Abstract
La giurisdizione di merito, nonostante il limitato numero di ipotesi contemplate dall’art. 134 c.p.a. e la tradizionale ritrosia del giudice amministrativo ad esercitare le attribuzioni di sostituzione dell’Amministrazione e di riforma dell’atto impugnato che la legge gli riserva rispetto ad esse, mantiene ancora oggi una persistente vitalità, come emerge sia dalle norme dedicate al processo in materia di pubblici appalti sia da quelle che hanno introdotto la così detta azione collettiva di diritto pubblico.
La giurisdizione di merito ha costituito storicamente la prima forma di «giurisdizione amministrativa», il primo nucleo della giustizia amministrativa. Ancor prima dell’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato ad opera della l. 31.3.1889, n. 5992, infatti, l’art. 10, Allegato D, della l. 20.3.1865, n. 2248, salvava dall’abolizione del contenzioso amministrativo disposta dall’art. 1, Allegato E, affidandole alla «giurisdizione propria» del Consiglio di Stato, alcune attribuzioni già appartenenti al contenzioso amministrativo preunitario. Si parlava di «giurisdizione propria» in quanto contrapposta alla «giurisdizione ritenuta» del Sovrano, rispetto alla quale il ruolo svolto dal Consiglio di Stato era meramente consultivo, di delibazione sui ricorsi straordinari. Ebbene, questa embrionale giurisdizione amministrativa era una vera e propria giurisdizione di merito e non una giurisdizione di sola legittimità, come lo sarebbe stata invece quella affidata, di lì a pochi anni, alla IV Sezione. Infatti, mentre nel formulare i pareri sui ricorsi straordinari al Capo dello Stato il Consiglio di Stato limitava il suo esame a profili di mera legittimità, nella giurisdizione propria tale limitazione non sussisteva.
Tale diversità di ampiezza del sindacato giurisdizionale venne preservata anche dopo l’entrata in vigore della l. n. 5992/1889, che aveva devoluto alla IV Sezione del Consiglio di Stato il potere di decidere in ordine ai ricorsi «per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante».
Il legislatore, posto dinanzi all’alternativa se mantenere la giurisdizione «propria» del Consiglio di Stato oppure potenziarla, ricomprendendola nell’ambito della neonata giurisdizione di legittimità, scelse la prima via. Così come il legislatore del 1865 – che pure aveva affermato e perseguito, in linea di principio, attraverso l’abolizione del contenzioso amministrativo preunitario, l’ideale dell’unicità della giurisdizione – aveva conservato al Consiglio di Stato determinate competenze giurisdizionali, anche il legislatore del 1889 avvertì l’esigenza di fornire una tutela più pregnante a determinate controversie che presentavano un intreccio indissolubile di interessi pubblici e privati e che, per la loro importanza sociale ed economica, necessitavano di un sindacato che si spingesse oltre l’esame dei profili di mera illegittimità dell’atto.
L’art. 4 della l. n. 5992/1889 sanciva che rispetto alle limitate ipotesi ivi contemplate il giudice potesse decidere «pronunciando anche in merito». Questa locuzione si mantenne in tutte le disposizioni legislative successive, fino all’art. 27 del T.U. Cons. St.; l’art. 7 della l. 6.12.1971, n. 1034, invece, parlava espressamente di «giurisdizione di merito». Il Codice del processo amministrativo (d.lgs. 2.7.2010, n. 104) ancora oggi distingue fra giurisdizione amministrativa generale di legittimità, esclusiva ed «estesa al merito» (art. 7, co. 3).
Come è noto, sin dalle sue origini, il concetto di merito amministrativo, riferito alla giurisdizione, è stato oggetto di evidenti contrapposizioni dottrinarie. Il dibattito, peraltro, si ripropone ciclicamente e con esso la rinnovata attenzione alla giurisdizione di merito. L’interrogativo di fondo, che non è stato mai univocamente risolto in dottrina, ha sempre riguardato il significato da attribuire all’espressione «anche in merito».
Un primo orientamento ha riferito tale espressione ad un sindacato giurisdizionale esteso alla piena cognizione dei fatti oggetto della controversia. Questa tesi aveva certamente il merito di sgomberare il campo dalle ambiguità e dagli equivoci, in particolare dall’equivoco di considerare la cognizione estesa al merito un grimaldello pericoloso per la stabilità del solido edificio della teoria della separazione dei poteri e, quindi, dal sospetto che nella sua giurisdizione di merito il giudice potesse ingerirsi degli affari amministrativi e sostituirsi all’Amministrazione. Tuttavia, le ambiguità e gli equivoci sono restati ben saldi, soprattutto per la forza evocativa della parola «merito» e per la sua indebita ma costante confusione con il «merito amministrativo».
L’indirizzo tradizionale ha difatti ritenuto che, nei casi in cui decideva «anche in merito», il giudice amministrativo poteva estendere il proprio sindacato fino al limite delle valutazioni di opportunità amministrativa, in via del tutto eccezionale ed aggiuntiva rispetto al tradizionale sindacato generale di legittimità. Nella sua accezione più estrema, tale ricostruzione ha portato perfino a dubitare della natura giurisdizionale dell’attività del giudice amministrativo di merito; si è, così, parlato di attività giurisdizionale solo in senso formale, di giurisdizione mista a legislazione, di giurisdizione mista ad attività amministrativa.
Si è rilevato che l’equivoco che vizia l’impostazione tradizionale del problema risiede nella pretesa di spostare, attraverso le più diverse categorizzazioni dei profili funzionali dell’attività, l’ordine formale delle qualificazioni che (sole) individuano la struttura (e la funzione) del provvedimento decisorio (Giannini, M.S.-Piras, A., Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica Amministrazione, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 261). Tuttavia, il profilo del giudizio di opportunità ha sollecitato la dottrina molto di più che non la concezione del giudizio di merito come giudizio sul fatto. Forse perché il primo impulso naturale e spontaneo, come si diceva, è quello di fare ricorso al significato che il vocabolo «merito» ha nel diritto amministrativo sostanziale, accezione che porta a ritenere che il giudice possa – o addirittura debba – procedere ad acclarare l’opportunità, l’convenienza, l’utilità o l’equità dell’attività amministrativa (Roehrssen, G., La giurisdizione di merito del giudice amministrativo, in Studi in onore di A. Papaldo, Milano, 1975, 213 ss.). Sicuramente perché, anche sulla giurisdizione di merito, ha operato il diaframma costituito dalla separazione degli interessi dai diritti, che è stato il prodotto della legislazione del 1865. Infatti, non si dà conoscenza dei fatti se questa conoscenza non si ambienta, per così dire, in una cognizione più vasta concernente il rapporto intersoggettivo (Benvenuti, F., Giustizia amministrativa, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 608); ma rapporto voleva dire diritto soggettivo: l’interesse legittimo implicava solo indirettamente il rapporto, nel momento in cui si contrapponeva al diritto soggettivo. Poiché tutela dell’interesse legittimo ha voluto dire sin dall’inizio tutela diretta contro l’atto amministrativo, una conoscenza del fatto rapportata ad esso diventava necessariamente esame di opportunità dello stesso. Detto in altri termini, in questo quadro non poteva realizzarsi una cognizione dei fatti che non venisse immediatamente riassorbita in una valutazione di opportunità dell’atto.
In realtà, storicamente, le materie attribuite alla giurisdizione propria del Consiglio di Stato, pur nella loro eterogeneità, si sono sempre prestate ad un giudizio naturalmente esteso ad una piena cognizione dei fatti oggetto della controversia, in rapporto alle norme giuridiche da applicare. Il giudizio di merito inteso come giudizio di opportunità amministrativo, invece, ha rappresentato un aspetto residuale. Si consideri, peraltro, che in talune delle materie devolute alla giurisdizione amministrativa di merito, era – ed è – addirittura impossibile anche astrattamente ipotizzare una valutazione di opportunità del provvedimento impugnato.
La «giurisdizione» di merito, insomma, si differenziava da quella di legittimità non già per la diversa natura del sindacato (o addirittura del potere) esercitato dal giudice amministrativo, quanto per imaggiori poteri di cognizione del fatto e di decisone che a tale giudice venivano riconosciuti. Sin dalle origini, infatti, davanti al giudice amministrativo di merito sono stati consentiti tutti i mezzi di prova ammessi dal processo civile, purché compatibili con i caratteri della giurisdizione amministrativa (cfr. art. 44, co. 2, T.U. Cons. St.). Altra peculiarità del giudizio di merito era che il giudice poteva non solo annullare il provvedimento impugnato, ma anche riformarlo, nonché «sostituirsi all’amministrazione» (cfr. infra, § 5).
L’attribuzione di così ampi poteri istruttori e di altrettanto ampi poteri decisori consentiva al giudice amministrativo di esercitare un sindacato non limitato al semplice accertamento dei fatti, ma esteso al loro autonomo apprezzamento, ossia, in sostanza, alla valutazione della concreta rispondenza del provvedimento agli interessi pubblici previsti dalle norme e perseguiti in concreto dalla pubblica Amministrazione. Si può davvero ritenere che il giudice di merito – giudice del fatto oltre che del diritto – sia stato il primo giudice amministrativo dotato di giurisdizione (competenza) «piena». Nonostante queste straordinarie potenzialità, la giurisdizione di merito è stata rapidamente sopraffatta dalla giurisdizione generale di legittimità e, con l’eccezione del giudizio di ottemperanza, è stata quasi completamente dimenticata.
La giurisprudenza e la dottrina, da sempre, sostengono che il sindacato giurisdizionale di merito può esercitarsi nei casi tassativamente previsti dalla legge, senza possibilità di interpretazioni estensive delle relative norme. Il principio dell’enumerazione delle materie è un fattore che ha notevolmente contribuito all’inesorabile declino della giurisdizione (eccezionale) di merito rispetto alla giurisdizione (generale) di legittimità, e ne ha ridotto da subito le potenzialità, sia nel senso di rendersi effettiva e sfruttare tutte le sue attitudini nei casi per essa previsti, sia nel senso di costruire una giustizia più effettiva e più piena.
In passato, le fattispecie rispetto alle quali il giudice poteva pronunciare «anche in merito» venivano elencate, oltre che nel r.d. n. 1058/1924 ed in alcune leggi speciali, (principalmente) negli artt. 27 e 29 nn. 2, 3, 4, 5, 8 e 9 T.U. Cons. St., ai quali rimandava lo stesso art. 7, co. 1 e 4, della l. n. 1034/1976. Queste disposizioni sono state abrogate per effetto dell’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo (art. 4, All. 4), che ha sensibilmente ridotto il numero delle ipotesi di giurisdizione di merito. Esse sono attualmente previste dall’art. 134, alle quali rimanda l’art. 7, co. 6, secondo cui «il giudice amministrativo esercita giurisdizione con cognizione estesa al merito nelle controversie indicate dalla legge e dall’articolo 134». In tal modo, è stata data piena esecuzione a quanto stabilito dall’art. 44, co. 2, lett. b), n. 2, della l. 18.6.2009, n. 69, che delegava il Governo a riordinare i «casi di giurisdizione estesa al merito, anche mediante soppressione delle fattispecie non più coerenti con l’ordinamento vigente».
L’art. 134 c.p.a. dispone che «il giudice amministrativo esercita giurisdizione con cognizione estesa al merito nelle controversie aventi ad oggetto:
a) l’attuazione delle pronunce giurisdizionali esecutive o del giudicato nell’ambito del giudizio di cui al Titolo I del Libro IV;
b) gli atti e le operazioni in materia elettorale, attribuiti alla giurisdizione amministrativa;
c) le sanzioni pecuniarie la cui contestazione è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo, comprese quelle applicate dalle Autorità amministrative indipendenti e quelle previste dall’articolo 123;
d) le contestazioni sui confini degli enti territoriali;
e) il diniego di rilascio di nulla osta cinematografico di cui all’articolo 8 della legge 21 novembre 1962, n. 161».
Il giudizio di ottemperanza, anche dopo l’entrata in vigore del Codice (artt. 112 ss.), resta l’ipotesi principale di giurisdizione estesa al merito.
Il limitatissimo numero delle attribuzioni che l’art. 134 c.p.a. ha inteso assegnare alla giurisdizione di merito del giudice amministrativo non ha sancito il tramonto definitivo di tale «giurisdizione». Anzi, forse segna un’inversione di rotta e, in definitiva, il superamento di un antico equivoco. In alcuni casi tassativamente indicati dalla legge, è ben possibile che, oltre ad assicurare la giusta tutela delle situazioni giuridiche soggettive, il giudice si faccia aggiuntivamente carico della cura dell’interesse pubblico. Sembra essere proprio questo il tratto caratterizzante e la ragione della persistente attualità della giurisdizione di merito. In essa, accanto alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive tipica di ogni processo si aggiunge una funzione aggiuntiva – in ossequio all’«anche in merito» – e del tutto eccezionale: la cura dell’interesse pubblico a mezzo del processo ed in sostituzione dell’Amministrazione.
Non devono, tuttavia, ingenerarsi equivoci. Non si parla in questo caso di una cura del pubblico interesse che possa assimilarsi a quella che, nell’ambito della propria discrezionalità, spetta all’Amministrazione. Si tratta di peculiari ipotesi in cui il legislatore ravvisa la necessità di una contestualità tra la decisione che tutela le situazioni di interesse legittimo dei privati (e ne ripara la lesione) e la conseguente coerente conformazione dell’assetto degli interessi pubblici; ciò al fine di garantire immediatezza e coerenza tra la tutela assicurata dal giudice alle ragioni del privato e le ragioni dell’interesse pubblico. Tratto, quest’ultimo, che è tipico della principale figura delle giurisdizione di merito: il giudizio di ottemperanza.
Si potrebbe eccepire che tale conclusione non farebbe altro che riportare la giurisdizione di merito nel recinto del giudizio di opportunità. A ben vedere, però, così non è. Questo tipo di cognizione aggiuntiva non ha nulla a che vedere con le valutazioni di opportunità o di merito amministrativo; il giudice di merito, infatti, non opera scelte discrezionali, né effettua ponderazioni di interessi che siano alternative o comunque distoniche da quelle effettuate dalla pubblica Amministrazione. Il giudizio di merito, in sostanza, non comporta (né consente) una totale rinnovazione della scelta discrezionale dell’Amministrazione, ma si pone come appendice – non necessaria, ma eccezionale appunto – della decisione sulla domanda di giustizia del ricorrente nell’esatta determinazione della «misura» di tutela delle situazioni giuridiche soggettive fatte valere in giudizio rispetto all’assetto degli interessi pubblici frutto delle ponderazioni discrezionali dell’Amministrazione.
In questo senso, il tratto «aggiuntivo» della giurisdizione di merito, che ancora ne giustifica la distinzione rispetto alla giurisdizione generale, è proprio questa idoneità a conformare alla misura di tutela delle ragioni del privato le ragioni dell’interesse pubblico. E tale persistente attualità sembra confermata dal fatto che il legislatore stia di recente introducendo nuove figure di giurisdizione di merito.
L’art. 44 della l. comunitaria 7.7.2009, n. 88, nel recepire la cd. direttiva ricorsi 2007/66/CE, ha disposto di lasciare al «giudice che annulla l’aggiudicazione la scelta, in funzione del bilanciamento degli interessi coinvolti nei casi concreti, tra privazione di effetti retroattiva o limitata alle prestazioni da eseguire; nel caso di cui all’articolo 2-sexies, paragrafo 1, della direttiva 89/665/CEE e all’articolo 2-sexies, paragrafo 1, della direttiva 92/13/CEE, lasciare al giudice che annulla l’aggiudicazione la scelta, in funzione del bilanciamento degli interessi coinvolti nei casi concreti, tra privazione di effetti del contratto e relativa decorrenza, e sanzioni alternative; fuori dei casi di cui ai numeri 1) e 2), lasciare al giudice che annulla l’aggiudicazione la scelta, in funzione del bilanciamento degli interessi coinvolti nei casi concreti, tra privazione di effetti del contratto e relativa decorrenza, ovvero risarcimento per equivalente del danno subito e comprovato»; e questo, provvedendo a includere il contenzioso contrattuale della p.A. «nell’ambito di una giurisdizione esclusiva e di merito».
Tale previsione è, poi, confluita nelle norme del Codice del processo amministrativo. Se è vero, dunque, che apparentemente il Codice ha proceduto ad una razionalizzazione e ad una profonda riduzione delle attribuzioni giurisdizionali «anche in merito», nell’importantissima materia delle controversie sull’aggiudicazione dei contratti pubblici, è previsto, da un lato (art. 122 c.p.a.), che «il giudice che annulla l’aggiudicazione definitiva stabilisce se dichiarare inefficace il contratto, fissandone la decorrenza, tenendo conto, in particolare, degli interessi delle parti, dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subentrare nel contratto, nei casi in cui il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovare la gara e la domanda di subentrare sia stata proposta»; dall’altro (art. 124 c.p.a.), che «se il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato», mentre «la condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda di cui al comma 1, o non si è resa disponibile a subentrare nel contratto, è valutata dal giudice ai sensi dell’articolo 1227 del codice civile».
Quella appena citata è un’ipotesi davvero importante, che dimostra come la giurisdizione di merito sia ancora pienamente attuale e si giustifichi proprio in quei casi in cui eccezionalmente si rende necessaria una contestualità tra la tutela delle situazioni di interesse legittimo dei privati e la tutela delle ragioni dell’interesse pubblico.
Analoghe osservazioni possono replicarsi in ordine alla l. 4.3.2009, n. 15 (Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e all’efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei conti), il cui art. 4, co. 2, lett. l), n. 2, consente «a ogni interessato di agire in giudizio nei confronti delle amministrazioni, nonché dei concessionari di servizi pubblici, fatte salve le competenze degli organismi con funzioni di regolazione e controllo istituiti con legge dello Stato e preposti ai relativi settori, se dalla violazione di standard qualitativi ed economici o degli obblighi contenuti nelle Carte dei servizi, dall’omesso esercizio di poteri di vigilanza, di controllo o sanzionatori, dalla violazione dei termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali derivi la lesione di interessi giuridicamente rilevanti per una pluralità di utenti o consumatori»; e devolve «il giudizio alla giurisdizione esclusiva e di merito del giudice amministrativo».
Queste conclusioni non sembrano smentite né dalle poco convincenti posizioni espresse in sede consultiva dal Consiglio di Stato, né dal tenore letterale del d.lgs. 20.12.2009, n. 198, in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici (c.d. class action pubblica). Infatti, nonostante la Sezione consultiva del Consiglio di Stato sugli atti normativi tenda a ricondurre l’azione per l’efficienza delle pubbliche amministrazioni nel novero della giurisdizione esclusiva (Adunanza 9.6.2009, n. 1943), ed in tal senso operi pure la lettera del decreto legislativo (cfr. art. 1, co. 7), date le peculiarità dell’accertamento giurisdizionale, ciò non basta ad escludere che la cognizione del giudice amministrativo non possa qualificarsi come estesa al merito.
Come è reso chiaro sin dall’art. 1, «al fine di ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio, i titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori possono agire in giudizio, con le modalità stabilite nel presente decreto, nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di servizi pubblici, se derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi, dalla violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento, dalla violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi ovvero dalla violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti, per i concessionari di servizi pubblici, dalle autorità preposte alla regolazione ed al controllo del settore e, per le pubbliche amministrazioni, definiti dalle stesse in conformità alle disposizioni in materia di performance contenute nel decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, coerentemente con le linee guida definite dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 13 del medesimo decreto e secondo le scadenze temporali definite dal decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150».
Non si può non riconoscere come tale valutazione comporti valutazioni di merito, soprattutto se si considera che, come precisa l’art. 1, co. 1 bis, «nel giudizio di sussistenza della lesione di cui al comma 1 il giudice tiene conto delle risorse strumentali, finanziarie e umane concretamente a disposizione delle parti intimate» (sul punto cfr. Fidone, G., L’azione per l’efficienza nel processo amministrativo dal giudizio sull’atto a quello sull’attività, Torino, 2012, 293 ss.. Per un’analisi critica puntuale, anche dell’attuazione della delega legislativa, v. Fabbri, A., Le azioni collettive nei confronti della pubblica amministrazione nelle sistematica delle azioni non individuali, Napoli, 2012, 214 ss.).
È lungo questi binari che si conferma, anche nelle previsioni legislative più recenti, come il tratto aggiuntivo della giurisdizione di merito sia proprio questa idoneità a conformare alla misura di tutela delle ragioni del privato le ragioni dell’interesse pubblico. Il giudice amministrativo, in sostanza, opera valutazioni che, senza mai invadere la sfera della ponderazione degli interessi (e quindi la scelta dei fini), si limitano, ove necessario, ad incidere sui mezzi per rendere questi ultimi compatibili con le giuste ragioni del privato.
Sembrerebbe, pertanto, doversi concludere per una persistente vitalità della giurisdizione di merito. Proprio tale vitalità induce a ritenere che non si possa più ipotizzare esistere ancora oggi una giurisdizione «nel» merito e, soprattutto, che si possa ancora parlare di sostituzione della pubblica Amministrazione. E si dice ciò anche se l’art. 7, co. 6, c.p.a. (in combinato disposto con il successivo art. 34, co. 1, lett. d), che in maniera più analitica prevede che, nei casi di giurisdizione di merito, il giudice, ove accolga il ricorso, e nei limiti della domanda, «adotta un nuovo atto ovvero modifica o riforma quello impugnato»), continui a prevedere espressamente che, nei casi di giurisdizione di merito, il giudice amministrativo «può sostituirsi all’amministrazione».
A tal riguardo, occorre innanzitutto premettere che alcune delle ipotesi considerate dall’art. 134 – il riferimento, in particolare, è alla materia elettorale ed alla definizione dei confini dei Comuni –, dato il carattere vincolato delle operazioni rimesse al giudice, evidentemente non hanno nulla a che vedere con la sostituzione dell’Amministrazione. Il discorso, pertanto, riguarderebbe le altre ipotesi e, in particolare, il giudizio di ottemperanza.
Ebbene, se si guarda a tale giudizio, risulta difficile comprendere perché l’attività di sostituzione debba aversi nell’ambito della giurisdizione di merito e non prima, cioè nella fase in cui si svolge il giudizio di cognizione, date le caratteristiche piene ed ampie del giudizio di cognizione, il suo svolgersi su due gradi di giudizio, la possibilità di forme più sicure di accertamento e di acquisizione di materiale probatorio e così via. Questa sostituzione, in realtà, è una sostituzione che, intervenendo secondo le modalità tipiche della sostituzione a mezzo del giudizio di ottemperanza (ossia a mezzo di un giudice amministratore o, come più spesso accade, a mezzo di un commissario ad acta), mette in luce il fallimento del giudizio di cognizione giurisdizionale (nei suoi due possibili gradi) e, in sostanza, di tutto l’esercizio della funzione giurisdizionale. Nel momento in cui l’intero risultato satisfattivo della domanda di giustizia non consegue direttamente dall’esercizio della funzione giurisdizionale, ma si compendia nell’attività di un commissario ad acta, ciò mette a nudo e dimostra l’inefficacia e l’inefficienza della stessa funzione che il giudizio avrebbe dovuto assolvere.
Se viceversa la funzione giurisdizionale viene svolta in modo corretto, se l’accertamento del giudice della cognizione è pieno, allora non si ha modo di potersi parlare di sostituzione malfatta. A ben vedere, anzi, si ha proprio la possibilità di escludere la sostituzione. Questa attività, infatti, non può né deve essere eccezionale o aggiuntiva: essa deve essere la regola tipica dei poteri del giudice rispetto a situazioni in cui l’Amministrazione opera in maniera illegittima, di modo che possa essere reso un sindacato giurisdizionale pieno, completo, satisfattivo per il ricorrente rispetto all’attività posta in essere dal soggetto pubblico.
Se questo tipo di giurisdizione – la si chiami pure di merito – resta eccezionale ed aggiuntiva, questo non rafforza affatto l’ipotesi del modello del giudizio amministrativo come giudizio che garantisce la specialità dell’Amministrazione. Non ci sarebbe nulla di male in un giudizio che individua la specialità della giurisdizione in ossequio alla specialità dell’Amministrazione, ma la tutela che quella giurisdizione speciale assicura non dovrebbe prevedere né consentire sacche di privilegio per quest’ultima. Se specialità della pubblica Amministrazione e, conseguentemente, specialità del processo, significa garantire delle sacche di privilegio per la p.a. (e si badi, non per tutte le Amministrazioni, per alcune Amministrazioni a scapito di altre, per alcuni Ministeri a scapito di altri, per alcune Amministrazioni locali o indipendenti a differenza di altre), la giurisdizione di merito costituirebbe forse proprio quella cartina di tornasole capace di dimostrare l’inefficienza del nostro sistema processuale. Un sistema processuale, cioè, che costruisce la specialità come privilegio dell’Amministrazione e non, viceversa, come giusto ossequio alla rappresentazione più completa degli interessi della collettività e della legittimazione democratica di chi questi interessi pondera e regola.
In definitiva, è questo il rischio che oggi si corre a continuare a considerare realistico l’assetto normativo che l’art. 7, co. 6, c.p.a. tramanda, cioè di un giudice amministrativo che eserciterebbe la cognizione di merito solo in quelle pochissime materie indicate nell’art. 134 e soltanto in quelle pochissime materie possa svolgere attività di sostituzione. E se, tuttavia, si riuscissero a superare queste incrostazioni normative, forse si potrebbe parlare non più di sindacato di merito e sostituzione dell’Amministrazione, bensì, da un lato, di cognizione piena dei fatti e degli interessi e, dall’altro, di meri poteri o mere decisioni del giudice tendenti alla soddisfazione della pretesa al bene della vita fatta valere in giudizio dal ricorrente.
Artt. 7 e 134 c.p.a.
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