di fronte all'altra, intenti ora ad avanzare, ora a retrocedere; e origine erotica a quegli altri che mostrano gli esecutori disposti in circolo, come nei nostri girotondo. Riproduzione di una dimenticata pratica astrologica si crede sia il giuoco detto la settimana o il mondo, che si fa spingendo col piede una piastrella nei varî scompartimenti (da 7 a 12, numeri sacrali che riconducono a credenze babilonesi) di una figura disegnata sul suolo. La piastrella rappresenterebbe il sole, il quale quando tocca l'ultimo scompartimento cioè il settimo pianeta o il dodicesimo segno dello zodiaco, muore. Analogamente si crede contenga la riproduzione di un antico dramma mistico la nostra mosca cieca, in cui il personaggio bendato che porta il nome ora di becco, ora di vacc:i (onde il nome di blinde Kuh in Germania), simboleggia il diavolo che tenta di afferrare or l'uno or l'altro dei giocatori.
Interessanti, sebbene spesso incomprensibili, sono le tiritere che servono ad accompagnare l'esecuzione di tali giuochi e che talvolta hanno l'intonazione di un racconto, tal'altra carattere aritmetico e servono a contare e a fare il sorteggio (v. filastrocca).
Queste tiritere per il sorteggio delle cariche fanno parte delle regole dei giuochi, i quali sono disciplinati da rigide e sacramentali norme riguardanti l'ammissione, l'espulsione e la reintegrazione degli esecutori, il giuramento, la fedeltà, le penitenze, i pegni, ecc. La buona fede e l'onestà, dice il Pitrè, sono condizioni necessarie in ogni giocatore, e i fanciulli si obbligano per giuramento a mantenere le promesse, a eseguire i patti e a sobbarcarsi alle penitenze nelle quali potranno incorrere. Il giuramento si fa in più modi: segnando in terra una croce, cle i singoli componenti baciano col dito disteso; strappandosi un capello, toccando i proprî panni, o mediante la formula dell'olio e del sale nell'atto d'invocare il nome di Dio.
Ai giuochi presiede un capo (maestro, re, regina, giudice, padrone, ecc.) che comanda, sentenzia, tutela l'ordine, dispone le penitenze e vigila sulla loro esecuzione. In varî giuochi esiste, accanto al capo principale, una gerarchia che discende di grado in grado fino al giudice, all'uomo d'arme, al cameriere, al cuoco, al servo. Una speciale categoria di giuochi è costituita da quegli svaghi con cui le mamme e le balie divertono i bambini, nelle prime età, collocandoli a cavalcioni sulle ginocchia e toccando loro le parti del viso o i ditini, o dondolandoli in avanti e in dietro, col canto di una tiritera o filastrocca, che accompagna i varî gesti o cenni. A tali spassi innocenti fanno seguito i primi trastulli coi balocchi e i giocattoli, che i più grandicelli preparano per sé e per i più piccoli, con gusci di noci, con baccelli, con bocciuoli di saggina e di canna, con pezzi di legno, di cuoio, di panno, ecc., e che a seconda della forma, della figura, della funzione prendono i nomi di Cavallino, Fratino, Frulla e frullino, misirizzi, saltamartino, aquilone, frombola, schioppetto, schizzetto, trottola, ruzzola, zufolo, zampogna, naechere, munnola, gallina, tabella, raganella, ecc.
Bibl.: E. B. Tylor, The history of gauces, in Fortnightly Review, maggio 1879; A. Haddon, Study of man, Londra 1898; ricca è la letteratura riguardante i giuochi dei fanciulli, per la quale v.: Y. Hirn, I giuochi dei bimbi, traduzione P. Faggioli, Venezia (1929). Per l'Italia, v. G. Pitrè, Giuochi fanciulleschi siciliani, Palermo 1883 (Biblioteca tradizioni popolari siciliane, III); R. Riviello, Costumanze, vita e pregiudizi del popolo potentino, Potenza 1894; G. La Gorsa, I giuochi di società presso il popolo pugliese, in Ethnos, I (1919), pp. 49-66; A. Spallicci, La poesia popolare romagnola, Forlì 1921; L. Mannocchi, Feste, costumanze, superstizioni popolari, Fermo 1921, pp. 50-54, 75 seg., 91; G. Zanazzo, Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma, Torino 1908, pp. 293-388; F. Babudri, Fonti vive dei Veneto-Giuliani, Milano s. a., pp. 348-362, 381-390; G. Bacocco, Dei giuochi, in La Piè, XII (1931), pp. 200-203; I. Nieri, Vita infantile e puerile lucchese, Livorno 1917; G. Giannini, Il popolo toscano, Milano s. a., pp. 141-196; A. Balladoro, Venticinque giuochi fanciulleschi, Torino 1899; O. Trebbi e G. Ungarelli, Costumanze e tradizioni del popolo bolognese, Bologna 1922, pp. 219-228; Zeitschrift für psychoanalistische Pädagogik, VI, 1932, n. 5-6 (dedicato interamente al giuoco dei bambini).
Giuochi di società. - I passatempi della nostra epoca, siano essi sportivi o no, di movimento o da tavolino, rispecchiano, tranne qualche rara eccezione, quelli del passato. Così come sotto nomi nuovi, presi spesso a prestito da lingue straniere, rivivono quasi tutti i giuochi italiani all'aria aperta, dal calcio fiorentino (football), alla pallacorda (lawn-tennis), dalla palla a maglio (cricket) alla zucca galleggiante (water-polo); così si è verificato per i giuochi in luoghi chiusi, detti pure "da salotto" o "di società", i quali ancor oggi sono press'a poco gli stessi che si praticavano in Italia due o tre secoli fa. Per i principali giuochi all'aria aperta, sportivi o rappresentativi, si rimanda alle singole voci (come arco; bigliardo; birilli; calcio; cricket; ecc.); così per i principali tra quelli fatti in luoghi chiusi (come dadi; dama; domino; enimmistica; puzzle; scacchi; ecc.). Qui si farà cenno dei più noti giuochi di società.
Il grammofono, la radio, i giuochi con le carte e sulla scacchiera hanno sostituito in gran parte i giuochi da salotto, che ebbero voga soprattutto nell'ultimo Ottocento, e che sono ora per lo più confinati nelle riunioni patriarcali della villa o dei paesi. I principali, tra quelli che sopravvivono, sono:
I proverbî muti. - Si deve esprimere un proverbio col gesto anziché con la parola. I giocatori che non riescono a interpretare il proverbio rappresentato mettono pegno. Ma poiché non sempre il giocatore che gestisce riesce chiaro, uno della riunione fa da presidente e gli è conferita la facoltà di chiedere spiegazioni a chi mette in azione il proverbio.
Le sciarade mute. - Egualmente con il gesto si esprimono sciarade, indovinelli e rebus. Similmente si hanno i proverbî parlati e le sciarade parlate: alcuni giocatori recitano brevi scene, menzionando volta a volta, nel discorrere, le singole parole del proverbio o della sciarada. Gli spettatori debbono indovinare.
Le parole obbligate. - Uno dei giocatori vien fatto allontanare momentaneamente dalla sala, sì che il direttore del giuoco possa assegnare una parola a ciascun giocatore. Si fa rientrare l'assente, il quale interroga, a turno, tutti coloro che prendono parte al passatempo. L'interrogato ha l'obbligo di far entrare nella risposta la parola assegnatagli. A ogni giocatore l'interpellante può rivolgere tre domande. Se con le tre risposte ricevute non riesce a indovinare la parola paga pegno.
La mano calda. - Questo giuoco prettamente italiano ebbe grande favore nel Cinquecento e allora si chiamava A messere sono stato ferito; esso vien ricordato da Andrea Calmo, autore e attor comico veneziano del sec. XVI, nelle sue commedie (col titolo "A compagno mio, chi è da drio"). Una persona, indicata dalla sorte, nasconde il viso nelle palme delle mani del "confessore", quindi porta la mano destra, con la palma rivolta in alto, un po' più giù delle reni. Gli altri giocatori a turno si avvicinano e battono con la propria mano su quella del paziente. Questi deve indovinare chi lo ha percosso, e se indovina lascia il posto a chi lo colpì. Questo giuoco ha dato anche motivo a composizioni pittoriche famose, tra le quali il quadro di Janssens La mano calda.
Parole a doppio senso. - La persona che dovrà indovinare si apparta momentaneamente, e gli altri giocatori concertano la parola che deve avere un doppio significato. Quindi viene richiamata la persona che dovrà indovinare, la quale pone tre domande a ciascun giuocatore, e cioè: "Come, dove, perché lo ami?". Nel rispondere l'interpellato deve cercare di alludere ora all'uno ora all'altro significato della parola prescelta, allo scopo di porre nell'imbarazzo l'interrogante.
L'oracolo. - S'incarica uno della comitiva di fare da sibilla. Questi distribuisce ai presenti un certo numero di fogli di carta, in cima a ciascuno dei quali viene scritta dai giocatori una domanda. Ritirati i fogli, la sibilla scrive sotto a ciascuna domanda un numero di risposte pari a quello dei giocatori, cercando di mostrarsi arguta e garbata. Quindi ciascun giocatore sceglie un numero di ciascuna risposta, che la sibilla legge secondo l'indicazione.
Le penitenze. - Nei ritrovi familiari, nei quali si eseguiscono i cosiddetti passatempi di società, s'impone una "penitenza" a coloro che errano o non riescono nell'intento stabilito. Ciò si dice anche mettere "pegno", per ritirare il quale occorre sottoporsi alla penitenza stabilita da chi assume la direzione dei giuochi. Le penitenze più frequenti sono: lo spegnitoio: si fa collocare il penitente in piedi, con le mani a tergo. Uno dei compagni di giuoco fa passare velocemente davanti alla sua bocca, tenendola a circa venti centimetri di distanza, una candela accesa, ch'egli deve, soffiando, spegnere. Non riacquista il pegno se non riesce nell'intento; il cartellino: il penitente chiede a ciascun giocatore: "Se fossi un cartellino cosa ne faresti". L'interpellato dà la risposta più opportuna, spesso non troppo lusinghiera; lo spirito di contraddizione: il penitente dovrà fare il contrario di quanto gli viene ordinato; il consigliere: il penitente è costretto a dare un consiglio ad alta o a bassa voce a ciascuno dei giocatori, ciò che spesso riesce imbarazzante; il paragone: il penitente deve paragonare uno dei compagni a qualcosa, dicendo le ragioni che alla cosa lo fanno somigliare, o viceversa; la berlina (v.), ecc.
Le ombre cinesi. - Le più lontane notizie su questo passatempo si trovano in un libro cinese del 1790. In Europa esso fu diffuso dal Trewey, presto imitato in Italia da molti, principalmente dal pittore milanese Giacomo Campi. Le ombre si eseguiscono con le mani sole o con queste e alcuni cartoni accessorî, destinati ad assicurare gli effetti che non si possono ottenere con le sole mani. Per eseguirle occorre una breve preparazione per sciogliere le dita a determinati movimenti. Dopo di che, con una candela e con alcuni pezzetti di carta, si possono ottenere sulla parete bianca una quantità di figure diverse e divertenti.
Le conseguenze. - I giocatori, in circolo, scrivono ognuno sopra un foglietto il nome di una persona nota di sesso maschile; piegano quindi l'orlo del foglio e passano il proprio cartellino al vicino di destra; scrivono quindi un nome noto femminile, nascondono lo scritto con un'altra piega del foglio, e ripassano come sopra; il giuoco prosegue indicandosi via via il luogo dove le due persone s'incontrarono, che cosa si dissero, ecc., e da ultimo quale fu la conseguenza dell'incontro. Poiché un giocatore nulla sa di quanto scrivono gli altri, si ottengono combinazioni del tutto impreviste, spesso di effetto bizzarro.
Passa l'anello. - I giocatori si dispongono seduti in circolo, tenendo tra le mani un lungo spago annodato ai due capi, in cui è infilato un anello. Le mani dei partecipanti si muovono di continuo, e l'anello vien fatto passare con sveltezza dall'una all'altra. Un giocatore, in piedi in mezzo al circolo, può interrompere in qualsiasi momento il passaggio dell'anello, e designare uno dei partecipanti seduti, il quale deve aprir le mani. Se ha l'anello, i due cambiano di posto, altrimenti il giuoco continua finché chi sta nel mezzo non ha indovinato.
I quadri viventi. - Alcuni giocatori, eventualmente travestiti, rappresentano una scena storica o un quadro celebre; gli altri debbono indovinarne il significato. Lo spettacolo può assumere carattere artistico, e non rientra più, allora, nell'ambito dei giuochi di società.
Giuochi di carte. - Baccarà. - Giuoco che si ritiene comunemente introdotto durante il regno di Carlo VIII dall'Italia in Francia, da dove poi si diffuse in tutta l'Europa. È uno dei più rovinosi, perché basato esclusivamente sull'azzardo. Si giuoca con più mazzi (sino a 3) di 52 carte francesi tra un "banchiere" e un numero variabile di giocatori, che siedono per metà a destra e per metà a sinistra del banchiere, formando rispettivamente il tableau di destra e il tableau di sinistra. All'inizio della partita il banchiere annunzia la somma che mette in fuoco (banco) oppure dichiara "banco aperto", ossia che è disposto a tenere tutte le scommesse, qualunque ne sia l'importo complessivo. Quindi ogni giocatore mette davanti a sé la sua posta; nel caso che sia annunziato l'ammontare del banco, il totale delle poste non può eccedere quella somma; nel caso del "banco aperto", il banchiere copre ogni posta con egual somma.
Il banchiere, dopo che i mazzi sono stati mischiati da un giocatore e, se vuole, anche dal banchiere, e quindi fatti tagliare (alzare) da un altro giocatore, o anche da un estraneo alla partita, distribuisce una carta coperta al tableau di destra, una a quello di sinistra e una ne prende per sé; e quindi una seconda carta nello stesso ordine. Il giocatore che, in ogni tableau ha ricevuto le due carte, le guarda e ne somma i punti: ogni figura vale 10, mentre le altre carte valgono tanti punti quanti ne portano segnati: e dalla somma sottrae 10. Se i punti sono 9 ovvero 8, "batte", cioè butta le carte scoperte sul tappeto; altrimenti le tiene coperte. Anche il banchiere fa lo stesso. Quando si è battuto gli altri devono scoprire le carte. Il banchiere quindi ritira le puntate se il tableau ha un numero di punti inferiore a quelli da lui posseduti; paga se il tableau ha punti superiori; impatta se i punti sono uguali.
Quando nessuno "batte", il banchiere offre una terza carta ai tableaux e, se gli conviene, ne prende una per sé: questa terza carta si dà scoperta. Allora si scoprono i giuochi e si sommano i punti delle carte, sottraendo dal totale 10, 20 o 30, secondo i casi; per il pagamento si procede come nel primo caso. Di regola il giocatore che segna 7 0 6 con due carte deve rifiutare la terza carta, mentre deve accettarla, se ha punti inferiori a 5; con 5 può prendere o rifiutare.
I giocatori di ogni tableau vedono le carte a turno; e ogni giocatore ha diritto a vedere, sinché il suo tableau non perde.
Bazzica. - Questo giuoco è di origine francese (bésigue) e ha una certa somiglianza con la nostra briscola, ma è di essa più complicato, ed esige particolari doti di memoria e di osservazione; si giuoca in due modi principali: semplice o doppia.
La bazzica semplice si giuoca ordinariamente tra due giocatori con un mazzo di trentadue carte; le carte si seguono in quest'ordine: asso, 10, re, donna, fante, 9, 8, 7. I giocatori voltano ognuno una carta: chi volta la più alta distribuisce le carte dandone sei all'avversario e sei prendendone per sé. La 13ª carta serve a indicare il seme dominante (briscola o atout). I punti della bazzica vengono calcolati: a) in base alle combinazioni che ciascun giocatore può avere in mano e che possono essere di sette specie diverse, valutate da 20 a 100 punti; b) in base agli assi e ai 10 che risultano tra le carte prese (10 punti per ognuna di queste carte). La partita va di solito ai 500 punti. Il giuoco comprende molte regole particolari, che qui si omettono.
La bazzica doppia si giuoca in due con due mazzi di 32 carte mescolati insieme e va ai 1000 oppure ai 1500 punti.
Bestia. - La bestia è un giuoco di carte assolutamente italiano, che di regola si giuoca in cinque, ma si può giocare anche in più o meno persone (da 3 a 7). Si usa un mazzo di 52 carte da cui si tolgono i 2, i 3, i 4 e i 5 se i giocatori sono in sei o sette (mazzo di 36 carte); le precedenti più i 6, se i giocatori sono in cinque (mazzo di 32 carte); anche i 7 se i giocatori sono in meno di cinque (mazzo di 28 carte). Il re è la carta di maggior valore di ciascun seme. Esso prende la donna; questa il fante, che a sua volta prende il 10, e così di seguito.
Prima d'iniziare il giuoco si fa "ai posti" distribuendo una carta per ciascuno: chi riceve per primo un re dà le carte. Prima di cominciare la distribuzione delle carte si stabilisce il numero delle partite, o giri, da fare. Quindi il distributore mischia, fa alzare il mazzo dal compagno di sinistra e dà a ciascun giocatore cinque carte, due, due e una, o due e tre, oppure tre e due, a suo piacimento, senza peraltro alterare l'ordine di distribuzione nella stessa mano. Distribuite le carte, chi le fece volta la carta di sotto del tallone (mazzo), e vi pone accanto, in mezzo alla tavola, alla vista di tutti, il tallone. Questa carta scoperta indica il "trionfo" (briscola).
Nel mezzo della tavola è un piatto capovolto, e ciascun giocatore mette una marca metà sotto, metà fuori dell'orlo di esso, e due gettoni sopra il fondo del piatto stesso: uno per il giuoco e l'altro per il giocatore che scoprirà il re di trionfo, che li guadagna, anche se non viene giocato (purché si giuochi il colpo). Il distributore mette poi un altro gettone davanti a sé per indicare chi fece le carte. Chi vince ritira i gettoni che sono sul piatto e una solamente delle marche nascoste a metà, e così di seguito sino a che sotto l'orlo del piatto restano marche.
Ad ogni partita o giro si rinnova la posta sopra il piatto. Queste marche possono essere vinte parzialmente o totalmente in varie maniere, delle quali s'indicano qui le principali. Quegli che, facendo giuocare, può fare tutte le mani, guadagna non solo i gettoni del giuoco, ma anche tutto il resto, comprese le marche e le "bestie" fatte. In più, ritira un gettone da ciascun giocatore. Né rischia alcunché a tentar di fare tutte le mani perché se non le fa nulla perde.
Quando quegli che tiene il giuoco non guadagna, "fa bestia" ossia paga altrettanti gettoni, quanti ne avrebbe potuto guadagnare. Es.: se il colpo era semplice, colui che farà "bestia", essendo i giocatori cinque, la farà di undici marche, perché le marche che ciascuno mette sul piatto sono dieci, e con quella che il distributore pone davanti a sé, undici.
Allorché uno dei giocatori ha il re di trionfo, gli altri devono mettere sul piatto un gettone per rinnovare il premio del re nel giro successivo.
Per guadagnare, il giocatore deve fare almeno tre mani o levate; oppure le prime due; e cioè essere primo a fare due levate, altrimenti farà "bestia". Quando si dice "le due prime" s'intende che nessun giocatore ne abbia più di una. Talvolta, peraltro capita che un giocatore, convinto di possedere un buon giuoco, non impedisca che un altro giocatore che lo segue possa giocare avendo carte che possano dargli garanzia di vittoria su tutti i compagni. Si è detto "tutti", perché è necessario ch'egli faccia "contro" ed è interesse di "tutti" di far perdere il "contro", perché la perdita vien pagata con la "bestia doppia". Per far "contro", però, occorre possedere un giuoco molto buono, e non lo si può dichiarare quando si è giocata di già una carta senza avere avvertito di voler fare "contro".
È obbligatorio rispondere sempre nel seme della prima carta giocata in ciascuna mano, a meno di non esserne sprovvisti. Altrimenti si deve "tagliare" con una carta di trionfo molto forte, onde altri non la sopraffaccia. Però, se la carta a cui si rinuncia di rispondere è stata di già "tagliata" da un "trionfo" più forte di quello che si possiede, allora non c'è più l'obbligo di rispondere nel seme richiesto. Quando chi è di mano ha visto il proprio giuoco, se lo giudica buono, dice: "giuoco"; oppure senza dir nulla getta la carta che gli sembra migliore. Quello che fa la levata giuoca a sua volta, e così di seguito fino a che non sia terminato il giro. Dalle levate di ciascuno si vedrà se chi ha fatto giocare "ha visto", o ha fatto "bestia".
Se chi è di mano non ha buon giuoco e non vuol rischiare, dice: "passo". Il secondo, se vuol giocare, dice: "giuoco", altrimenti anch'egli dice: "passo", e così gli altri. Chi ha parlato non può pentirsi.
Se qualcuno facesse giocare, chi è di mano comincia il giuoco con la carta che più gli aggrada. Ma quando tutti i giocatori passano, ciascuno di essi può richiedere la "curiosa", ponendo un gettone in giuoco, e allora la carta ultima del tallone si scopre e diventa "trionfo".
Chi ha domandato la "curiosa" può esigere che si giuochi nel seme di essa, e chi ha il re di trionfo ritira i gettoni che sono nel piatto, purché, ben inteso, si faccia il giuoco.
Il giocatore che fa tutte le levate, ritira tutto quanto si trova sul piatto, le "bestie" che non vanno sul colpo e un gettone da ciascun giocatore. Mentre colui che fa giocare, e non fa alcuna levata, raddoppia quanto si trova sul piatto e fa altrettante "bestie" quante ne avrebbe potuto guadagnare, e paga un gettone a ciascun giocatore.
È di precetto che per "far giocare", occorre avere un giuoco che garantisca tre mani o levate, o almeno le prime due; per es., una donna, un fante e un 9 di trionfo e un re; fante, asso e 10 di trionfo, accompagnati da una donna e da un fante dello stesso seme; re e asso e rinuncia; re e donna di trionfo con e senza rinuncia; donna, 10, 9, e un re; re, asso e 9 e così via. Quegli che rinuncia, cioè, avendo una carta del seme giocato, non la giuoca, fa "bestia", quegli che fa le carte male paga un gettone a ciascun giocatore e rifà il mazzo; però, se l'errore si scopre dopo che si è giocato, il colpo nel quale è stato constatato l'errore non vale; i precedenti invece valgono.
Bridge. - Giuoco che ci proviene dall'Inghilterra, dove fu importato dal Cairo nel 1894 da lord Brougham. L'origine prima di questo giuoco, che cominciò a diffondersi dal 1901, resta però oscura. Ora il bridge semplice non è più giocato da nessuno, essendo stato sostituito dal bridge a incanto (auction bridge), che, creato in India nel 1902, ebbe un regolare codice nel 1909, un po' modificato nel 1924 e nel 1928.
Dal bridge a incanto è poi derivato il bridge plafond o bridge contratto, che si è diffuso assai rapidamente, e che differisce dal primo per il modo di contare i punti. Nel 1932 è andato in vigore il nuovo codice delle leggi sul bridge, promulgato dal Portland Club, dal Whist Club di New York e dalla Commission française du bridge, che unifica tutte le vecchie regole perfezionandole, salvo il conteggio dei punti che rimane diverso per i tre sistemi.
Il bridge si giuoca tra quattro giocatori, i quali si accompagnano a due a due. L'uso vuole che si adoperino alternativamente due mazzi di 52 carte, il cui verso sia di colore differente.
Ogni partita (rubber) si compone di tre mani (manches) di 30 punti ciascuna; vince la coppia che fa due mani su tre; se però una coppia vince due mani di seguito, la terza mano non si giuoca. Alla fine della partita si sommano tutti i punti registrati dalle due coppie, e i perdenti pagano la differenza ai vincitori, riducendo i punti in denaro, secondo una tariffa stabilita in principio: una differenza di quattro o cinquecento punti alla fine di ogni partita è cosa normale.
Il giuoco s'inizia con la determinazione dei compagni. Le carte di un mazzo sono sparpagliate coperte sul tavolo: ogni giocatore ne scopre una; i due che hanno scoperto le carte maggiori si appaiano e così pure quelli che hanno scoperto le più basse. Il giocatore che ha preso la carta più bassa, sceglie uno dei due mazzi e distribuisce le carte. Chi siede a sinistra di chi deve dare le carte, le mischia e posa il mazzo alla propria destra; il distributore passa il mazzo a chi gli siede a destra, il quale alza le carte. Il mazzo deve essere tagliato in due pacchetti, e un pacchetto non può avere meno di quattro carte. Il distributore raccoglie il mazzo e inizia la distribuzione da sinistra a destra, dando una carta alla volta a ciascun giocatore, sino a esaurimento del mazzo. Mentre si esegue la distribuzione, il giocatore a sinistra del distributore mischia l'altro mazzo di carte e lo pone alla sua sinistra; finita la mano, lo passerà alla sua destra per farlo tagliare. Ci sono regole minute per le irregolarità che possono verificarsi durante la distribuzione, e ogni irregolarità ha la sua sanzione. Ogni giocatore raccoglie le sue carte a distribuzione compiuta, quindi le divide per colore. A questo punto s'inizia la gara, che tende a stabilire se ci debba essere un colore di atout, e quale debba essere, oppure se si debba giocare senza atout.
Poiché la carte distribuite a ogni giocatore sono tredici, tredici sono le prese (levées). Di esse, sei sono obbligatorie ("dovere"), mentre le altre sette costituiscono l'oggetto della gara. Ai fini dei punti della partita soltanto le prese che eccedono le prime sei vanno contate, ed esse hanno un valore differente secondo il colore dell'atout; ogni levata, dopo le prime sei, fatta con atout a fiori vale 6 punti, a quadri 7 punti, a cuori 8 punti, a picche 9 punti, a senza atout 10 punti. Il giocatore che ha dato le carte, dopo aver guardato il proprio giuoco, può "dichiarare", cioè impegnarsi a fare un certo numero di levate oltre il dovere se un dato colore è accettato come atout, oppure passare, se non trova il suo giuoco abbastanza buono. Il primo giocatore a sinistra può a sua volta aumentare l'impegno, nello stesso colore, di chi ha parlato prima, può dichiarare in un altro colore, può iniziare a sua volta le dichiarazioni oppure passare; e così successivamente gli altri due giocatori. L'atout o il senza atout viene fissato dalla più alta dichiarazione, dopo la quale tre successivi giocatori abbiano passato; tenendo presente che, secondo l'uso inglese, prevale il numero più alto di punti che un giocatore s'impegna a fare, mentre secondo il sistema americano, ora comunemente accettato, prevale il numero maggiore di prese. Se uno dei giocatori, per es., ha dichiarato 2 picche, tanto secondo il sistema inglese quanto secondo l'americano, egli viene superato dal giocatore che dichiari 3 quadri, perché per il sistema inglese 2 picche valgono 18 punti, 3 quadri ne valgono 21, mentre, per il sistema americano il primo s'impegna a fare 8 levate soltanto, mentre il secondo ne deve fare 9, cosa evidentemente più difficile. Tra 4 fiori (4 × 6 = 24 punti) e 3 cuori (3 × 8 = 24 punti), tanto col sistema americano, quanto con quello inglese, è superiore la prima, perché, anche in quest'ultimo sistema a parità di valore di punti prevale il numero delle prese. Se il compagno del maggiore offerente ha dichiarato prima di questo nel colore accettato, è considerato vincitore dell'incanto. Il primo a giocare è il giocatore a sinistra di chi è considerato come vincitore dell'incanto.
La dichiarazione ha una grande importanza nel giuoco e vi sono varie regole per ben dichiarare, che non possono essere qui minutamente esposte. Essa serve, tra l'altro, a far comprendere al compagno che giuoco si abbia in mano, ma nel tempo stesso lo svela agli avversarî. Decisivo per la dichiarazione è il numero delle carte "franche" che si hanno in mano, di quelle carte cioè che gli avversarî non possono prendere.
Nel dichiarare bisogna evitare tanto il tenersi troppo bassi, il che potrebbe pregiudicare in seguito le sorti della partita, quanto il fare dichiarazioni troppo alte, che difficilmente possono essere mantenute. A punire gl'incauti e gli audaci serve il contre. Quando uno dei giocatori ha fatto una dichiarazione, e uno degli avversarî, giudicando dal proprio giuoco, ritiene ehe il contratto non possa essere mantenuto, appena ha la parola dice: "contre"; ogni presa assume allora un valore doppio di quello usuale. Quindi, se il dichiarante fa le prese annunziate segna nel conto della partita il doppio dei punti guadagnati, più un premio nel conto degli onori per l'impegno mantenuto; se supera la propria dichiarazione segna un premio agli onori per ogni presa fatta in più. Se invece il dichiarante non soddisfa il contratto, gli avversarî segnano un certo numero di punti nel conto degli onori per ogni presa fatta in meno dal dichiarante.
Dopo annunciato il contre, la parte che è stata "contrata" può dichiarare un altro atout, può passare, oppure dire a sua volta: surcontre. Questo annuncio raddoppia i punti e le penalità del contre. Anche dopo il surcontre si può cambiare dichiarazione, oppure passare.
Aggiudicata la dichiarazione, il giocatore a sinistra del vincitore della gara, "il dichiarante", giuoca la prima carta; immediatamente dopo il compagno del dichiarante depone le sue carte scoperte sul tavolo: egli diviene il morto e non prende più parte al giuoco né può interloquire, tranne che per avvertire il dichiarante quando questi avesse fatto una ricusa. ll dichiarante giuoca una delle carte del morto; quindi giuoca il 3° giocatore e infine il dichiarante, che getta una delle sue carte. Chi ha giocato la carta più alta o l'atout di maggior valore, fa la prima presa, e dopo averla deposta coperta sia davanti a sé sia davanti al compagno, giuoca a sua volta un'altra carta per iniziare l'altra presa. Durante il giuoco si deve rispondere nello stesso seme giocato dal primo che ha gettato la carta; la ricusa (renonce), il giocare cioè una carta di un altro seme, quando si abbia carte del seme giocato, è punita; la parte avversaria può segnare ai proprî onori 150 punti oppure togliere alla parte che ha rifiutato 3 prese, che possono valere per vincere la mano o la partita. Se la ricusa è stata fatta dalla parte dichiarante, essa non può segnare la mano o la partita, tranne nel caso che la ricusa sia avvenuta dopo che l'impegno era stato mantenuto e la mano era stata vinta. La ricusa si considera fatta, quando la presa è stata voltata. Più ricuse fatte dallo stesso giocatore allo stesso colore si considerano come una sola. Il "morto" non può fare renonce: se la mano presa in cui il morto ha fatto una ricusa viene coperta, il giuoco continua come se la ricusa non fosse avvenuta.
Finita la mano si contano i punti; segnando a parte quelli della partita e quelli degli onori. Solo i punti di partita decidono della vincita della mano. Se, per es., il dichiarante aveva detto 3 picche, ed esegue la dichiarazione, facendo 3 prese, egli segna 27 punti, e glie ne occorreranno solo altri 3. Non è possibile qui analizzare l'andamento del giuoco, per il quale del resto difficilmente possono darsi regole precise, dato il numero e la varietà delle combinazioni possibili per vincere la partita, che va ai 30 punti.
Gli onori sono: asso, re, dama, fante e dieci di atout; a senza atout, gli assi solamente: 3 onori valgono 2 volte il valore dell'atout; 4 onori valgono 2 volte il valore dell'atout; 4 onori divisi tra i due compagni, 4 volte; 5 onori divisi, 5 volte; 4 onori nella stessa mano, 8 volte; 5 onori di cui 4 nella stessa mano, 9 volte; 5 onori nella stessa mano valgono infine 10 volte l'atout. A senza atout 3 assi in una mano valgono 30 punti, 4 assi divisi, 40 punti, 4 assi nella stessa mano, 100 punti, la chicane, cioè la mancanza assoluta di atout, vale 2 volte l'atout, e si può cumulare con gli altri onori. Inoltre, quella delle due parti che riuscisse a fare tutte le prese, meno una (piccolo slam) segna 50 punti agli onori; se fa tutte le prese (grande slam) segna 100 punti. Il vincitore della partita (cioè di due mani su tre) segna agli onori 250 punti. Quando la parte dichiarante fa un numero di prese inferiore del dichiarato, la parte avversaria segna agli onori tante volte 50 punti quante sono le prese mancanti. In caso di contre, se il dichiarante adempie l'impegno, segna 50 punti agli onori, più 50 punti per ogni presa in più dell'impegno; se invece il dichiarante non compie il rintratto, la parte avversaria segna 100 punti per ogni presa mancante al contratto. Il surcontre fa raddoppiare premî e penalità.
Nel bridge plafond si segnano in conto della partita soltanto le prese dichiarate; quelle fatte in più si segnano agli onori: questo fatto modifica notevolmente la tattica della dichiarazione; ma per il resto valgono le stesse regole del bridge a incanto. Ecco il modo di segnare i punti (marca) al bridge plafond (1932):
Il surcontre è il doppio del contre.
Le penalità per prese mancate si calcolano nello stesso modo di quelle in più.
Ricusa (renonce): per la 1ª si tolgono due prese all'avversario, pet ogni ricusa successiva allo stesso colore si segnano 100 punti agli onori.
Briscola e briscolone. - È un giuoco schiettamente italiano. Si usa un mazzo di quaranta carte, dieci per ogni seme. Per valore l'asso domina tutte le altre carte dello stesso seme. All'asso seguono: il 3, il re, la donna e il fante, quindi il 7, il 6, il 5, il 4 e il 2. L'asso e il 3 sono detti "carichi", e nel computo dei punti l'asso vale undici, il 3 dieci, il re quattro, la donna tre, il fante due. Le altre carte non hanno valore.
Una partita si compone di una serie di tre giuochi o giri, di sessantun punti ciascuno. Si giuoca in due, in tre e in quattro. Quando si giuoca in tre ogni giocatore fa da sé; quando si giuoca in quattro si fa ai compagni, e vanno insieme i due che alzarono le carte più elevate. Quando si giuoca in tre, si sopprime un due dal mazzo.
Prima di cominciare il giuoco "si fa la mano", cioè ognuno leva una carta, e chi ha levato la minore mischia il mazzo e, dopo aver fatto alzare il mazzo dal vicino di sinistra, distribuisce tre carte a ciascun giocatore, cominciando dal vicino di destra. Prima o dopo la distribuzione scopre una carta, che indicherà il seme della briscola. Sopra questa posa il mazzo, lasciando visibile la briscola; tutte le carte dello stesso seme di quella scoperta sono di briscola e vincono le carte di altri semi.
Durante la prima mano o "scarto", non è lecito parlare o far segni convenzionali. Nelle successive mani sì; e all'ultima mano, quando cioè non vi sono più carte in tavola, i compagni possono mostrarsi le proprie carte, per regolarsi nel giuoco. Se nello scozzare, alzare o distribuire le carte, se ne scoprisse taluna, si comincia da capo.
Dopo ogni scarto ogni giocatore prende una carta dal mazzo coperto: primo a levare è chi ha guadagnato la mano; poi chi gli sta a destra, e così di seguito. Se nel prendere carta il giocatore invece di una ne levasse due, quella levata in più si nasconde verso la metà del mazzo.
Tutti i contrasti che potessero sorgere durante il giuoco si decidono al termine del giro.
Il briscolone è una variante della briscola, e si giuoca in due. In questo giuoco non si scopre la carta di briscola; la carta maggiore prende la minore e quindi l'asso prende il 3, il 3 prende il re, ecc., e la partita va ai 121 punti, oppure ai 151.
Écarté. - Si giuoca tra due persone con un mazzo di 32 carte, come per il picchetto. A ogni mano si cambia il mazzo con un altro avente il dorso di colore diverso. Tranne patti diversi, la partita va ai cinque punti. Innanzi tutto si fa "alla mano", alzando alcune carte e scoprendo l'ultima di esse. Se un giocatore non alza e non scopre la carta ultima, è considerato come avente la carta più bassa, e se per errore ne scoprisse due, si terrebbe conto della più bassa scoperta. Quegli che ha scoperto la carta più alta, fa carte. In partita legata la distribuzione ha luogo come negli altri giuochi. "Legata" si dice la partita che risulta composta di due o tre partite, ed è indispensabile guadagnarne due per vincere. La mano è buona anche se si adoperò un mazzo di carte "falso", cioè mancante di una o più carte, o avente uno o più duplicati, detti in gergo "doppietti". L'ordine di valore delle carte è: re, dama, fante, asso, 10, 9, 8, 7.
Tanto la distribuzione quanto lo scoprimento delle carte sono soggetti a regole fisse. Chi ha la mano mischia il mazzo, lo fa alzare al competitore e quindi distribuisce cinque carte all'avversario e altrettante ne prende per sé. Le carte devono essere distribuite tre e due, o due e tre, ad arbitrio del distributore. Quindi si scopre l'undicesima carta e il mazzo viene deposto su essa alla destra di chi fece le carte, e forma il "tallone". Durante la partita non si può cambiare il modo di dare carte, e se nel giuoco si presentassero una o più carte scoperte, e i giocatori non avessero ancora esaminato le carte avute, il giuoco sarebbe nullo, a meno che la carta scoperta fosse l'undicesima. Invece, la giocata sarebbe buona se i giocatori si avvedessero della irregolarità dopo lo scarto, sempreché le carte scoperte vadano al distributore. Ma se la carta o le carte scoperte andassero di diritto all'avversario del distributore, costui sarebbe arbitro di ritenere o no buona la giocata. Se nel dare carte il distributore scopre una o più carte dell'avversario, questi ha diritto di tenerle o di far rifare il mazzo e le carte. Se, invece, le carte scoperte appartengono al distributore, la giocata è buona. Se nel dare carte il distributore erra il turno e l'errore è rilevato prima di scoprire le carte, si rifà il mazzo; se viene constatato dopo che le carte sono state scoperte e prima di cominciare a giocare e scartare, il mazzo tal quale si riserva al giuoco successivo e si prende il mazzo di colore diverso per fare la giocata. Questa, peraltro, è buona se l'errore fu constatato dopo lo scarto e il getto delle carte. L'ordine della distribuzione si corregge con il ristabilimento dell'ordine normale, sempreché le carte date erroneamente non siano state vedute dai giocatori. Così, se chi ha chiesto carte ne ha ricevute meno delle richieste, può reclamare le mancanti, se il distributore non ha veduto le proprie carte. Se tale errore venisse constatato nelle carte del distributore, l'avversario può concedergli di prendere la prima o le due prime del tallone; oppure invitarlo a rifare le carte. Se invece il distributore ne avesse di più del prescritto, l'avversario può scegliere le eccedenti tra quelle del distributore, o obbligare questo a rifare il mazzo. Ogni volta che si rifà carte si perde la mano. Ma se si constatasse che l'errore non può attribuirsi al distributore, allora il primo a giocare perde un punto e non può contare il re. E così chi, dopo lo scarto, giuoca con più di cinque carte, perde un punto e non può contare il re. Infine, se il distributore nel dare le carte scopre con l'undicesima una o più carte, l'avversario ha il diritto di ristabilire l'ordine normale col far ritirare le carte scoperte in più, oppure ordinare di rifare il mazzo.
Lo scoprimento delle carte e la funzione del re hanno importanza rilevante in questo giuoco. Chi scopre un re segna un punto, e chi ha nel suo giuoco il re del seme corrispondente all'undicesima carta (quella scoperta) segna un punto. Il re dev'essere denunciato prima di giocarlo.
Chi ha ricevuto le carte giuoca per primo, ed è obbligatorio giocare nel seme della carta annunciata. Perciò chi, giocando, dice: "cuori" e invece getta fiori o altro seme, è obbligato - se l'avversario lo esige - a ritirare la carta e giocarne un'altra del seme annunciato. Ma se l'avversario giudica la carta giocata erroneamente, di suo vantaggio, copre con una carta dello stesso seme quella avversaria, onde impedire che venga ritirata e sostituita. Chi giuoca prima del proprio turno ha il dovere di ritirare la carta, purché non sia stata coperta da quella dell'avversario. Una volta coperta, il giuoco è buono.
Lo "scarto" ha funzioni e regole particolari. Se il giocatore che ha ricevuto per primo le carte non è soddisfatto del giuoco toccatogli, dice: "scarto"; oppure: "propongo", o anche: "volete" o "se volete". Se anche il distributore non è contento delle carte toccategli, accetta la proposta, dicendo: "quante?" e dà all'avversario tante carte quante ne chiede, e ne prende per sé quante ne desidera, sempre nel limite di cinque. Le carte domandate non possono rifiutarsi, e se il primo a giocare non è soddisfatto di esse, dopo aver fatto lo scarto può rinnovare la richiesta e ripeterla ancora sino a esaurimento del tallone, sempreché il distributore consenta e non rifiuti. Prima di ricevere le carte chieste, se ne scartano altrettante di quelle che si hanno in mano; tutti gli scarti si mettono insieme e non possono essere più toccati. Se dopo varie sostituzioni e scarti il primo a giocare chiede più carte di quante ne rimangono nel tallone, egli può prendere le mancanti, scegliendole tra quelle da esso scartate per ultime, e di troppo. Il giocatore che, durante il giuoco, guarda il proprio scarto, è condannato a giocare a carte scoperte. Quando dopo la prima distribuzione chi è di mano propone e il distributore rifiuta, questi perderà due punti, se non riuscirà a fare tre levate; e due punti perde chi giuoca senza aver proposto, se non fa le tre mani, o levate. Se il distributore, dopo lo scarto, fa le carte come se fosse la prima distribuzione, e cioè scopre la undicesima, non può rifiutare un secondo scarto richiesto dall'avversario. I punti sono regolati in modo che non se ne può fare più di due per volta, a meno che si abbia il re. Fare due punti avendo anche il re si dice: "fare la vole".
"Rinunciare" vuol dire rispondere in un seme diverso da quello "domandato" (giocato), pur avendo in mano carte di detto seme. "Sottoforzare", invece, significa rispondere nel seme, ma con una carta inferiore a quella giocata dall'avversario, pur avendone in mano una superiore. Se si constata che un giocatore ha "rinunciato" o "sottoforzato", ciascuno riprende le proprie cinque carte e si rigiuoca. Ma chi ha rinunciato o sottoforzato, non segna i punti che eventualmente guadagnasse.
Vi sono infine regole generali che occorre tener presenti. L'alzata del mazzo vale, se si lasciano almeno due carte nel mazzo; quando un giocatore prende una levata che non gli appartiene e la conta a suo vantaggio, gli spettatori hanno il diritto di segnalare l'errore; chi guarda, sotto un pretesto qualsiasi, le carte delle levate fatte dall'avversario, è obbligato a finire la giocata a carte scoperte; ogni carta sfuggita a un giocatore e caduta sul tappeto non si ritiene giocata sino a quando non è stata coperta da quella dell'avversario; se l'avversario per errore o distrazione gettò via le carte proprie e le mescolò, l'avversario marca due punti a proprio vantaggio; le poste si rinnovano a ogni partita e tutti i casi non contemplati dalle regole sopra esposte devono essere decisi sfavorevolmente a chi commise l'errore.
Lanzichenecco o Zecchinetta. - Questo giuoco fu portato in Italia nel sec. XVI dai lanzichenecchi, che gli diedero il nome. Nessun giuoco più di questo si presta all'imbroglio; proibito dalle leggi di ogni paese civile, è però sopravvissuto a tutte le repressioni legali.
Per giocare al lanzichenecco, o alla zecchinetta, occorrono più mazzi di carte (da tre a sei) di 32 o di 52 carte ciascuno, poiché l'animazione al giuoco viene appunto dal maggior numero di mazzi. I mazzi presi per questo giuoco si mescolano più volte tra loro e ripetutamente si alzano; il numero dei partecipanti non ha limite. S'incomincia col decidere chi deve tenere il banco (il tagliatore). Colui che è stato designato a tenere il banco mescola le carte, le fa alzare dal vicino di sinistra e annunzia la somma che il banco intende di rischiare. Il giocatore che sta immediatamente a destra del banchiere ha facoltà di scommettere tutta la somma annunziata da chi tiene il banco, oppure di scommetterne una parte o di passare. Quand'egli dichiara: "tengo tutto", il giuoco è fatto; ma quando non copre che una parte della scommessa, il giuoco "non è fatto", se prima e successivamente gli altri giocatori non completano la copertura della somma preannunciata dal banchiere. Però se il secondo giocatore, o successivamente un altro puntatore, dichiarasse di "tener tutto", le scommesse parziali non hanno più valore. Coperta la scommessa s'inizia il giuoco.
Il giuoco si svolge così: il banchiere scopre una carta, che diviene la sua e la colloca scoperta alla propria sinistra. Ne scopre una seconda: questa è la carta dei puntatori e la pone scoperta alla sua destra. Scopre quindi una, due, tre carte, e così di seguito, sino a tanto che non ne scopra una eguale alla propria o a quella dei puntatori. Nel primo caso guadagna, perde nel secondo, e la somma del banchiere viene divisa tra i puntatori in proporzione alla puntata fatta.
Se nello scoprire le due prime carte (quella del banco e l'altra dei puntatori) il tenitore del banco si trova davanti a un "doppione" (due carte dello stesso valore), si dice ch'egli "ha fatto giuoco" e guadagna le poste o scommesse, senza tentar oltre la fortuna. Il banchiere può "tener banco" finché guadagna; ma può anche metterlo all'incanto sino a quando non lo perde. La perdita fa passare il banco a chi sta alla destra del banchiere perdente.
Chi acquista il banco all'incanto, esercita i diritti di chi glielo vendette; ma se perde, il banco passa al giocatore che sta a destra di chi vendette il banco. Chi non intende tenere il banco dice: "passo". Un banco può vendersi sino a tre volte successivamente.
Una variante di questo giuoco è la toppa o fiorentini, in cui il banchiere, scoperta la propria carta, ne scopre altre sulle quali i giocatori vanno puntando, a loro piacere, una somma che non può né eccedere né essere inferiore ai limiti stabiliti dal banchiere in principio di giuoco. Le carte per i giocatori soggiono essere tre, ma possono essere anche più. Fatte le puntate, il banchiere copre ogni carta dei giocatori con una somma equivalente a quella messa dai puntanti su ogni carta, quindi comincia a voltare a una a una tutte le carte del mazzo. Se scopre una carta eguale a una di quelle su cui stanno le puntate, vince e ritira il denaro; se invece la carta è eguale a quella del banco, perde e paga.
Lotteria o Mercante in fiera. - Questa partita si giuoca con due mazzi di carte da un numero illimitato di partecipanti, ciascuno dei quali depone nel piattello una quantità determinata di gettoni, il valore dei quali è stato precedentemente stabilito. La somma raccolta forma il così detto "fondo della lotteria". Tre giocatori vengono incaricati di regolare la partita. Uno prende cura della cassa; gli altri due si muniscono ciascuno di un mazzo di trentadue carte. Il dorso delle carte ha colore diverso per ciascun mazzo. Uno dei due pone sulla tavola da tre a cinque carte coperte, e il cassiere posa sopra ciascuna un numero diverso di gettoni, in modo da esaurire il fondo del piattello.
L'altro giocatore allora prende l'altro mazzo di carte e ne distribuisce una, o più, a ciascun giocatore, a seconda del numero, sino a esaurire il mazzo. Quegli che tiene il mazzo da cui furono tolte le carte poste sul tavolo, scopre a una a una le carte del proprio mazzo, annunziandole ad alta voce. Chi detiene la carta eguale a quella annunziata la consegna al banditore. Esaurito il mazzo, nelle mani dei giocatori restano le carte corrispondenti a quelle premiate. Queste si scoprono a una a una e il premio passa a chi ha in mano la corrispondente carta.
Invece di mettere il piattello al principio, si suole anche vendere all'incanto le carte del secondo mazzo; la somma così ricavata forma il fondo della lotteria e viene ripartita sulle cinque carte coperte.
L'uomo nero. - A questo giuoco partecipano sino a dieci e quindici giocatori. Da un mazzo di 40 o di 52 carte si tolgono i fanti di cuori, di quadri e di fiori. Vi si lascia quello di picche, che fa da "uomo nero" Chi dirige il giuoco distribuisce le carte a una a una a ciascun giocatore, sino a esaurimento del mazzo. Ogni giocatore, a partire da chi siede a destra del distributore, a turno scarta, mostrando ai compagni le carte scartate, le quali devono essere dello stesso valore (due assi, due 2, due 3, ecc.); quindi mescola le carte che gli sono rimaste e le presenta coperte al vicino di destra, il quale deve prenderne una. Questi, a sua volta, e se lo può, scarta e ripete quanto ha fatto chi lo ha preceduto. Così di seguito da destra a sinistra. Quello tra i giocatori che, dopo avere scartato tutte le carte rimane in fine del giuoco col fante di picche in mano, diventa "uomo nero" e deve subire la penitenza stabilita in precedenza, o pagare a ogni giocatore un gettone d'un determinato valore.
Macao (Baccarà all'italiana). - Questo giuoco ha analogia col ventuno, di cui è una variante. Si giuoca con un mazzo di 52 carte da un "banchiere" e un numero indeterminato di puntatori, ciascuno dei quali riceve una carta. Però si può giocare anche con un mazzo di 40 carte, attribuendo valore alle figure.
Le figure e i dieci non contano. L'asso si valuta un punto, ma per vincere occorrono 9 punti o avvicinarsi il più possibile a tale punto di 9.
Quando il giocatore ha in mano punti bassi, come 3, 4, 5, può "chiedere carta"; se ha 6, 7, 8 è consigliabile di "restare". Ciò, peraltro, non è d'obbligo, poiché un giocatore può restare con un asso in mano, e chiedere carte anche con un 7 0 un 8 in mano. Se quegli che chiede "carta" fa più di 9, "muore", o, come si dice comunemente, "sballa", e chi sballa perde la posta giocata. Quando, invece, un giocatore fa 9 di prima mano (secco o d'emblée), vince e riceve dal banchiere tre volte la somma scommessa; quegli che fa 8 di mano, la riceve due volte; e una volta sola colui che di mano fa 7.
La scommessa, o posta, è ad libitum del giocatore, quando il banchiere nell'assumere la fortuna del giuoco non ha posto un limite al valore delle poste. In tutti i casi la posta rischiata deve essere annunziata prima di ricevere la carta. In taluni luoghi la puntata si annuncia dopo aver visto la carta ricevuta dal banco, e ciò non è giusto. Quando i punti del banco e quelli di uno o più giocatori si eguagliano. si elidono; ma se il banchiere dichiara 9 0 8, oppure 7 di mano, riceve tre volte, o due volte, o una volta la scommessa convenuta da tutti i giocatori che non hanno un punto superiore o eguale a quello scoperto dal banco.
Piattello o Pitocchetto. - Il piattello, detto anche "pitocchetto" è un giuoco d'azzardo, cui prendono parte quattro giocatori, con un mazzo di 40 carte. Le figure valgono dieci punti, le altre carte i punti in ciascuna di esse rappresentati. Nel mezzo della tavola si pone un piattino, in cui i partecipanti pongono la somma fissata come posta e le somme da pagarsi durante la partita.
Chi riceve per primo un re, nella distribuzione di carte fatta da uno qualsiasi dei giocatori, fa carte e dopo aver mischiato il mazzo e averlo fatto alzare dal vicino di sinistra, scarta la prima carta e poi ne dà una a ciascun giocatore, cominciando da quello che gli siede a destra. Compiuta questa prima distribuzione, mischia di nuovo quelle che restano nel mazzo, fa alzare dal compagno di sinistra, scarta la prima carta e distribuisce da destra a sinistra altre tre carte a ciascun giocatore. La distribuzione si ripete finché ciascun giocatore ha ricevuto nove carte. Le quattro che restano indistribuite si pongono sotto il piattino e formano la cosiddetta "fola".
Chi nel far carte sbaglia, paga doppia posta e passa il mazzo al giocatore di destra, il quale a sua volta paga l'onore del mazzo, mettendo una nuova somma, eguale alla posta, nel piattino.
Il giuoco consiste nel cercare di fare, con le nove carte ricevute, trentacinque o più punti dello stesso seme.
Ricevute le carte i giocatori le esaminano, e se qualcuno ha trentacinque punti o più, e lo dichiara, "fa piattello" e vince; ma se nessuno lo dichiara si mette all'asta la "fola". Il giocatore che siede alla destra del distributore dirà il "dovere", offrirà, cioè, una somma eguale alla posta per sentirsi aggiudicare la "fola". Il dovere è di obbligo. Gli altri giocatori o aumentano l'offerta del "dovere", oppure dichiarano di "passare". Quegli a cui rimane aggiudicata la "fola", la ritira, dopo avere scartato quattro delle carte già in sue mani e se fa 35 punti vince il piattello. Se nessuno fa 35, la posta rimane sul piatto e si ricomincia.
Quegli a cui la sorte diede in mano tre figure dello stesso seme, fa "terza reale" e ritira da ciascun giocatore una somma pari alla posta; ed egualmente riceve una quota pari alla posta chi fa "pitocchetto", il quale consiste nell'avere nove carte dello stesso seme senza alcuna figura.
L' "imboscata" consiste nel tacere, al principio della partita, che si ha più di trentacinque punti, per lasciare ai compagni libero l'acquisto della "fola", e quindi assicurarsi un piatto di maggior valore, qualora nessuno degli altri giocatori accusi un maggior numero di punti. Ma perché l'"imboscata" sia valida, è necessario che chi la tenta concorra alla gara della "fola".
Picchetto. - Giuoco di carte assai diffuso in Francia, e già noto a Rabelais, che lo chiama la ronfle; il Berni lo conosceva pure sotto il nome di ronfa. Si giuoca comunemente in due, con un mazzo di 32 carte, in cui gli assi valgono 11, le figure (re, dama, fante) 10 e le altre carte secondo il loro valore nominale. Chi fa le carte ne dà 12 all'avversario e 12 a sé stesso, due a due o tre a tre, e posa coperte sulla tavola le rimanenti 8 carte.
I punti del picchetto vengono calcolati: a) in base ai gruppi di carte che ciascun giocatore ha in mano (dichiarazioni), e che possono essere: "punti" (carte dello stesso seme); "sequenze" (carte dello stesso colore che si seguono come valore); "quattordici" (4 carte dello stesso valore facciale); "tre" (3 carte dello stesso valore facciale): tutte le combinazioni comportano altrettanti punti per chi vince il confronto; b) in base alle carte giocate dopo le dichiarazioni. Il giuoco si compone o di 4 partite (giuoco piccolo) da 100 punti ciascuna (la prima e l'ultima raddoppiata) con una "coda" di 100 punti per chi ha vinto il giuoco, che si aggiunge alla differenza tra i punti segnati dai due giocatori; o da 6 partite da 100 punti ciascuna (giuoco lungo). Si omettono qui le molte regole particolari che il picchetto comporta.
Poker. - Il poker è giuoco di provenienza americana, diffusosi ovunque con grande rapidità. Ogni giocatore ha in mano cinque carte, dalle quali possono risultare, inizialmente o dopo lo scarto, le seguenti combinazioni in ordine di valore:
una coppia: due carte di valore eguale;
due coppie: due volte due carte di valore eguale;
tris (brelan o three): tre carte dello stesso valore;
scala o sequenza: cinque carte, in ordine di valore;
colore (flush): cinque carte dello stesso seme;
full (full hand): un tris e una coppia;
poker o (four): quattro carte dello stesso valore;
scala o sequenza reale (royal flush): scala dello stesso seme.
Regole: Il numero dei giocatori è solitamente di quattro o cinque, raramente di sei o più. Si fa uso di un mazzo di 52 carte dal quale si tolgono i due, i tre, i quattro, i cinque, ecc., secondo questa regola: togliendo dal numero fisso 11 il numero dei giocatori si ottiene il numero che indica la carta minima che deve restare nel mazzo (es., per 4 giocatori: 11 − 4 = 7: si tolgono i 6, i 5, ecc., i 2). Il valore delle carte è così regolato in ordine decrescente: asso, re, dama, fante, 10, 9, ecc. I posti e la distribuzione vengono estratti a sorte. Si stabilisce la posta, come pure il massimo che si può raggiungere nella gara e che non può eccedere 64 volte l'unità scelta. Il distributore mischia le carte e fa alzare il mazzo dal vicino di sinistra. Prima che le carte siano distribuite, ciascuno mette dinnanzi a sé, verso il centro della tavola, una quota eguale all'unità scelta. Può anche astenersene; ma allora non può prender parte alla giocata. "Non metter quota" corrisponde a "passare parola", prima di aver veduto il proprio giuoco.
Messe le quote, il giocatore a sinistra del distributore può straddle, (raddoppiare), mettendo una quota doppia. Egli, allora, acquista il diritto di raccogliere le quote, se tutti i giocatori passano parola. Si può straddle sopra lo straddler, quadruplicando la propria quota; un altro giocatore può ancora straddle, mettendo otto quote, e così di seguito, fino al massimo fissato.
Messe le quote, colui che fa le carte ne dà a ogni giocatore complessivamente cinque, a una a una, per cinque giri da sinistra a destra. Distribuite le carte, il rimanente del mazzo vien posato sul tavolo, davanti al distributore. I giocatori guardano le loro carte e prendono la parola. Quando vi sono degli straddlers, i giocatori se vogliono "giocare" devono portare la loro quota al pari di quella dell'ultimo straddler, se no buttano le carte coperte in mezzo al tavolo. Se non v'è lo straddler i giocatori, a cominciare da quello alla sinistra del distributore, possono a loro scelta o "aprire" o "passare". Chi apre deve avere almeno una coppia di fanti (jacks) e punta una quota. Successivamente gli altri o giocano mettendo la stessa quota o raddoppiandola, o, non volendo tenere l'ultima quota, abbandonano la partita e gettano le loro carte coperte in mezzo al tavolo; ma l'ultima quota che hanno tenuta è perduta per essi, e spetta a quegli che vincerà.
I giocatori che sono rimasti d'accordo su una quota scartano allora un certo numero delle loro carte e il distributore le sostituisce. Le carte scartate debbono essere poste coperte in mezzo alla tavola, e nessuno può scoprirle. Quando i giocatori hanno sostituito le carte scartate, s'impegnano le gare a chi punta di più, ma senza eccedere 64 volte l'unità pattuita; e chi parla per primo è chi si trova a sinistra dello straddler, se c'è, o chi apre. In questo terzo periodo di gara i giocatori possono a turno o "passar parola", o "puntare", o "rilanciare", o "vedere" o non giocare. Chi non giuoca butta le carte coperte sul tavolo; chi "passa parola" attende che qualcun altro "punti" per poter "rilanciare", ossia aumentare la quota puntata precedentemente, o per "vedere". Se tutti "passano parola", le quote restano nel "piatto" e servono per la mano successiva. Coloro che , "vedono" la quota più alta puntata, mettono sul piatto la stessa quota, e di essi vince il piatto chi ha la combinazione maggiore. Se nessuno "vede", il giocatore che ha puntato la quota maggiore vince e ha diritto a non mostrare le carte.
Nel confronto delle combinazioni, tra due coppie vince la coppia più alta; se le due coppie sono di valore eguale, si calcola la terza carta; eventualmente, se risultasse ancora parità, la quarta e la quinta. Tra due giocatori che hanno due coppie ciascuno, vince chi ha la coppia più alta. Quando le due coppie alte sono eguali, vengono calcolate le seconde coppie, e se queste pure sono eguali si ricorre alla quinta carta. Di due "tris" vince quello formato dalle carte più alte. Di due "sequenze" la più forte è quella che contiene la più alta carta di serie. Tra due colori, il più forte è quello che racchiude la carta più alta. Se le prime carte sono eguali, si calcola la seconda, e così di seguito, se fosse necessario, fino alla quinta carta, e se non bastasse si passa al colore nell'ordine seguente ascendente: picche, fiori, quadri, cuori. I "full" si classificano secondo il valore dei "tris". I "poker" vengono classificati secondo il valore delle quattro carte. Le "scale reali" vengono pure calcolate secondo la prima carta più alta della serie dello stesso seme, con l'osservazione però che se ci sono in giuoco una scala reale massima e una minima, vince quest'ultima.
Il bluff: onsiste nel puntare quote alte perché nessuno venga a "vedere" e vincere così il piatto pur avendo un giuoco inferiore a quello degli altri.
Allorquando, dopo lo scarto, il distributore non trova nel mazzo carte sufficienti per fare una nuova distribuzione, esaurisce quelle, poi prende le carte gettate sul tavolo, le mischia di nuovo, le fa alzare e completa i giuochi con esse.
Primiera. - La primiera si giuoca in otto persone con un mazzo di quaranta carte comuni. Nella partita di primiera il 7 conta ventuno, il 6 diciotto, l'asso sedici, il 5 quindici, il 4 quattordici, il 3 tredici, il 2 dodici, ciascuna figura 10 punti.
Prima di cominciare il giuoco ciascun partecipante versa la quota stabilita come posta, e quindi si tira a chi farà le carte. Colui che avrà alzato la carta di minor valore sarà il designato dalla sorte, e dopo avere mischiato il mazzo e fatto levare, distribuirà quattro carte a ciascun giocatore a cominciare dalla destra.
Ciascuno esamina le carte ricevute, e se ne ha quattro di seme diverso accusa primiera e ritira le poste, se altri non fece primiera con un numero maggiore di punti. Il giocatore che avesse quattro carte dello stesso seme, farà "flussi", e vincerà il "cinquantacinque", e anche la primiera (il cinquantacinque è dato dalle tre carte superiori dello stesso seme, cioè il 7, il 6 e l'asso). Se nel primo giro nessuno fa primiera o "flussi", sempreché esista un tallone (carte non distribuite) si addiviene allo scarto e il distributore dà tante carte quante ne furono scartate. Quando due o più giocatori fanno primiera dello stesso valore si rinnova il giuoco.
La primiera si può giocare anche in numero inferiore a otto partecipanti; riesce però meno interessante.
Scopa e scopone. - Per la "scopa", giuoco caratteristico italiano, si adopera un mazzo di 40 carte tra due giocatori; più raramente fra tre o quattro. Quando si giuoca in quattro si fa ai compagni; e vanno insieme i due che hanno scoperto le carte più alte, contro gli altri due che le hanno scoperte più basse. Se i giocatori sono tre, o due, ciascuno giuoca per conto proprio. Se sono tre, o si toglie un 2 dal mazzo, o si scoprono al principio della partita cinque carte invece di quattro.
Stabiliti, se è il caso, i compagni, due giocatori di parte contraria alzano una carta, e fa il mazzo colui che ha scoperto la carta più bassa. Chi fa carte, mischia il mazzo e lo dà ad alzare al vicino di sinistra, e distribuisce tre carte a ciascun giocatore, disponendone quattro scoperte sul tavolo.
Il giuoco consiste nell'accompagnare le carte. Così, se in tavola vi fosse un 7, quegli che ha la mano può prenderlo, sempreché gli convenga, con altro 7. Ma perché è necessario fare anche un maggior numero di quadri (o denari) e di carte per guadagnare punti, quando capita il destro, si dà la preferenza alle carte che concorrono a formare uno dei quattro punti del mazzo, che sono: carte, quadri (o denari), "7 bello" (sette di quadri o denari) e "primiera". Peraltro, chi giuoca non può prendere, p. es., un 7 e un 3 per fare 10 con un re, quando vi è un re in tavola.
Le carte valgono i punti ch'esse rappresentano da uno (asso) al 7. Il tante conta 8, la donna 9 e il re 10. Però questi punti valgono solo per la presa e non per la partita.
La partita generalmente va agli 11, o ai 16 o ai 21 punti; e chi li raggiunge per primo guadagna. I punti si contano a fine d'ogni mano tenendo presente che più di venti carte, o più di cinque carte di quadri o denari, o il 7 bello, o la primiera valgono rispettivamente un punto.
La primiera migliore è formata dai quattro 7; ma non è facile farla, e perciò nella formazione della primiera si dà alle carte un valore particolare, e cioè: punti 21 per il 7; punti 18 per il 6; 16 per l'asso; 15 per il 5; 14 per il 4; 13 per il 3; 12 per il 2; 10 per ogni figura; vince il punto di primiera chi, sommando i punti rappresentati dalla carta più alta che ha per ogni colore, ha il totale più alto.
Quando le carte o i quadri o i punti per la primiera di ciascun giocatore si eguagliano, nessuno guadagna il punto da esse rappresentato.
Chi fa "scopa", cioè chi prendendo non lascia alcuna carta sulla tavola, segna un punto per ogni scopa fatta. Chi fa l'ultima levata prende tutte le carte che rimangono a fine di giro sulla tavola; ma non si segna scopa se questa si fa con le ultime due carte giocate.
Lo scopone non differisce dalla scopa se non nella distribuzione delle carte; se ne dànno nove invece di tre a ciascun giocatore e quattro si scoprono in tavola. Lo scopone si giuoca quasi sempre in quattro. Quando giocando in quattro si dànno a ogni giocatore dieci carte e non si mettono quindi le quattro carte scoperte in tavola, si ha il cosiddetto scopone scientifico".
Sette e mezzo. - Giuoco italiano assai popolare, che vien giuocato da un numero indefinito di persone, con un mazzo di 40 carte. Stabilito per sorte chi debba tenere il banco, viene distribuita una carta "coperta", a ogni giocatore, e il banchiere ne prende una per sé. Alle carte numerali viene attribuito il loro valore, alle figure il valore di 1/2. Ogni giocatore, ricevuta la carta "punta" su essa una posta, e a seconda del valore della carta, chiede carte al banchiere oppure si astiene, scopo del giuoco essendo quello di arrivare il più vicino possibile a punti 71/2. Chi, ricevendo carte, va oltre questo numero, "sballa" e perde la propria posta. Chi fa 71/2 deve denunciarlo, e scoprire le proprie carte. Quando tutti hanno fatto il loro giuoco, il banchiere scopre la propria carta e si comporta come un qualsiasi giocatore, ossia prende carte oppure si astiene. A seconda del giuoco che ha il banchiere, questi paga la posta ai vincenti o la riceve dai perdenti: a parità di giuoco vince il banchiere.
Il far 71/2 con due sole carte si chiama far "sette e mezzo reale" e implica doppio pagamento e la cessione del banco da parte di chi lo deteneva.
A una figura, la donna di cuori o il re di denari, può essere attribuito qualsiasi valore da 1 a 7, oppure anche quello di 1/2: tale figura vien chiamata "la matta".
Tarocchi. - Trattando della storia delle carte, si è accennato alla composizione dei mazzi di tarocchi. Tranne lievi varianti, i tarocchi si giuocano con le stesse regole in tutta Italia;. ma il "codice" che prevale è quello piemontese, il quale assegna a ciascuna carta un valore praticolare. Così nelle sequenze di denari e di coppe la carta minore prende la maggiore escluse le figure; nelle sequenze di bastoni e di spade, invece, la carta maggiore prende la minore dello stesso pallio; le figure nell'un caso e nell'altro prendono le altre carte, quindi il re è sempre la carta maggiore. I trionfi o tarocchi, che dànno il nome al giuoco, sono 22, e il maggiore prende il minore (conforme il numero romano segnato in ciascun trionfo). Alla regola, però, suole fare eccezione l'Angelo (XX) che prende il Mondo (XXI).
Conosciuto il valore delle carte, occorre tener presente il loro apprezzamento nel conteggio dei punti. Ogni re vale 5 punti; ogni dama 4; ogni cavallo 3; ogni fante 2. L'Angelo e il Bagatto contano ciascuno 5 punti, il Folle 4. Se si giuoca al "Trentuno" o al "Sedici", il Folle vale un punto solo e può essere preso dal Bagatto.
Ecco le regole principali del cosiddetto "codice piemontese":
I. Prima di giocare a qualsiasi giuoco, la sorte decide chi debba tenere il mazzo. A questo scopo uno dei giocatori mischia le carte, e sarà primo a fare il mazzo quegli a cui sarà toccato il primo trionfo o quell'altra carta che d'accordo avranno indicata i giocatori.
2. Prima di dare le carte chi fa il mazzo le dà ad alzare a chi gli siede a sinistra. Se questi ricusa di alzare le presenterà all'altro giocatore di sinistra, e così per il terzo e per il quarto; se anche il quarto rinuncia, chi fa mazzo distribuisce le carte come si trovano.
3. Se nel mischiare si scopre una carta, chi fa il mazzo chiede se deve ricominciare, e in caso affermativo mischierà di nuovo le carte e darà nuovamente a tagliare il mazzo, purché il giuoco non sia ancora stato veduto da alcuno.
4. Chi fa le carte deve annunciare quante ne darà volta a volta nella distribuzione. L'avvertimento deve precedere l'alzata del mazzo, e se durante la distribuzione egli volesse cambiar modo di dare carte, deve chiederne permesso agli altri giocatori, altrimenti pagherà partita semplice.
5. Se nel distribuire le carte il distributore sbaglia (ne dà, p. es., una in più o in meno) paga la partita, e la paga il giocatore che alzando il mazzo guarda la carta che rimane sotto.
6. Prima di dare le carte chi le dà deve domandare ai compagni se si giuoca la "rola", il "marcio" e quanti punti occorrono per essere di "smarcio; e se avendo o il Folle o lo Scarto, oppure lo Scarto e il Folle, si perde la "partita rola" secondo si voglia giocare a questo o a quell'altro giuoco. Tutto questo deve concludersi prima di dare le carte, e così stabilire pure la posta di ogni partita semplice, qualunque sia il giuoco da farsi.
7. Se chi fa carte si accorge di aver dato giuoco falso, deve darne avviso prima di scartare, onde non perdere la mano.
8. Chi riceve il mazzo per alzarlo può rinunciare all'alzata, o farla fare ad altro giocatore.
9. Distribuite le carte, è vietato parlare, vedere il giuoco altrui, o far segni di sorta, specie quando si giuoca in più persone. Chi trasgredisce paga una penale da stabilirsi prima d'incominciare la partita.
10. Se per errore o distrazione un giocatore fa carte quando non gli spettano, deve arrestarsi nella distribuzione appena se ne accorga o gli venga rilevato l'errore da altri, e raccolte le carte, passerà il mazzo a chi spetta. Ma chi fa tale errore per malizia o per abitudine può essere punito con la penale stabilita per simili errori. Se però lo sbaglio venisse rilevato dopo lo scarto, le carte saranno ben date, ma chi commise l'errore pagherà la partita semplice a tutti i giocatori e il giro seguirà il suo turno come se non vi fosse stato sbaglio.
11. In questo giuoco la parola vale tutto; perciò, se uno dichiara di "andare a monte", bisogna adattarsi al danno che ne può conseguire.
12. Chi giuoca una carta quando non gli spetta, deve ritirarla subito se si giuoca in due persone; se si giuoca in più, chi ha commesso l'errore deve rassegnarsi e pagare ciò che l'uso o l'accordo avranno stabilito. Occorre ponderare bene le carte che si vogliono giocare, poiché giocata una carta non si ritira più.
13. Il giocatore ha il diritto di contare i punti proprî, ma non quelli altrui, perciò occorre rammentare sempre le carte non ancora giocate; da ciò dipende l'esito del giuoco.
14. Chi accusa di avere scartato e poi si pente e volesse cambiare, non può farlo, anche se l'errore fosse evidente. Non si possono scartare gli "onori" cioè: il Re, l'Angelo, il Folle, e il Bagatto, salvo il caso in cui il Bagatto sia solo, senza il Folle. Il Folle si può scartare nel solo caso in cui si è certi di fare la "rola". In taluni giuochi, però, come "a permesso", il Folle può cambiarsi con altra carta.
15. Chi per inavvertenza o per malizia "rinnega", cioè non risponde al seme giocato, dovrà essere punito con il pagamento della partita semplice ai compagni, a meno che le carte siano ancora in tavola e non ritirate e coperte. In tal caso chi ha giocato primo lascia la propria carta, mentre chi ha sbagliato cambia quella giocata per errore. Gli altri giocatori pure acquistano il diritto di cambiare la carta giocata con altra della stessa sequenza.
16. Per ultimo è necessario seguire esattamente il computo dei punti proprî e di quelli altrui.
Con i tarocchi si giocano una ventina di partite diverse. Esse sono: l'"Undici e mezzo"; il "Quindici"; il "Sedici"; il "Trentuno al più"; il "Trentuno al meno"; "In tre a venticinque"; "In quattro", ovvero "In partita"; "Al sessantatré"; "A chiamare il re"; "Al Permesso semplice, in tre, in quattro o in cinque"; "Al Permesso castrato, in tre, in quattro o in cinque", "Al Permesso castrato con Bagatto dichiarato ultimo"; "Al Dottore"; "Al Mittigati in due col morto"; "Al Mittigati in due con lo scarto compito"; "Al Mittigati in tre"; "Al Consiglio con l'intero mazzo di tarocchi"; "Al Consiglio castrato". Poiché la maggior parte di queste partite sono cadute in disuso, ecco le norme di quelle che sono sopravvissute, e cioè: "Partita in quattro" e "Venticinque in tre".
I Tarocchi in quattro. - Il "giuoco fallo" consumato fa perdere la distribuzione, cioè la mano.
Se tale fallo succede nell'ultimo scarto, chi lo ha commesso perde la partita semplice se non eccede in vincita trentasei punti. Se chi ha errato avesse trentasei punti o meno, allora la partita non sarebbe né vinta, né perduta, poiché, perdendosi 36 punti col "giuoco fallo" consumato, rimane "la pace" (la parità). Però deve pagare "l'onoranza" di dieci punti e chi gli succede eseguisce lo "scarto". Si paga la partita quando il rifiuto (non rispondere al seme giocato) è fatto con malizia. Lo scarto dei tarocchi, quando non ve ne siano altri, è permesso; ma quello degli "onori" è vietato in modo assoluto. Ogni onore vale cinque punti.
Tarocchi in tre a venticinque. - Il "giuoco fallo", consumato nella prima o nella seconda distribuzione, fa perdere la "mano" e obbliga a pagare l'onoranza di cinque punti a ciascuno degli avversarî. Se in terza mano, cioè ultimata la distribuzione, chi fece giuoco fallo perderà la partita, se il colpevole non avrà oltrepassato i ventisei punti; altrimenti gli verranno riconosciuti i punti superiori ai ventisei, ma pagherà l'onoranza semplice al giocatore che gli sta a destra, il quale farà di nuovo la distribuzione dei tarocchi, pagando l'onoranza doppia (dieci punti) al terzo giocatore, che dall'errore del giuoco fallo ha perduto il vantaggio del secondo scarto. Quando uno dei giocatori sarà giunto a quel termine di punti per i quali non può più perdere la partita, ch'è quanto dire che ha più di ventisei punti nell'ultima distribuzione, sarà obbligato a giocare "da fuori". Ciò significa che le carte sue sono considerate "firme", e quindi egli non può più trarne partito sulle inferiori, e perciò le darà a quello tra i giocatori che, imparzialmente, ne avrà bisogno. Contravvenendo a questa regola, pagherà l'onoranza di cinque punti a ciascuno degli avversarî. Anche ilrifiuto, detto in gergo "rinnegamento", di corrispondere con carta del seme giocato, porta con sé la penale dell'onoranza di cinque punti a ciascun avversario, restituendo la carta ingiustamente presa, ma se risultasse che ciò fu fatto maliziosamente, allora dovrà pagare il convenuto, poiché è principio fondamentale che chi rifiuta paga. Chi scartasse uno degli onori pagherebbe la partita; tali onori sono il Re, l'Angelo, il Bagatto e il Folle, detto anche Matto.
Nel giuoco di tarocchi alla svizzera vigono le stesse norme, ma esso si disputa in tre persone, che ricevono ciascuna 25 carte. Chi fa mazzo può prendere le tre carte rimanenti e sostituirle con altrettante delle proprie, e ciò nell'intento di migliorare il proprio giuoco. Chi per primo raggiunge i punti stabiliti, guadagna la posta pattuita. Il valore delle carte, però, è alquanto diverso. Il Mondo, il Re e il Saltimbanco valgono 5 punti; la regina 4 punti; i cavalieri (cavallo) e il Matto 3 punti ciascuno. Le carte di trionfo sono 21, cioè: Saltimbanco I; Papessa II; Imperatore III; Imperatrice IV; Papa V; Innamorato VI; Carro VII; Giustizia VIII; Eremita IX; Fortuna X; Forza XI; Appiccato XII; Morte XIII; Temperanza XIV; Diavolo XV; Casa di Dio XVI; Stella XVII; Luna XVIII; Sole XIX; Giudizio XX, Mondo XXI.
Terziglio (tersilio) o Calabresella. - Il terziglio è il tressette giocato in tre con un mazzo di 40 carte; fra i giuochi italiani è uno dei più interessanti. Il giuoco s'inizia col designare a sorte chi deve fare per primo le carte. Il designato mischia il mazzo, lo fa alzare dal vicino di sinistra, e distribuisce dodici carte a ciascun giocatore, quattro alla volta. Le quattro carte che rimangono son poste da parte e formano il cosiddetto "monte". Nessuno ha il diritto di vederle. Dei tre giocatori uno va da solo e gli altri due sono compagni. Il giocatore di mano (a destra del distributore), se crede opportuno, "chiama". Se gli altri lo permettono, ossia se nessuno vuole "andare da solo", egli "chiama" un tre e si prende il monte mostrandolo. Ma se ritenesse di non avere "buon giuoco" allora dice: "passo" e tocca al suo vicino di destra fare lo stesso, e così via. Se tutti e tre passano si rifanno le carte.
Chi, non essendo di mano, vuole "andare da solo" deve dichiararlo prima che il giocatore di mano "chiami" il tre. Ma chi è di mano, se vuole "andare da solo", ha la precedenza sugli altri. Chi "va da solo" non può chiamare il tre e si prende il monte senza mostrarlo.
Chi ha chiesto il tre deve restituire un'altra carta, scoperta, a chi gliel'ha data; ma se il tre si trova nel monte, non ha il diritto di chiederne altri. Chi prende il monte lo sostituisce con altre quattro carte coperte che spettano a chi fa l'ultima levata. Il giuoco si svolge come per il tressette e i punti si contano nello stesso modo.
Quando tra la carta domandata e quelle del monte se ne trovano "tre buone", si può considerare quasi sicura la vincita della partita, facendo i sei punti d'obbligo.
Se chi giuoca da solo fa sei punti, gli altri due giocatori gli pagano la posta pattuita; in caso diverso egli paga la posta a ciascuno dei due avversarî. Ma se chi giuoca da solo fa tutti gli undici punti del mazzo, cioè "dà cappotto", i perdenti gli pagano ciascuno doppia posta; se il cappotto" lo subisce chi giuoca da solo, questi paga doppia posta a ciascuno dei due giocatori avversarî.
Se chi ha richiesto la carta dimentica di contraccambiarla, paga la posta come se avesse perduto la partita.
Chi "va da solo" ossia non chiama il tre, se vince esige doppia posta dai perdenti, anche se non ha dato loro cappotto, ed egualmente paga doppio a ciascuno dei due avversarî se, invece di vincerla, perdesse la partita.
Tressette. - Il tressette è giuoco italiano, d'origine napoletana, e le regole per ben giuocarlo sono state, sino dai tempi antichi, trattate in prosa e in versi. Si giuoca con un mazzo di carte di tipo comune (cuori, quadri, picche e fiori, oppure spade, danari, coppe e bastoni) in numero di 40, che vanno per ogni seme dall'asso al re (una o dieci). La partita si svolge tra due, tre o quattro giocatori. Quando sono due, ciascuno fa da sé, allorché sono tre, uno giuoca con la "guercia"; ma quando sono in quattro, fanno ai compagni, accoppiati, alternandosi dopo ogni partita. Quando i giocatori sono più di quattro, quelli che rimangono fuori sostituiscono partita per partita i perdenti.
Nel giuoco del tressette le carte hanno il seguente valore, dalla più alta alla più bassa: 3, 2, asso, re, donna, fante, 7, 6, 5 e 4.
I punti di "accusa" sono: 3 punti per la "napoletana" composta del 3, del 2 e dell'asso dello stesso seme; 3 punti per 3 assi o 3 due o 3 tre; 4 punti per quattro assi o quattro due o quattro tre.
Prima d'incominciare la partita i partecipanti fissano i punti da raggiungere per vincerla. Generalmente si fa ai ventuno, ai trentuno o ai quarantuno.
I punti di "accusa" si annunziano dopo che il giocatore di mano ha posato la sua carta della prima levata.
La sorte designa chi deve fare per primo le carte. Il designato le mischia, le fa alzare al compagno di sinistra e ne distribuisce cinque alla volta a ogni giocatore, cominciando da quello che gli siede a destra.
Accusando "napoletana" non si scoprono le carte ma se ne indica il seme; nelle altre accuse s'indica il 3, il 2 0 l'asso che manca. Se chi ha quattro assi, quattro 2 0 quattro 3, ne accusa tre solamente, perde il punto non accusato. Se invece per errore vengono accusate tre carte dello stesso valore, avendone in mano due sole, chi sbaglia perde tutti i punti fatti col mazzo durante le dieci levate della partita.
Le carte che hanno valore nel computo dei punti sono: asso, 3, 2, re, donna e fante. L'asso vale 1 punto e delle altre ogni gruppo di tre vale 1 punto. Chi fa l'ultima levata guadagna 1 punto.
Le partite si vincono oltre che col punteggio, in altri modi: con lo "stramazzo", con lo "stramazzone", con la "collada" o "cappotto". Lo stramazzo si ha quando nelle dieci levate, di cui si compone una partita, un giocatore o una coppia di giocatori non fa nemmeno un punto, anche se prende l'ultima mano. Chi vince lo stramazzo incassa tre volte la posta.
Lo stramazzone si ha quando uno dei giocatori, senza l'aiuto del compagno, fa mazzo. Chi fa stramazzone vince sei volte la posta. Peraltro, nell'intento di evitare dispute, prima di cominciare il giuoco si stabilisce il valore dello stramazzo e di tutte le altre combinazioni che possono far vincere la partita.
La "collada" o "cappotto" si verifica quando due compagni in partita a quattro fanno tutte le levate o mani: essi ricevono quattro volte la posta. Si ha il "colladone" o "cappottone" quando uno dei quattro giocatori ha fatto da solo tutte le mani. In tal caso esso guadagna otto volte la posta.
Quando il giocatore di mano scopre una "napoletana decima", e cioè possiede dieci carte dello stesso seme, fa "collatondrione" ed esige sedici volte la posta. Ma gli undici punti del mazzo sono accreditati ai due giocatori che non sono compagni di chi "ebbe l'onore". Questo consiste nelle "accuse" e nelle combinazioni sopra indicate.
È lecito domandar conto dell'accusa sinché la prima mano non è stata coperta, e prima che venga giocata la prima carta della seconda mano.
La partita è vinta dal giocatore, o dalla coppia di giocatori, che per primi "si dichiarano fuori", per avere raggiunto il numero dei punti stabilito per la vincita. Però, se tale dichiarazione fosse errata, allora gli undici punti del mazzo vanno a vantaggio degli avversarî.
Una volta coperte, le carte prese durante il giuoco non si possono più vedere e nemmeno è lecito vedere le carte del compagno e degli avversarî, giocate o non giocate. Si possono vedere, dopo raccolte e coperte, le carte della prima levata, purché non sia cominciata la seconda.
Se nel giocare uno getta due carte invece di una, ritira quella di sopra lasciando sulla tavola quella di sotto; chi marca punti non fatti perde la partita; e chi trattiene carte che non gli spettano perde i punti guadagnati nella partita in corso. Solo durante la prima mano si può chiedere a chi appartengono le carte giocate, non essendo permesso parlare, far cenni, o chiedere o ricevere suggerimenti da chicchessia durante il giuoco.
Quando i giocatori hanno ricevuto ed esaminato le carte, s'inizia il giuoco: chi è di mano giuoca una carta.
Quando si ha "napoletana" s'incomincia a giocarla dall'asso onde non resti ingannato il compagno; ma nel giocarla si fa l'accusa.
Quando si ha un 3 e un 2 insieme con una o due carte dello stesso seme, ma di minor valore, senza la probabilità di guadagnare ad altri l'asso, s'incomincia col giocare il 2, onde le carte grosse cadano sulle prime due carte giocate. In tal caso il compagno resta prevenuto, e se ha in mano l'asso in terza o in quarta e ha buon giuoco per continuare, getta prima le carte basse e per ultimo l'asso. In caso contrario sul 2 o sul 3 del compagno getta l'asso. Qualora non abbia l'asso, ne dà avviso al compagno, rispondendo con la carta più alta in suo possesso, essendo di rigore rispondere con carte del seme scoperto da chi ha gettato la prima carta della mano. Chi sbaglia o trasgredisce a questa regola, perde i punti fatti durante la partita. Avere una carta in terza, in quarta, in quinta, ecc., significa avere altrettante carte dello stesso seme.
Quando si ha un 3 in quinta con l'asso, o il 3 in sesta o settima col re, si comincia col giocare il 3 onde invitare il compagno a giocare il 2, se lo ha. Ma quando non si hanno carte di "napoletana" non s'invita.
L'"invito" è di varie gradazioni. Il massimo è dato dal 2, perché lascia supporre che vi sia il tre, o almeno l'asso con gran seguito. Il compagno invitato col 2 deve prendere col 3, se l'ha; se possiede buon seguito, fa tutte le levate sicure e quindi torna al seme d'invito del compagno.
Giocare un 4, un 5, un 6, un 7 è "invito" al compagno a giocare il 3 0 il 2, oppure l'asso. Si risponde all'invito "vincendo la mano" con la più importante delle proprie carte e rigiocandone altra minore dello stesso seme.
"Contrinvito" si ha quando un giocatore s'impadronisce della prima carta giocata, con una carta diversa da quella che il compagno sembrava desiderasse nel fare l'invito; e quando si mette una carta bassa del seme in giuoco si ammonisce il compagno di avere in mano un buon seguito dello stesso seme e probabilmente più grande di quello che si suppone in mano al compagno stesso.
La "risposta" consiste nel giocare la propria carta in relazione a quella giocata da chi ha la mano; si risponde per "superare", per "prendere", o per "scartare". Lo "scarto" serve di ammonimento al compagno sulle carte dello stesso seme possedute da chi scarta, e perciò non si fa mai l'invito col 2, a meno che si abbia in quarta o in quinta.
Si risponde al compagno con una carta piccola del seme da lui giocato, per avvertirlo che s'ha in mano buona carta dello stesso seme; si ammonisce dell'opposto, rispondendo con una figura.
Rispondere al compagno con una carta bassa di seme diverso da quello giocato, è avviso che non si hanno buone carte in mano; ma se si scarta con figure di seme diverso, si avverte di possedere buon giuoco nel seme della figura scartata.
Se il compagno accusa tre 3, è consigliabile l'invito col 2 di uno dei tre semi accusati. Spetta al compagno giudicare se deve prenderlo col 3 o conservare quest'ultimo per quando scenderà l'asso.
Qualunque sia la carta giocata da chi ha accusato tre 3, essa verrà considerata dal compagno come un invito ad assecondare il giuoco in detto seme. Così, se chi ha accusato tre 3 gioca un re, si dovrà ritenere che il giocatore ha la sicurezza di fare l'asso; oppure, ch'egli possiede un buon seguito nel seme del re giocato. Ciò deve ritenersi in via assoluta, essendo errore grande giocare in principio una figura di un seme del quale non si abbia in mano buon seguito.
Quando non sia possibile fare "stramazzo" o "cappotto" con le carte che si hanno in mano, o quando non si può fare un buon invito, perché si dispone solo di un re o di una donna in quarta di un determinato seme, si giuoca la carta bassa di detto seme, nell'intento di far cadere una carta di valore posseduta dagli avversarî e di porli nella condizione o di perdere l'asso o di sacrificare il 2 0 il 3 per un giuoco nullo. Questa maniera di giuocare si chiama "fare un falso invito".
Quando invece si ha un asso in terza, è bene giocarlo, sempre su invito del compagno, perché se anche l'asso venisse sorpreso da un avversario, si sarà sempre assicurato al compagno la serie che si era prefisso di guadagnare. È necessario ricordare bene tutte le accuse, gl'inviti e le carte passate. Il tressette ha talune varianti nel tressette a non pigliare e nel tressette con la guercia.
La prima variante si giuoca in due, in quattro e sino in dieci persone. Quando i giocatori sono sei si sopprimono i 4 e si distribuiscono sei carte a ogni partecipante. Se invece i giocatori sono sette, si sopprimono i 4 e un 5, scelto d'accordo.
Nella partita riesce vittorioso il meno abile o il più sfortunato, prendendo il meno possibile per fare il minor numero possibile di punti.
Quando, peraltro, i giocatori sono otto, è facile che gli scarti o rifiuti siano molti, e cioè che i giocatori non possano rispondere nel seme giocato, com'è prescritto. In tal caso è necessario sbarazzarsi innanzi tutto degli assi, e poi dei 3 e dei 2, e così di seguito di tutte le carte che prendono o contano punti.
Tutti coloro che hanno tre o quattro punti pagano la posta pattuita. Se, però, un giocatore prende tutte le levate, gli altri giocatori pagano la posta convenuta, metà della quale spetta a chi ha fatto tutte le mani e l'altra metà va al piattello, e costituisce il premio da aggiungersi alle quote da pagarsi nella partita successiva.
Paga di nuovo la posta il giocatore che per errore o volontariamente fa uno scarto, mentre poteva rispondere al seme giocato.
Il tressette con la "guercia", o col "morto" è eguale al tressette giocato in quattro, sebbene i giocatori siano tre solamente. Chi ha la "guercia" giuoca da solo. Egli distribuisce per primo le carte e ne dà cinque al vicino di destra, cinque le mette scoperte al posto ove dovrebbe trovarsi il suo compagno, e cinque le dà al giocatore di sinistra. Per ultimo ne prende cinque per sé, prima di distribuire, nello stesso modo a cinque per volta, le rimanenti venti carte.
Giuoca per primo chi sta a destra del distributore, e chi ha la "guercia" giuoca con le carte scoperte. Quindi scopre anche le carte proprie, e il giocatore di sinistra, a sua volta, fa il proprio giuoco.
Questa maniera di giocare il tressette è difficile, perché chi ha la "guercia" giuoca allo scoperto contro le carte coperte dei due avversarî.
Un'altra varietà del tressette in quattro è il mediatore o quadrigliati: in esso si dànno nove carte a ciascuno dei giocatori; chi è di mano, chiama un tre e prende il tallone, che cambia con quattro delle proprie carte. Il tre chiamato non viene dato, ma il giocatore che lo possiede diventa compagno di chi lo ha chiesto; non deve però dichiararlo, ma giocare in modo di favorire il compagno. Se il tre chiamato si trovasse nel tallone, allora il giocatore di mano sarebbe solo contro gli altri tre.
Sul giuoco del tressette esiste un celebre trattato in latino maccheronico: De regulis ludendi ac solvendi in mediatore et tresseptem, attribuito a un prete, vissuto sullo scorcio del sec. XVIII, a nome Chitarrella. Di questo originale trattato, fatto di aforismi, come, per es.:
Quarto rege saginato, cum astutia tu buxato.
Ubi buxatur, ibi tornatur,
furono fatte nel Settecento parecchie edizioni, oggi piuttosto rare.
Ventuno. - Il ventuno si giuoca in tre maniere diverse, con un mazzo di 21 carte, tra un numero indeterminato di giocatori. Nel ventuno ordinario ciascuno mette la propria posta e chi ha assunto la carica di banchiere distribuisce a ciascun partecipante due carte coperte e due ne prende per sé. Ciascun giocatore esamina le carte ricevute e ne addiziona i punti, ricordando che le figure valgono 10 punti, l'asso i punto, oppure 11, e le altre carte i punti che ciascuna di esse rappresenta. Coloro che hanno fatto ventun punto con le due carte, le scoprono immediatamente, e ricevono dal banchiere il doppio della posta; se il ventuno d'acchito è fatto dal banchiere egli ritira da ciascun giocatore il doppio della posta giocata, eccettuati coloro che avessero pure fatto il ventuno di acchito, i quali in tal caso né pagano né riscuotono somma alcuna.
Se il banchiere non fa ventuno d'acchito, dice: "do carte". I giocatori allora sono in facoltà di chiedere carte a loro piacimento al fine di raggiungere o di avvicinarsi il più possibile a ventuno. Perciò chi desidera carte ne chiede. Le carte richieste vengono date scoperte, sino a tanto che i punti di esse giungano a ventun punti o li sorpassino; quando i punti delle carte scoperte, sommati a quelli delle carte coperte in mano del giocatore richiedente, superano i ventuno, chi li fa deve annunziare di aver perduto, e paga la posta al banchiere. Questi fa il suo giuoco dopo aver servito di carte tutti i giocatori. Non avendo fatto ventuno in due carte, anch'egli tenta di avvicinarsi al ventuno o di fare ventuno con carte supplementari. Ma se nel prender carte anche il banchiere "sballa", paga la posta a chi non ha "sballato" prima di lui; altrimenti ritira la posta di tutti i giocatori che scoprono un punto inferiore a quello rappresentato dalle sue carte.
Il ventuno con 10 al banco è una variante al precedente. Il banchiere dà una sola carta, invece di due, ritenendosi che ciascun giocatore abbia già un 10 in mano. Anche il ventuno alla posta è una variante del ventuno. Il banco distribuisce due carte scoperte a ogni giocatore e ognuno conserva il giuoco che la fortuna gli ha dato; quindi, non si dànno carte supplementari. Perciò la vittoria o la perdita vien data dal paragone o dalla differenza del giuoco toccato al banchiere con quello sortito a ciascun partecipante alla partita.
Il trentuno al banco si giuoca come il ventuno, ma con queste varianti: chi tiene banco distribuisce tre, invece di due carte, a ciascun giocatore. Il "ventuno d'acchito" è sostituito dal "trentuno d'acchito". Chi fa "trentuno" riceve dal banco tre volte la posta, o la paga quando trentuno vien fatto dal banchiere. In questo giuoco chi tiene banco dà una sola carta supplementare a chi la richiede.
Whist. - Questo giuoco di carte d'origine inglese, tutto di calcolo e d'osservazione, risale alla fine del sec. XV. È un passatempo aristocratico, che vien giocato nel più rigoroso silenzio, assai complicato per le infinite combinazioni a cui dà luogo; si esplica con una rapidità vertiginosa, che rende quasi impossibile esaminare e contare le carte senza fare errori, se non si è acquistata una grande pratica con l'esercizio. In Inghilterra questo giuoco ebbe varî nomi, e il primo a descriverlo fu E. Hoyle, il quale nel 1743 fece stampare un piccolo trattato (Short Treatise on the game of whist), tradotto in francese nel 1766 e rimodernato nel 1806. Il whist ha poi termini tecnici particolari, difficili a tradursi nella nostra lingua; è poco giocato in Italia.
Solitarî. - I solitarî sono giuochi in cui una sola persona dispone le carte di un mazzo, e la cui riuscita dipende per lo più esclusivamente dal caso. Si praticano dalle persone superstiziose per trarne auspici sull'esito d'imprese, sulla realizzazione di desiderî, ecc. Ve ne sono di svariatissimi, fondati sull'eliminazione o sulla sovrapposizione di carte di egual valore e di seme diverso, oppure sulla progressiva composizione e ricostituzione delle varie sequenze.
Per i giuochi di prestigio con le carte, v. illusionismo.
Giuochi matematici. - Si può affermare che ognuno dei giuochi più noti e comuni dia luogo, sotto qualche aspetto, a problemi di natura matematica. Così la teoria del bigliardo rientra nettamente nel campo della meccanica razionale; e, anche a prescindere dai problemi e dai risultati del calcolo delle probabilità che si riconnettono ai giuochi d'azzardo, gli scacchi, la dama, il domino, gli stessi giuochi di carte forniscono argomento a discussioni e a deduzioni di tipo combinatorio o topologico che spesso presentano difficoltà non indifferenti. Matematici, anche insigni, non disdegnarono in varî tempi di affrontare queste difficoltà.
Ma il nome di giuochi matematici, piuttosto che a codesti sviluppi teorici, i quali dal giuoco traggono soltanto lo spunto, si suole attribuire a problemi, la cui natura matematica è mascherata sotto forma di indovinelli o domande capziose, a enunciati di fatti aritmetici inaspettati e sorprendenti, a pseudo-dimostrazioni, che, sotto parvenza di un perfetto rigore deduttivo, conducono a conclusioni manifestamente assurde, ecc.
Molti di questi giuochi risalgono all'antichità e taluni sono di origine evidentemente orientale. Se ne possiedono vaste raccolte, le quali peraltro, in forza della natura estremamente varia e differenziata della materia, hanno piuttosto carattere di elenchi, più o meno sistematici, che non di vere e proprie classificazioni. Ci limiteremo a indicare alcuni esempî fra i più semplici, rimandando il lettore alle opere citate nella bibliografia.
Cominceremo con l'osservare che talvolta certe domande, le quali sembrano semplici giuochi, si ricollegano a vere e proprie questioni matematiche, spesso anche elevate. Ad es., consideriamo le tre questioni seguenti: 1. Dati due triangoli di carta (ABC, ABC′) di egual base ed eguale altezza (fig.1), ritagliare uno di essi in parti poligonali, che, disposte convenientemente, ricoprano esattamente l'altro. 2. Dati due rettangoli di carta ABCD, AB′C′D′, aventi l'angolo in A comune, e tali che le due rette B′D, BD′ siano parallele (fig. 2), ritagliare l'uno in parti poligonali, che, riunite convenientemente, ricoprano esattamente l'altro. 3. Dato l'esagono concavo ABCDEF (gnomone), formato da due quadrati adiacenti (figura 3), tagliarlo in tre pezzi, che riuniti convenientemente formino un quadrato. Questi problemi, la cui soluzione è rispettivamente indicata nelle figg. 1, 2, 3, e che al profano possono sembrare giuochi, servono di base a un'importante teoria geometrica, quella dell'equivalenza (per somma) dei poligoni (v. geometria).
Ed ecco un notevole esempio numerico. Tutti sanno che 32 + 42 = 52, ed è anche facile verificare, che, essendo a, b numeri quali si vogliano, si ha l'identità (a2 − b2)2 + (2 ab)2 = (a2 + b2)2. Prendendo a e b interi, si vede che l'equazione x2 + y2 = z2 ammette infinite soluzioni in numeri interi (numeri pitagorici). Volendo generalizzare, il problema risolvendo in numeri interi l'equazione x3 + y3 = z3, ci s'imbatte in una questione matematica elevatissima, cui risponde il cosiddetto "ultimo teorema di Fermat", che si enuncia così: l'equazione xp + yp = zp non si può risolvere in numeri interi, quando l'intero p è maggiore di 2.
Questo teorema, di cui pare che il Fermat possedesse la dimostrazione, è stato stabilito rigorosamente soltanto per valori speciali di p (v. aritmetica: Aritmetica superiore, n. 14 c); ma il caso generale ha resistito fino ad ora a tutti i tentativi, sebbene si ritenga che sia vero. Il dott. Paolo Wolfskehl (morto a Darmstadt nel 1907) lasciò un premio di 100.000 marchi da conferire a chi dimostrerà il teorema nel caso generale. Ma passiamo a qualche esempio di giuochi propriamente detti.
Problemi curiosi. - Ci limitiamo a un esempio classico. Si racconta che sulla tomba di Diofanto (grande matematico vissuto nel sec. IV d. C.) fosse posto un epitaffio, che si può riassumere così: "Questa tomba racchiude Diofanto. Egli passò un sesto della vita nell'infanzia, un dodicesimo nell'adolescenza; poi, decorso un altro settimo della vita, si ammogliò; dopo cinque anni ebbe un figlio che visse soltanto la metà degli anni vissuti dal padre, il quale morì quattro anni dopo di lui".
Questo indovinello per trovare la durata della vita di Diofanto, si traduce nell'equazione di 1° grado
che dà x = 84.
Paradossi e sofismi. - Cominciamo con qualche esempio geometrico.
1. Qualsiasi angolo ottuso è eguale a un angolo retto. Disegnato un rettangolo qualunque ABCD (fig. 4), si conduca per B una retta, esterna a esso, che formi l'angolo ABE eguale all'angolo ottuso dato ad arbitrio e si prenda BE = BC. Essendo O il punto d'incontro degli assi dei segmenti DC, DE, cioè delle loro perpendicolari nei rispettivi punti medî, ed essendo anche AD = BC = BE, risulta che i triangoli OAD, OBE, avendo i tre lati rispettivamente eguali, sono eguali, e quindi gli angoli OAD, OBE sono eguali. Sottraendo da questi rispettivamente gli angoli OAB, OBA pure eguali (perché O appartiene all'asse di AB) risulta l'angolo retto BAD eguale all'angolo ottuso ABE. A un lettore superficiale il ragionamento apparirà perfettamente rigoroso ed esatto; un lettore più attento si accorgerà che la figura è volutamente errata; la retta OE non può tagliare il rettangolo, ma deve essere esterna a esso, e perciò l'ultima parte del ragionamento è falsa.
2. Ogni triangolo è isoscele. - Dato un triangolo qualunque ABC, si conducano l'asse del lato BC e la bisettrice dell'angolo BAC (fig. 5). Se questa risulta perpendicolare a BC, è facile vedere che coincide con l'asse di BC, e il triangolo è isoscele. Se le due rette suddette s'incontrano in un punto O, questo deve essere esterno al triangolo (si può dimostrare facilmente che appartiene al circolo circoscritto al triangolo). Condotte da O le OD, OE, OF rispettivamente perpendicolari alle rette BC, CA, AB, risulta che i due triangoli OAF, OAE sono eguali perché sono rettangoli e hanno l'ipotenusa OA comune e gli angoli OAF, OAE eguali per ipotesi, perciò è AF = AE e OF = OE. I triangoli rettangoli OBF, OCE sono pure eguali, avendo eguali le ipotenuse OB, OC e i cateti OF, OE (in quanto O appartiene alla bisettrice dell'angolo in A). Perciò è BF = CE. Essendosi dimostrato che AF = AE, BF = CF, risulta AF − BF = AE − CE ossia AB = AC. Il triangolo è dunque isoscele.
Naturalmente discenderebbe il corollario: Ogni triangolo è equilatero. Il lettore vedrà facilmente che il ragionamento precedente è esatto fino all'ultimo passaggio, che è errato, perché se il punto E è esterno al lato AC, il punto F deve essere interno al lato AB, e la figura è inesatta.
3. Dimostrazione geometrica che 64 è eguale a 65. - S'intagli nella carta un quadrato diviso in 82 = 64 quadratini eguali; quindi si tagli in quattro pezzi come mostra la figura 6 a, e si riuniscano i quattro pezzi come mostra la figura 6 b. Il dato quadrato apparisce trasformato in un rettangolo che contiene 5 × 13 = 65 quadratini. Dunque 64 = 65. La spiegazione è ovvia. I bordi dei quattro pezzi, che nella figura 6 b sembrano disporsi lungo la diagonale del rettangolo, in realtà non combaciano e lasciano fra loro un interstizio, che è precisamente un parallelogrammo molto allungato, equivalente a uno dei quadratini. Il giuoco deriva dall'eguaglianza 5 × 13 = 82 + 1; nella quale in via di approssimazione si trascura l'1. Vaturalmente risultati simili si ottengono, partendo dalle eguaglianze 13 × 34 = 212 + 1; 34 × 89 = 552 + 1, ... oppure da queste altre:
52 = 3 × 8 + 1, 132 = 8 × 21 + 1, 342 = 21 × 55 + 1, ...
Passiamo a dare qualche esempio di paradossi algebrici. Chiunque sia un po' versato in algebra vedrà facilmente dove si trova l'errore.
1. Due numeri qualunque a, b, sono eguali. - Essendo a, b due numeri diseguali, 2c la loro media aritmetica, si ha successivamente
a + b = 2c, (a + b) (a −b) = 2c (a −b), a2 −2ac = b2 −2bc, a2 − 2ac + c2 = b2 − 2bc + c2, (a − c)2 = (b − c)2, a = b.
2. I numeri -Ii sono egutili. -. Essendo x un numero che verifica l'equazione ex = − 1, si ha successivamente
ex = − 1, e2x = 1, 2x = 0, x ex = 1, − 1 = 1.
3. Consideriamo la somma di infiniti numeri (serie):
Osservando che essa si può anche scrivere nei due modi seguenti:
si vede che, al crescere indefinito del numero dei termini, deve tendere a un numero compreso fra 1/2, e I, che indicheremo con N. Si ha poi successivamente
Dunque N è compreso fra 1/2, ed è eguale a zero.
Infine a proposito di paradossi non si può tacere il nome del filosofo greco Zenone (sec. III a. C.) del quale si citano sempre i due seguenti:
1. Poiché una freccia non può muoversi ove essa non è, e nemmeno può muoversi ove essa è (cioè in uno spazio che essa riempie interamente), ne segue che essa non può muoversi affatto.
2. Se Achille si muove lungo una retta con una velocità eguale, per esempio, a dieci volte quella di una tartaruga che lo precede, non potrà mai raggiungerla. Infatti, supposto che la tartaruga preceda di 1000 metri, mentre Achille li percorre, la tartaruga è andata innanzi di 100 metri; quando Achille ha percorso questi 100 metri, la tartaruga è andata avanti di 10 metri, e così di seguito; talché Achille, pervenendo sempre alla posizione mano mano raggiunta dalla tartaruga quando essa ne è già ripartita, potrà bensì avvicinarsi a essa, ma non la raggiungerà mai.
Secondo P. Tannery, questo secondo paradosso di Zenone dovette far parte di una polemica antipitagorica, valendo come riduzione all'assurdo della concezione atomistica (o monadica) dello spazio (e del tempo) assunta dai pitagorici. Poiché questi filosofi assumevano un punto esteso o monade come parte elementare irriducibile delle linee, delle superficie, dei solidi (e analogamente per il tempo), ogni somma di infiniti segmenti (o di infiniti intervalli di tempo) sarebbe dovuta risultare necessariamente infinita. Ora sta qui appunto l'errore. Una tale somma può benissimo risultare finita, purché codesti infiniti segmenti (o intervalli di tempo) vadano, con legge opportuna, indefinitamente rimpicciolendo (v. limite; serie). Nel caso qui considerato la somma degl'infiniti tratti di cammino percorsi dalla tartaruga è data da
quella dei tratti corrispondentemente percorsi da Achille è
cioè risulta precisamente eguale al cammino totale della tartaruga, aumentato del suo vantaggio iniziale.
I grandi numeri. - Chi si provi a scrivere i valori di 2n per n = 1, 2, 3..., cioè a scrivere una successione di numeri ciascuno doppio del precedente cominciando da 2, si accorge che ben presto si giunge a numeri di una grandezza fantastica. Per es. 219 = 524.288 supera il mezzo milione, 229 = 536.870.912 supera i cinquecento milioni, e così, ad esempio: 231 = 2.147.483.648 supera i due miliardi; e
È ovvio che questi risultati imprevedibili si prestano a un'infinità di giuochi. Come esempio riportiamo la leggenda, d'origine orientale, che riferisce come un sapiente, interrogato da un maharaja sullo stipendio che pretendeva per le sue prestazioni, rispondesse che si contentava di una piccola moneta di valore infimo il primo giorno, di 2 il secondo, 4 il terzo, e così di seguito, sempre raddoppiando fino al trentesimo giorno; lo stesso nei mesi successivi. Il maharaja accettò meravigliandosi della modestia della domanda. Ma dopo pochi giorni il tesoriere esterrefatto dichiarò che non sapeva come provvedere ai pagamenti. Infatti, poiché i + 2 + 22 + ... + 2n = 2n = 2n+1 − 1, il numero di monete da pagare alla fine di un mese di 30 giorni risulta 230 − 1 = 1.073.741.823. Supposto che ogni moneta in questione valesse un centesimo della lira italiana, lo stipendio mensile sarebbe stato di L. 10.737.418,23!.
Altro esempio è quello offerto dalla leggenda dell'inventore del giuoco degli scacchi. Un sapiente indiano inventò il giuoco degli scacchi per diletto e istruzione di un principe, il quale, straordinariamente soddisfatto dell'ingegnosa invenzione, promise di dargli quel premio che domandasse. E quegli rispose che si contentava di un chicco di grano per la prima casella dello scacchiere, 2 per la seconda, 4 per la terza e così di seguito, raddoppiando fino alla 64ª casella. Il principe fu meravigliato della modestia della domanda. Ma si constatò che non sarebbe bastato il grano prodotto da tutto il mondo per anni e anni. Infatti il numero di chicchi richiesto è 264 − 1, ossia 18.446744.073709.551615, ossia, supponendo che 1 cmc. contenga 20 chicchi di grano, ettolitri 9.223.372.036:857.
Poiché, come abbiamo visto, 2n cresce rapidissimamente e indefinitamente con n, è evidente che tanto più rapidamente crescerà in generale an, se a è maggiore di 2. Ma anche se a è un numero che supera di pochissimo l'unità, an finisce col crescere oltre ogni limite. Si capisce ciò che fornisce l'occasione per combinare infiniti giuochi. Ecco un esempio. "A quale somma sarebbe giunto il capitale di un centesimo messo a frutto al principio dell'era volgare alla ragione dell'1%?". Applicando la formula fondamentale dell'interesse composto (Cn = C(i + r)n) si trova che un centesimo, messo a interesse composto all'1% al principio dell'era volgare, alla fine dell'anno 1931 è diventato un capitale di L. 0,01 × 1,011931 si che supera due milioni. Ma se l'interesse fosse stato del 5% si sarebbe raggiunto il capitale di L. 0,01 × 1,051931, che risulta un numero fantasticamente grande, di 39 cifre.
Numeri crescenti molto più rapidamente sono forniti dalle potenze fattoriali di un numero positivo. Si chiama potenza fattoriale del numero a, e s'indica col simbolo an, il prodotto a(a + 1) (a + 2)... (a + n − 1). In particolare 1n = 1.2.3.4....n si chiama brevemente fattoriale di n (v.) e s'indica anche col simbolo n! Basta dare un'occhiata ai primi valori di n! per convincersi quanto rapidamente esso cresca: 1! =1, 2! = 2, 3! = 6, 4! = 24, 5! = 120, 6! = 720, 7! = 5540, 8! = 40.320, 9! = 362.880, 10! = 3.628.800, 11 = 39.916.800, 12! = 479.001.600,... 30! è un numero di 33 cifre. Siccome il numero delle disposizioni di m oggetti ad n ad n è espresso da (m − n +1)n, il numero delle permutazioni di n oggetti è dato da n! e il numero delle combinazioni di m oggetti ad n ad n è dato da m!/[n! (m − n)!] (v. combinatoria, analisi), si capisce come le potenze fattoriali si prestino a molti giuochi, che si ricollegano anche col calcolo delle probabilità.
Ecco qualche esempio: 1. In quanti modi diversi 12 persone potranno disporsi in una fila o in un circolo? In 479.001.600 e 39.916.800 rispettivamente. 2. Da un'urna contenente i primi 90 numeri, in quanti modi diversi se ne possono estrarre 5? In 43.949.268.3. Giuocando uno, o due, o tre, o quattro numeri al lotto, qual'è la probabilità di vincere l'estratto, o l'ambo, o il terno, o la quaterna? Si trova per l'estratto 1/18, per l'ambo 1/400, per il terno 1/111.748, per la quaterna 1/511.304.
Terminiamo queste notizie sui grandi numeri con un problema: scrivere con tre cifre il più grande numero possibile. Questo è (99)9; che, si osservi bene, significa una potenza di 9 che ha per esponente 99. Esso risulta di 369.693.100 cifrel
Regole per indovlnare un numero pensato. - Fra i giuochi di società c'è quello di far pensare uno o più numeri, fare eseguire su essi operazioni aritmetiche più o meno complicate, farsi dire il risultato e da questo dedurre quasi immediatamente il numero pensato. Per eseguire un tal giuoco, occorre che, contrariamente alle apparenze, il passaggio dal numero, che vien comunicato come risultato finale, a quello pensato sia facile e breve. Ciò si può combinare in innumerevoli modi. Per es.:
1. Si faccia pensare un numero; si faccia moltiplicare per 5; al risultato si faccia aggiungere 6; si faccia moltiplicare il risultato per 4, al risultato si faccia aggiungere 9; il risultato si faccia moltiplicare per 5. Saputo il risultato finale, è facile mentalmente sottrarre 165 e poi dividere per 100: il numero così ottenuto è quello pensato. La ragione sta nella identità [ (5x + 6).4 + 9]•5 = 100x + 165.
2. Si faccia pensare un numero di tre cifre di cui la prima e la terza siano disuguali; si faccia eseguire la differenza fra esso e il numero formato con le stesse cifre in ordine inverso; si faccia poi eseguire la somma fra il numero ottenuto e quello che si ottiene scrivendo le sue cifre in ordine inverso. A questo punto, senza bisogno di domandar nulla, si fa la scoperta che il risultato ottenuto è 1089, beninteso senza avvertire che questo risultato è sempre lo stesso, qualunque sia il numero pensato.
Bibl.: C. G. Bachet de Méziriac, Problèmes plaisans et delectables, Lione 1612; 5ª ed., Parigi 1884; J. Ozanam, Récréactions mathématiques et physiques, Parigi 1694; G. Maupin, Opinions et curiosités touchant la mathématique, Parigi 1898; 2ª serie 1903; W. Ahrens, Mathematische Unterhaltungen und Spiel,Lipsia 1901; W. W. Rouse Ball, Ricreazioni e problemi matematici dei tempi antichi e moderni; versione dell'inglese di D. Gambioli, Bologna 1911; I. Ghersi, Matematica dilettevole e curiosa, Milano 1913; G. Peano, Giochi di aritmetica e problemi interessanti, Torino 1924; M. Kraïtchik, La mathématique des jeux, Bruxelles 1930.
Diritto.
Giuoco e scommessa. - Il carattere che distingue il giuoco dalla scommessa va ricercato nell'intenzione dei contraenti, che nel caso della scommessa vogliono confortare, esponendosi al rischio di una perdita pecuniaria, una loro previsione di un avvenimento; e nel caso del giuoco vogliono soltanto far dipendere da un avvenimento futuro e incerto l'alternativa possibilità di un guadagno o di una perdita.
Non è già, come a prima vista può sembrare, che il carattere distintivo fra il giuoco e la scommessa consista nella partecipazione o meno delle parti all'avvenimento da cui dipende la vincita o la perdita: può essere scommessa quella che fanno fra loro due corridori sull'esito della corsa, e giuoco quello che su di essi fanno gli spettatori; giuoco, quello che fanno due giocatori di carte, scommessa, quella che per avventura facciano i presenti sull'entità delle vincite dei giocatori. La distinzione fra il giuoco e la scommessa riesce difficile nei casi limiti, quando le parti non convinte dell'assoluta sicurezza della loro previsione si affidano in parte anche alla sorte.
Il carattere che accomuna giuoco e scommessa è la creazione convenzionale del pericolo di un danno o della speranza di un vantaggio; danno e vantaggio che colpiranno l'una parte piuttosto che l'altra in relazione a un avvenimento futuro e incerto. Notiamo che, così come per le condizioni dette improprie, l'avvenimento può non essere futuro né incerto, purché entrambe le parti ignorino che esso si sia verificato o in qual senso si sia verificato. Quando una di esse sia edotta del reale stato delle cose entriamo nel campo della frode. Il giuoco e la scommessa dànno luogo a un'obbligazione priva di azione ma il cui pagamento non può essere ripetuto.
Si dice in questo senso che vi ha un dovere a cui non corrisponde un diritto. Ma l'esattezza di questa affermazione può essere posta in dubbio. Si dice dai sostenitori di una nota distinzione, che fu fatta per la prima volta in Germania ma che è accolta anche da qualche giurista italiano, che nel caso del giuoco si ha un debito senza obbligazione. Per il diritto romano classico la ripetizione di ciò che era stato pagato per ragioni di debito di giuoco non era ammessa. La massima dell'irripetibilità è affermata soltanto dai compilatori dei varî paesi, e sancita nell'art. 1804 cod. civ. italiano. La norma che non fa obbligo di pagare al giuoco è detta norma giuridica negativa (Windscheid) perché non stabilisce né precetto né divieto.
Essendo questo della carenza di azione accompagnata dall'irripetibilità di ciò che fu pagato il carattere estrinseco delle obbligazioni naturali, si è da molti ritenuto che il giuoco rientri in questa categoria. Ma scrittori autorevolissimi negano questo ravvicinamento osservando che, mentre nelle obbligazioni naturali la carenza di azione accompagnata dalla soluti retentio è da mettersi in relazione con la natura non pienamente giuridica ma morale dell'obbligazione, che per questa sua natura gode di una tutela attenuata da parte della legge, ciò non si può ammettere nel caso del giuoco che è un'obbligazione immorale. Perciò confondere il giuoco e la scommessa con le obbligazioni naturali sarebbe confondere cose diverse e opposte. La soluti retentio e la carenza di azione si spiegherebbero nel caso del giuoco e della scommessa ricorrendo al principio che in pari turpitudine potior est condicio possidentis. Sarebbe come una ripugnanza della legge a intervenire in un rapporto immorale, per cui, in mancanza di rimedî giuridici, lo stato di fatto viene a prevalere. Si adduce anche a conforto di questa tesi un argomento logico-esegetico che consiste nel far rilevare che se il giuoco e la scommessa fossero obbligazioni naturali, inutile sarebbe stato che la legge sancisse espressamente per questi negozî la soluti retentio e la carenza di azione come invece fa. Si è osservato però che se il giuocare e lo scommettere sono negozî immorali, immorale non è, bensì comandato nel modo più energico dalla coscienza sociale, il pagamento dei debiti che si contraggono scommettendo e giuocando. Da questo punto di vista un ravvicinamento del giuoco alle obbligazioni naturali diventerebbe possibile.
Si disputa se chi pagò il debito di giuoco debba averlo pagato soltanto volontariamente, non costretto da violenza o dolo né per errore, o debba anche averlo pagato scientemente cioè sapendo che pagava un debito al cui pagamento egli non era costretto per magistero di legge. La seconda è opinione preferibile.
Di regola devono considerarsi compatibili con le obbligazioni derivanti da giuoco o scommessa tutti quegli effetti che normalmente producono le obbligazioni, purché non si risolvano in una coercizione del debitore al pagamento. Alla stregua di questo principio deve ritenersi inammissibile la compensazione perché opera anche invito debitore.
Le questioni che si agitano intorno al giuoco di borsa qui non possono essere che accennate. Gli uomini di affari negano recisamente che in borsa si concludano dei contratti che hanno per unico scopo di scommettere sull'oscillazione del cambio. Tali non sarebbero i cosiddetti contratti differenziali che, pur risolvendosi nel pagamento delle differenze, sarebbero voluti, all'atto della loro conclusione, come negozî serî in cui i contraenti hanno di mira la traditio dei titoli che ne sono oggetto, non la speculazione sulla differenza.
Probabilmente in questa autodifesa degli uomini di borsa vi è qualche esagerazione. Comunque per evitare che i contraenti in mala fede si giovino delle eccezioni di giuoco e scommessa, rendendo mal sicure le contrazioni di borsa, la legge italiana statuisce la validità dei contratti differenziali. È stabilita così una presunzione di serietà per questi negozî che esclude l'eccezione di giuoco e scommessa.
Repressione penale del giuoco d'azzardo. - Risale nel diritto romano all'epoca repubblicana. Il Digesto menziona un senatoconsulto diretto contro il giuoco con posta di danaro (Dig., XI, 5, de aleat., 2, 1) e tre leggi (Titia, Publicia e Cornelia) relative allo stesso argomento (ibidem, 3). Ulpiano riporta l'editto del pretore contro i tenitori di giuoco (lib. 23, ad Edictum). Nell'epoca imperiale le sanzioni si attenuarono e assunsero carattere quasi esclusivamente civile. Nel Medioevo gli statuti comunali comminarono dapprima pene pecuniarie (Verona, Perugia, Ancona, Pesaro, Ferrara, Faenza, Orvieto, Benevento), ma giunsero poi a punire il giuoco d'azzardo con la berlina e la frusta (Casale), l'esilio temporaneo (Padova), con la distruzione della casa da giuoco (Brescia). Gravi sanzioni rimasero anche nei secoli successivi (Prammaticae sardae, XXXIV, 14; Prammaticae siculae, IV, 4 e 5; editto modenese 18 decembre 1741). Nella legislazione attuale la punizione del giuoco d'azzardo è estesa in quasi tutti gli stati, per quanto alcuni codici limitino la sanzione ai soli tenitori del giuoco, escludendone i giocatori (Francia, Belgio, ecc.).
La ragione della repressione penale del giuoco d'azzardo deve ricercarsi nel danno e nel pericolo etico-sociali derivanti dal giuoco d'azzardo per gli effetti deleterî, che esso produce nei giocatori, abituandoli allo sperpero inconsiderato di ricchezze, nonché per la facilità con cui l'ansia e l'emozione del rischio e l'avidità di facile locupletamento senza fatica possono degenerare in prepotente passione.
La nozione del giuoco d'azzardo secondo l'art. 721 p. p. del cod. pen. 1930 (che riproduce sostanzialmente l'art. 487 p. p. cod. pen. 1889) è integrata dal duplice elemento dell'alea e del fine di lucro. Quanto al primo elemento non si richiede come nel codice sardo (art. 474) che la vincita o la perdita dipendano esclusivamente dalla sorte (parola a cui il codice vigente ha sostituito la locuzione più propria di alea): basta che ne dipendano "interamente o quasi interamente", estendendosi così in parte la nozione a quei giuochi in cui est mixtura ingenii et fortunae (Claro). Non è neppur richiesto il requisito del cosiddetto invito, che vi sia cioè chi tiene il banco e altri che puntano. L'elemento dell'alea deve essere valutato in relazione alla struttura e alle modalità dei singoli giuochi, tenendo presente specialmente quale influenza possa avere l'esperienza, il calcolo e l'abilità del giocatore nell'esito di una serie di partite.
Fra i giuochi di carte a cui è stato dalla giurisprudenza riconosciuto (sotto l'impero del codice 1889) il carattere di giuochi di azzardo vanno ricordati il sette e mezzo, il macao, il poker, la zecchinetta o toppa, la bestia, la primiera, il trentuno, il faraone, il pitocchetto o piattello, il goffo, il trentacinque, l'uomo nero, la petrangola. Fra gli altri giuochi sono stati considerati d'azzardo quello dei dadi, dei tre ditali, della roulette, della morra. Uno dei più antichi e diffusi è il giuoco dei dadi. Ha fisionomia di giuoco d'azzardo anche quello delle lotterie e delle tombole, consistente nell'estrazione di uno o più numeri, ma questa materia è regolata da legge speciale (v. lotto).
Per quanto concerne l'elemento del fine di lucro, esso consiste nello scopo di conseguire con il giuoco un vantaggio economico: non è necessario però che costituisca lo scopo unico e principale, potendo bene essere associato al fine di divertimento. Basta che il fine di lucro sussista come spinta al giuoco, a nulla rilevando la destinazione del profitto o il mancato conseguimento dello sperato vantaggio. Deve escludersi il fine di lucro, quando la tenuità della posta in relazione alle altre circostanze faccia ritenere che il denaro sia ridotto a un mero simbolo della vincita e che si tratti di giuoco tenuto a unico scopo di sollazzo o di onesto passatempo. Condizione di punibilità del giuoco d'azzardo è che si svolga in luogo pubblico o aperto al pubblico, cioè in luogo che per sua natura o per destinazione consenta l'accesso di qualunque persona. Ai luoghi aperti al pubblico sono assimilati i circoli privati di qualsiasi specie, con la cui esplicita menzione il nuovo legislatore ha voluto eliminare le incertezze di interpretazione dell'art. 487, capov., del codice abrogato.
Sono previste dal codice penale due distinte ipotesi di reato: l'esercizio di giuochi d'azzardo e la partecipazione al giuoco: comprese entrambe fra le contravvenzioni concernenti la polizia dei costumi. Con la prima ipotesi è punito colui che tiene un giuoco d'azzardo o lo agevola (art. 718 cod. pen. 1930). Tenitore del giuoco è chiunque prende l'iniziativa del giuoco o lo organizza e lo dirige o l'amministra nel proprio interesse; tale deve considerarsi perciò anche chi tiene il banco. L'agevolazione del giuoco consiste in qualsiasi attività che ne facilita l'esercizio: e ben può estrinsecarsi nella concessione del locale o nella sciente tolleranza del giuoco nel locale di cui si abbia la disponibilità.
È comminata cumulativamente la pena dell'arresto fino a un anno e dell'ammenda non inferiore a lire duemila. Se il colpevole è un contravventore abituale o professionale, alla misura di sicurezza della libertà vigilata (art. 230, n. 3, cod. pen.) può essere aggiunta quella della cauzione di buona condotta. L'art. 719 prevede come aggravanti (con raddoppiamento della pena) le circostanze: che il colpevole abbia istituito o tenuto una casa di giuoco; che il fatto sia commesso in un pubblico esercizio; che vengano impegnate nel giuoco poste rilevanti; che fra i partecipanti al giuoco siano persone minori degli anni diciotto. È evidente il maggior pericolo sociale che in questi casi l'esercizio del giuoco d'azzardo presenta. Ai fini dell'applicabilità dell'aggravante sono considerate case da giuoco "i luoghi di convegno destinati al giuoco d'azzardo, anche se privati, e anche se lo scopo del giuoco è sotto qualsiasi forma dissimulato" (art. 721, 2ª p.). Pertanto elemento essenziale della casa da giuoco (bisca) è la sua destinazione, sia essa palese o dissimulata, unica o concorrente con altri scopi. Per esercizio pubblico poi s'intende qualsiasi azienda destinata a servire il pubblico e sottoposta all'ingerenza della polizia o per la natura delle cose che vi vengono somministrate o per la specie delle comodità che vi vengono procurate o per la qualità delle persone che la frequentano.
La seconda ipotesi di reato consiste nella partecipazione al giuoco (art. 720). Giocatore va considerato non solo chi compie o concorre a compiere le operazioni inerenti al giuoco, ma anche chi attende il proprio turno prestabilito o chi scommette al giuoco fatto da altri. Condizione speciale della punibilità della partecipazione al giuoco è la sorpresa in flagranza (in ipsa perpetratione). La condizione importa l'esclusione di qualsiasi altra prova diretta o indiretta ed è giustificata dalla difficoltà e incertezza di altri mezzi di accertamento in modo da "evitare inopportuni rigori e dolorosi equivoci". Si ha la sorpresa in flagranza quando i giocatori sono colti nell'atto del giuoco o in tale atteggiamento da far ritenere che il giuoco sia stato interrotto immediatamente prima della sorpresa o per sfuggire a essa o per normale intervallo tra una partita e l'altra. È da ritenere che la sorpresa richieda, oltre alla constatazione diretta, la contestazione ai giocatori.
È comminata la pena dell'ammenda fino a lire cinquemila. Costituiscono circostanze aggravanti la sorpresa in una casa da giuoco o in un pubblico esercizio e l'avere impegnate nel giuoco poste rilevanti.
L'una e l'altra contravvenzione richiedono come elemento morale la coscienza e volontà dell'azione. Entrambe importano la pena accessoria della pubblicazione della sentenza di condanna e la misura di sicurezza della confisca del denaro esposto nel giuoco e degli arnesi e degli oggetti a esso destinati (art. 722). Per la confisca del danaro basta che esso si trovi esposto sul tavolo da giuoco, sia o no impegnato nella giocata al momento della sorpresa.
A speciali restrizioni sono sottoposti in materia di giuoco gli esercizî pubblici, per ovvî motivi di ordine pubblico: in quanto non è permesso in essi tenere giuochi di qualsiasi specie senza espressa autorizzazione di polizia (art. 209 del reg. 21 gennaio 1929, n. 62), e sono comunque proibiti, oltre i giuochi d'azzardo, anche i giuochi vietati nel pubblico interesse dal questore e indicati in apposito elenco che deve rimanere esposto nelle sale da giuoco o da biliardo autorizzate (art. 110 del testo unico legge di pubblica sicurezza 18 giugno 1931, n. 773).
L'abusivo esercizio in detti locali dei giuochi compresi nell'elenco è punito con l'ammenda da lire 50 a lire 1000 (art. 723 cod. pen.). Si applica l'arresto fino a tre mesi e l'ammenda da lire 500 a 5000 se siano impegnate nel giuoco poste rilevanti e se fra coloro che partecipano al giuoco vi siano minori di anni 18. Per chi sia colto mentre prende parte al giuoco la pena è dell'ammenda fino a lire 500. È inoltre vietato di concedere licenze per l'uso, nei luoghi pubblici o aperti al pubblico, di apparecchi o di congegni automatici da giuoco o da trattenimento di qualsiasi specie: essendosi ritenuto che per il modo in cui sono congegnati costituiscano sempre veri e proprî giuochi d'azzardo. L'abusiva tenuta di siffatti apparecchi è punita con l'ammenda da lire 1000 a lire 5000 (art. 110 del citato testo unico legge di pubblica sicurezza).
Bibl.: P. Bonfante, Scritti varî, Torino 1920, III, p. 41 segg.; F. Ferrara, Teoria del negozio illecito, Milano 1901, p. 281 segg.; C. Manetti, Appendice alla traduzione del libro XI delle Pandette del Glük, Milano 1903; V. Polacco, Le obbligazioni nel diritto italiano, 11ª ed., Roma 1915, par. 30 bis segg., e autori ivi citati.
Per la repressione penale del giuoco d'azzardo, v.: Basso, I tenitori di giuoco, in Giustizia penale, 1895, col. 626 segg.; R. De Notaristefani, Giuochi d'azzardo, in Digesto italiano, XII, p. 442 segg.; C. Gatteschi, Dei giuochi d'azzardo, in Supplemento Rivista penale, I, p. 152 segg.; G. Guidi, Delle contravvenzioni prevedute dagli art. 484 a 487 cod. pen., in Supplemento Rivista penale, XV, p. 65 segg.; P. Lanza, Giuochi d'azzardo, in Supplemento Rivista penale, XX, pp. 257 segg., 321 segg.; Margarella, I giuochi d'azzardo nel codice penale, in Rivista universale di giurisprudenza e dottrina, IV, p. 217 segg.; C. Martini, Il giuoco, in Il Filangieri, 1915, p. 532 segg.; V. Vescovi, La sorpresa in flagranza dei giuochi d'azzardo, in Cassazione unica, VIII, p. 673 segg.