Abstract
Vengono esaminate le caratteristiche e la struttura della giurisdizione amministrativa generale (di legittimità) attraverso una ricostruzione storica, normativa e giurisprudenziale delle linee evolutive del sistema di giustizia amministrativa che hanno condotto da ultimo all’approvazione del d.lgs. 2.7.2010, n. 104, emanato in attuazione della delega contenuta nell’art. 44 della l. 18.6.2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo.
L’art. 7 c.p.a., dopo aver ancorato la giurisdizione del giudice amministrativo all’esercizio, o al mancato (doveroso) esercizio, da parte delle pubbliche amministrazioni o dei soggetti ad esse equiparati, del potere pubblico autoritativo (co. 1 e 2), ne conferma la tradizionale tripartizione al terzo comma, là dove è previsto che «la giurisdizione amministrativa si articola in giurisdizione generale di legittimità, giurisdizione esclusiva, e giurisdizione estesa al merito». L’aver operato una simile distinzione, come se si trattasse di giudizi diversi, non corrisponde veramente alla realtà di un processo amministrativo caratterizzato, nella sua quotidianità, da un accertamento sostanzialmente identico in ognuna delle «giurisdizioni». Oggi si potrebbe distinguere soltanto in relazione al tipo di azione, vista la pluralità di azioni postulata dal Codice, ovvero in relazione al rito, in considerazione di una pluralità di riti processuali. Continuare a distinguere le «giurisdizioni» amministrative in relazione alla profondità dell’accertamento giurisdizionale oppure all’esistenza, o meno, di poteri sostitutivi appare evidentemente antistorico.
Il quarto comma dell’art. 7 c.p.a. statuisce che «sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma».
Queste disposizioni dimostrano chiaramente che alla base della recente codificazione non vi è soltanto l’esigenza formale di unificazione e di coordinamento delle norme processuali stratificatesi nel tempo e sparse in più testi normativi. Vi è anche – e soprattutto – l’esigenza sostanziale di riconoscere una tutela giurisdizionale piena ed effettiva, al fine di dare compiuta attuazione al quadro costituzionale della giustizia amministrativa, come espressione dell’assetto istituzionale dei rapporti tra privato cittadino e pubblici poteri. Non a caso, la norma di apertura del Codice recita espressamente: «la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo».
Ciò nonostante, come si avrà modo di rilevare nel prosieguo, è possibile rinvenire all’interno dello stesso articolato codicistico alcune disposizioni che sembrano continuare ad ispirarsi al modello originario della giurisdizione generale di legittimità. Del resto, le crisi dei modelli processuali ed il loro superamento anche nei fatti, nell’impiego quotidiano che di essi si faccia, non sono sempre sufficienti a decretarne la morte.
La l. 31.3.1889, n. 5992, nell’istituire la IV Sezione del Consiglio di Stato, aveva devoluto a questa il potere di decidere in ordine ai ricorsi «per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, aventi ad oggetto un interesse di individui o di enti giuridici morali, quando i ricorsi medesimi non fossero di competenza dell’autorità giudiziaria, né si trattasse di materia spettante alla giurisdizione od alle attribuzioni di corpi o collegi speciali» (art. 3). In tal modo, il legislatore attribuiva alla cognizione di un determinato giudice una serie di situazioni giuridiche – per l’appunto gli «interessi di individui o di enti giuridici morali», che la dottrina successiva definì situazioni di interesse legittimo – lasciate dalla legge abolitiva del contenzioso amministrativo prive di tutela giurisdizionale.
È possibile rilevare come la legge Crispi sia stata emanata nel segno della continuità rispetto alla legge di abolizione del contenzioso amministrativo al preciso fine di integrare gli strumenti di tutela fino ad allora previsti. Infatti, l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato (e, in sede locale, delle giunte provinciali amministrative) non nacque dall’esigenza di sottrarre poteri al giudice ordinario, ma dall’inadeguatezza dello strumento della disapplicazione a soddisfare le ragioni del privato di fronte al carattere autoritativo ed imperativo dell’atto amministrativo.
Il ricorso alla IV Sezione, dunque, assolveva ad un compito ben preciso, di ordine generale, che ha finito progressivamente col diventare l’obiettivo precipuo e lo stesso tratto differenziale della giurisdizione amministrativa: la tutela delle situazioni giuridiche soggettive di interesse legittimo. Peraltro, se è vero che nel 1889 è stata generalizzata la tutela giurisdizionale, con la sua estensione a situazioni giuridiche diverse da quelle di diritto soggettivo, è altrettanto vero che in tale momento non sono stati affatto generalizzati (o completati) i mezzi e i contenuti della tutela. In altre parole, nonostante il suo carattere generale, la giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo nasceva intrinsecamente «limitata» (Ranelletti, O., Le guarentigie della giustizia nella pubblica Amministrazione, Milano, 1934, 411).
La limitatezza di cui si parla atteneva, in primo luogo, alla cognizione dei fatti oggetto della controversia, che non soltanto non poteva estendersi alle valutazioni di merito (o di opportunità) dell’amministrazione, ma che non poteva neppure giungere sul limitare delle valutazioni tecniche. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, che solo in tempi piuttosto recenti ha mostrato qualche significativo cedimento, infatti, nell’ambito del giudizio generale di legittimità, al giudice amministrativo era precluso il giudizio sul fatto. Il giudice, cioè, pur potendo procedere all’accertamento circa l’esistenza (o meno) dei fatti nella loro materialità estrinseca, non poteva anche procedere ad una rinnovazione della valutazione e dell’apprezzamento di quegli stessi fatti, riconducibili alla sfera del merito amministrativo o della discrezionalità amministrativa o tecnica e, come tali, sottratti ad una verifica giudiziale.
Un secondo limite, strettamente connesso a quello relativo alla cognizione sul fatto, riguardava i poteri istruttori del giudice amministrativo di legittimità. Con la l. 21.7.2000, n. 205, si è avuta una prima attenuazione di tale limitazione, essendo stata ammessa la consulenza tecnica d’ufficio anche nell’ambito del giudizio generale di legittimità, ma è solo dopo l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo che si è avuta una riforma radicale della materia. Infatti, oggi il giudice amministrativo può disporre tutti i mezzi di prova previsti dal Codice di procedura civile, con la sola esclusione delle c.d. prove legali.
Il fatto che il giudice amministrativo di legittimità non potesse conoscere di tutti gli aspetti della controversia era un limite strettamente collegato, infine, all’impossibilità per esso di dare gli ordini necessari alla reintegrazione della situazione giuridica soggettiva lesa. Disponendo del solo potere di annullamento, tale giudice non poteva né riformare o sostituire il provvedimento impugnato, come invece consentito nella giurisdizione di merito, né pronunciare sentenze dichiarative o di condanna delle amministrazioni pubbliche ad un dare o facere specifico, come invece ammesso nell’ambito della giurisdizione esclusiva.
Il carattere prettamente impugnatorio-cassatorio del giudizio generale di legittimità, inoltre, consentiva alla p.a. di reiterare un nuovo provvedimento negativo per il privato, anche a fronte di una pronuncia di accoglimento del ricorso (art. 45, co. 1, T.U. Cons. Stato). Ad ogni modo, tale (secondo) provvedimento avrebbe dovuto basarsi su motivi diversi da quelli già esaminati dal giudice, in considerazione delle previsioni dell’art. 88, reg. proc. n. 642/1907, secondo cui era previsto che «l’esecuzione delle decisioni si fa in via amministrativa». Pertanto, l’atto meramente ripetitivo di quello precedentemente annullato sarebbe stato affetto da un vizio ulteriore, ossia dalla violazione del giudicato, con la conseguenza che il giudice amministrativo, in sede di giurisdizione di merito, avrebbe potuto non solo annullarlo, ma anche riformarlo con la più completa sostituzione della sua volontà a quella dell’amministrazione.
La riserva all’amministrazione degli atti successivi alla pronuncia di annullamento è stata definitivamente superata dal Codice del processo. L’art. 34, lett. a), infatti, sancisce che, in caso di accoglimento del ricorso, «il giudice, nei limiti della domanda, annulla in tutto o in parte il provvedimento impugnato». La nuova disposizione, che più non salva «gli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa», certamente si inserisce fra quegli interventi che nel corso degli anni hanno contribuito alla trasformazione del tradizionale modello processuale in un giudizio di carattere eminentemente soggettivo, teso principalmente ad offrire una tutela piena ed effettiva alle situazione giuridiche soggettive incise dalla funzione amministrativa piuttosto che a verificare la mera legittimità degli atti impugnati (cfr. infra, § 6).
La circostanza per la quale l’eventuale decisione giurisdizionale di accoglimento del ricorso avrebbe avuto pur sempre carattere costitutivo, essendo diretta a distruggere o modificare la situazione creata con l’atto impugnato (Zanobini, G., Corso di diritto amministrativo, II, Milano, 1958, 320), creava notevoli questioni e dubbi interpretativi nei casi in cui un tale atto mancasse. La tematica del silenzio della p.a., come è noto, è stata una di quelle maggiormente dibattute sin dagli albori del nostro sistema di giustizia amministrativa, soprattutto perché ha messo chiaramente in luce l’insufficienza della sola azione di annullamento per la tutela dell’interesse legittimo nelle sue varie manifestazioni. Infatti, se la caducazione dell’atto lesivo può ritenersi una forma di tutela adeguata a soddisfare l’interesse oppositivo dedotto in giudizio dalla parte, stesso non può dirsi ove il ricorrente sia portatore di interesse pretensivo, situazione giuridica che postula un comportamento amministrativo attivo per poter trovare effettiva realizzazione.
I giudici amministrativi hanno compiuto uno sforzo logico notevole per ammettere l’instaurazione di un giudizio rispetto ad una situazione dove si prescindeva completamente dall’esistenza di un atto amministrativo da impugnare e, per sentirsi più sicuri del loro operato, avevano ricostruito la figura del silenzio c.d. rifiuto (o inadempimento) nell’unico modo coerente a quelle che erano le linee guida del sistema di giustizia amministrativa, ossia attribuendogli natura attizia. In altri termini, l’inerzia amministrativa si rendeva impugnabile per effetto della sua equiparazione ad un provvedimento di diniego tacito. Tale impostazione, invero, era stata superata già sul finire degli anni settanta, allorquando l’Adunanza Plenaria (Cons. St., A.P., 10.3.1978, n. 10) aveva affermato che, una volta accertato il carattere illegittimo del silenzio rifiuto (da non confondere con il silenzio rigetto, che si forma nell’arco di novanta giorni dalla presentazione del ricorso gerarchico e legittima l’azione avverso l’atto originario, così postulando l’instaurazione di un giudizio di impugnazione vero e proprio), purché non residuassero margini di discrezionalità amministrativa, sarebbe stato possibile per il giudice o per il commissario ad acta da questi nominato in sede di giudizio d’ottemperanza indicare all’amministrazione il contenuto dei suoi obblighi nei confronti della parte ricorrente. Tuttavia, proprio l’esigenza di questo «duplice giro di attività giurisdizionale» dimostrava chiaramente l’inefficienza del rimedio del silenzio rifiuto (Nigro, M., Linee di una riforma necessaria e possibile del processo amministrativo, in Riv. dir. proc., 1978, 254 ss.).
Così, mentre si apriva più di qualche spiraglio all’introduzione nel processo amministrativo di un’azione dichiarativa volta ad accertare l’inadempimento dell’obbligo di provvedere, interveniva la legge di riforma n. 205/2000 che introduceva nel corpus della l. n. 1034/1976 (art. 21 bis) un rito speciale dedicato appositamente alla fattispecie del silenzio rifiuto, in virtù del quale sarebbe stato possibile all’occorrenza per il giudice nominare un commissario ad acta incaricato di provvedere in luogo dell’amministrazione rimasta inerte.
La tematica del silenzio della p.a. dimostra chiaramente come la giurisprudenza amministrativa sia rimasta storicamente agganciata allo schema tradizionale del giudizio sull’atto. Come si vede, la problematica posta dall’azione di annullamento è comprensiva di una serie di questioni ulteriori la cui risoluzione condiziona tutta un’altra serie di problemi. Primo fra questi quello, imprescindibile, relativo all’oggetto del giudizio. L’idea di partenza è quel convincimento, da sempre condiviso in dottrina, secondo cui la nozione di oggetto del giudizio è legata in maniera indissolubile alla concezione che si ha dell’azione e dei rapporti che si ritiene di dover stabilire tra contenuto della tutela giudiziaria e mezzo della sua realizzazione giurisdizionale (Piras, A., Interesse legittimo e giudizio amministrativo, I, Milano, 1962, 3)
L’impostazione giurisprudenziale e dottrinale originaria, seppur nelle sue diverse sfumature, ha sostanzialmente identificato l’oggetto del giudizio amministrativo nella verifica della legittimità dell’atto impugnato. Si evidenziava come questa soluzione si presentasse la più rispettosa del dato positivo, posto che gli artt. 26 e 45 T.U. Cons. Stato e dell’art. 26 l. TAR sancivano che, in caso di accoglimento del ricorso, il tribunale amministrativo regionale avrebbe dovuto «annulla(re) l’atto e rimette(re) l’affare all’autorità competente», ovvero, accogliendo la domanda per altri motivi, «annulla(re) in tutto o in parte l’atto impugnato».
Tale impostazione, comunque, è stata nel corso degli anni arricchita di importanti precisazioni e specificazioni. In particolare, si è sostenuto che l’oggetto del giudizio avrebbe dovuto identificarsi nell’affermazione dell’illegittimità del provvedimento impugnato in relazione ai motivi dedotti; nella motivata domanda fatta valere in giudizio dal ricorrente, ovvero, più precisamente, nella risoluzione delle questioni da quest’ultimo proposte nei singoli motivi; nella pretesa della parte ricorrente qualificabile attraverso il raccordo dell’annullamento con i motivi della domanda fatti valere in giudizio, occorrendo previamente discernere tra veri e propri motivi intesi come effettivi capi della domanda e motivi complementari a sostegno della pretesa.
Queste ricostruzioni, a ben vedere, dimostrano che l’orientamento che individua(va) l’oggetto del giudizio amministrativo nella pretesa del ricorrente (id est nel c.d. rapporto amministrativo) non necessariamente si pone(va) in contrasto con l’impostazione tradizionale. Infatti, se la pretesa avanzata dalla parte non è più quella al mero annullamento dell’atto amministrativo impugnato per i vizi di legittimità dedotti, quanto piuttosto la riparazione della lesione ingiustamente subìta, l’originaria contrapposizione tra le due teorie viene naturalmente a comporsi. Nella prospettiva del «giudizio sul rapporto», che appare allo stato l’unica plausibile, la decisione del giudice non si pone più come obiettivo unico quello di accertare l’illegittimità di un atto o l’illiceità di una condotta, ma è volta a verificare la lesione ingiustamente subìta dalla parte per la reintegrazione – in forma specifica o per equivalente – della pretesa sostanziale fatta valere in giudizio, in conformità ai princìpi di rango costituzionale della pienezza e dell’effettività della tutela giurisdizionale.
La legge di riforma della giustizia amministrativa n. 205/2000 ha attribuito al giudice amministrativo, «nell’ambito della sua giurisdizione», il potere di condannare le pubbliche amministrazioni al risarcimento del danno ingiusto (art. 7, co. 4). In tal modo, è stata estesa anche all’ambito della giurisdizione generale di legittimità la possibilità per la parte ricorrente di ottenere una tutela risarcitoria, dapprima limitata, ai sensi dell’art. 35, co. 1, d.lgs. 31.3.1998, n. 80, alle materie di giurisdizione esclusiva. Tale previsione di legge, insieme a quella che ha introdotto il rimedio avverso il silenzio amministrativo (art. 2, co. 1), ha alterato profondamente la fisionomia del processo di legittimità, che, tradizionalmente configurabile quale giudizio sulla legittimità dell’atto, da questo momento assume le sembianze di un giudizio (anche) risarcitorio-riparatorio.
Purtuttavia, l’ipoteca del modello impugnatorio-cassatorio sulla costruzione del processo amministrativo, specie di legittimità, ha condizionato anche dopo la novella del 2000 la posizione della giurisprudenza amministrativa, la quale ha mostrato di essere legata ad una lettura tradizionale delle nuove previsioni normative. Il riferimento, in particolare, è proprio alle disposizioni di cui al citato art. 7, co. 4, l. n. 205/2000, devolutive al giudice amministrativo «di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali». Secondo i giudici amministrativi e buona parte della dottrina, infatti, per effetto di tali previsioni non poteva che riconoscersi un nesso di necessaria pregiudizialità tra annullamento dell’atto lesivo e «consequenziale» istanza risarcitoria.
È stata l’impossibilità di configurare un’azione di annullamento autonoma e distinta da quella risarcitoria, anche in forma specifica, a costituire nell’assetto normativo previgente all’introduzione del Codice il tratto di discriminazione più netta tra tutela offerta in sede di giurisdizione esclusiva e tutela offerta in sede di giurisdizione generale. L’elemento differenziale stava proprio nel carattere unitario che contraddistingue il sistema delle azioni nella giurisdizione piena, costruito attorno alla centralità dell’azione di condanna alla riparazione (anche in forma specifica) delle ingiuste lesioni subite dal ricorrente. Nella giurisdizione generale di legittimità, invece, il giudizio continuava a fondarsi sull’articolazione delle azioni di cui all’art. 26, l. TAR, cui si era poi affiancata quella prevista dall’art 21 bis, restando, in tal modo, rigidamente caratterizzato da un modello processuale tutto finalizzato ad un generale sindacato di legittimità dell’azione amministrativa, che trovava espressione nell’azione di annullamento, ovvero, in caso di silenzio dell’amministrazione, nella nuova azione avverso il silenzio. L’azione di condanna al risarcimento si presentava meramente «eventuale» e sussidiaria, essendo prevista come rimedio ulteriore ed aggiuntivo ove la sentenza costitutiva di annullamento (o quella di condanna a provvedere) non risultasse indirettamente sufficiente a ristorare la situazione giuridica soggettiva fatta valere dal ricorrente (Police, A., Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, II, Contributo alla teoria dell’azione nella giurisdizione esclusiva, Padova, 2001).
È indubbio, però, che questo tratto differenziale fra giurisdizione amministrativa generale e giurisdizione esclusiva si fondava più sui limiti derivanti da un’interpretazione letterale delle norme, non esente da critiche ed ampiamente criticata (cfr. per tutti Scoca, F.G., Divagazioni su giurisdizione e azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 2008, 1 ss.; Moscarini, L.V., Perdurante incertezza sulla questione della «pregiudiziale amministrativa», in www.giustamm.it, 2009), che non su una corretta interpretazione della ratio che aveva ispirato il legislatore. Per tali ragioni, si era portati a ritenere che questo tratto differenziale fra i due «tipi giurisdizionali» sarebbe venuto, prima o poi, a cadere.
Come già accennato, l’attuale ambito della giurisdizione generale di legittimità è definito dall’art. 7, co. 4, c.p.a. con riferimento alle «controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma». Data l’attribuzione alla giurisdizione amministrativa di legittimità di questa tipologia di controversie, posto che i casi di giurisdizione di merito sono elencati tassativamente dalla legge e dall’art. 134 c.p.a., si deve ritenere che gli accordi ed i comportamenti, ai quali rinvia il primo comma dell’art. 7, rientrino nell’ambito della giurisdizione esclusiva.
Ad ulteriore conferma del riconosciuto carattere generale della giurisdizione di legittimità (tale, appunto, perché ha ad oggetto ogni forma di tutela degli interessi legittimi), la norma in esame attrae nella propria sfera di applicazione potenziale ogni fattispecie in cui l’esercizio o il mancato (doveroso) esercizio della funzione amministrativa è fonte di pregiudizio, anche patrimoniale, per l’interessato. Il quarto comma dell’art. 7, dunque, conferma che il giudice amministrativo, anche nell’ambito della giurisdizione generale, può conoscere – e decidere – le domande risarcitorie avanzate dalla parte ricorrente. Si è trattato, in verità, di una scelta necessaria se si considera che il legislatore delegato al riassetto del processo amministrativo, a norma dell’art. 44, l. n. 69/2009, avrebbe dovuto comunque uniformarsi alla giurisprudenza costituzionale ed a quella delle giurisdizioni superiori, nonché assicurare la concentrazione delle tutele (si veda, in particolare, l’iter motivazionale svolto da C. cost., 6.7.2004, n. 204, con nota di Police, A., La giurisdizione del giudice amministrativo è piena ma non è più esclusiva, in Giorn. dir. amm., 2004, 974 ss.; C. cost., 11.5.2006, n. 191; Cass. civ., S.U., ordd. nn. 13659, 13660 e 13911 del 2006).
Il principio della concentrazione delle tutele trova oggi espresso riconoscimento nel settimo comma dell’art. 7 c.p.a., in base al quale «il principio di effettività è realizzato attraverso la concentrazione davanti al giudice amministrativo di ogni forma di tutela degli interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, dei diritti soggettivi», ed è ulteriormente specificato dal successivo art. 30, co. 6, secondo cui «di ogni domanda al risarcimento di danni per lesione di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il giudice amministrativo».
Il nuovo Codice del processo amministrativo ha realizzato soltanto in parte l’atteso ed auspicato modello unico processuale di giurisdizione piena. Le novità più importanti non riguardano la giurisdizione esclusiva che, a parte l’aumento delle relative ipotesi, ha mantenuto sostanzialmente fermi i caratteri già assunti a seguito del d.lgs. n. 80/1998, come riscritto dalla Corte Costituzionale con le richiamate sentenze. nn. 204/2004 e 191/2006. Esse riguardano, invece, la giurisdizione generale di legittimità.
Si è già rilevato che il legislatore delegato ha mantenuto ferma la devoluzione alla giurisdizione generale di legittimità delle controversie concernenti il risarcimento del danno ingiusto, possibile anche in forma specifica, ai sensi dell’art. 2058 c.c., sussistendone i presupposti (art. 30, co. 2, c.p.a.). Il potenziamento degli strumenti di tutela di cui dispone la parte ricorrente, peraltro, emerge da una pluralità di previsioni codicistiche. In primo luogo, si segnalano gli artt. 7, co. 1 e 4, 31 e 34, lett. c), che, ove letti congiuntamente, consentono di sopperire alla mancata espressa previsione di un’azione di accertamento autonoma ai fini della sua configurabilità nel processo amministrativo (sul punto si veda anche il percorso motivazionale seguito da Cons. St., A.P., 29.7.2011, n. 15). Proprio l’art. 34, lett. c), così come riformato in sede di secondo correttivo (d.lgs. 14.9.2012, n. 160), inoltre, quando dispone che «l’azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all’articolo 31, comma 3, contestualmente all’azione di annullamento del provvedimento di diniego o all’azione avverso il silenzio», tipicizza la c.d. azione di adempimento. L’esistenza di tale azione, che già compariva – al pari dell’azione autonoma di accertamento – nella bozza di Codice, del resto, non era stata negata neppure dalla più recente giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. St., 22.3.2011, n. 3, con nota di Scoca, F.G., Risarcimento del danno e comportamento del danneggiato da provvedimento amministrativo, in Corr. giur., 2011, 979 ss.). Occorre poi menzionare l’art. 63 c.p.a., che amplia notevolmente i poteri istruttori del giudice, conferendogli il potere di richiedere chiarimenti o documenti; ammettere la prova testimoniale in forma scritta; ordinare l’esecuzione di una verificazione o, se indispensabile, disporre una consulenza tecnica; disporre l’assunzione degli altri mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, con la sola esclusione dell’interrogatorio formale e del giuramento.
In effetti, le disposizioni appena richiamate sembrano deporre nel senso di configurare anche la giurisdizione generale di legittimità come una giurisdizione piena e di carattere eminentemente soggettivo. Il giudice amministrativo oggi può, dal punto di vista istruttorio, accedere a tutti i fatti che hanno dato origine alla controversia e, dal punto di vista decisorio, rendere pronunce davvero satisfattive dell’interesse del ricorrente, nel rispetto del principio di pienezza e di effettività della tutela enunciato nell’art. 1 c.p.a., come diretto corollario degli artt. 24, 103, 111 e 113 Cost..
Tuttavia, all’interno dello stesso Codice permangono numerose altre disposizioni che sembrano continuare ad ispirarsi a quel modello «tradizionale» della giurisdizione generale di legittimità. A tal riguardo, non si può fare a meno di evidenziare come la annosa e significativa questione della così detta pregiudizialità amministrativa sia stata risolta con una soluzione di compromesso per nulla condivisibile, che, in realtà, sembra implicare un ritorno al passato della giurisdizione di legittimità. Seppure, infatti, l’art. 7, co. 4, c.p.a. ammette in termini generali l’azione in via autonoma per il risarcimento del danno derivante da ingiusta lesione degli interessi legittimi, il successivo art. 30, co. 3, pone al riguardo un – invero assai poco comprensibile – termine perentorio brevissimo, di soli centoventi giorni, decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo; ed il co. 5 del medesimo articolo aggiunge che «nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizioo, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza».
Queste disposizioni, in realtà, sembrano tradire una (perdurante) concezione della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo come giurisdizione di carattere (ancora) eminentemente «oggettivo», volta, più che ad offrire tutela effettiva alle situazioni giuridiche soggettive incise dal potere amministrativo autoritativo, a verificare la mera legittimità del provvedimento impugnato, ai fini del ripristino, mediante il potere di annullamento, dell’ordine giuridico (obiettivo) violato.
Art. 7 c.p.a.
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