ALESI (Alessi), Giuseppe
Nato a Polizzi da un picconiere tra il primo e il secondo decennio del sec. XVII, imparò a batter l'oro e, con maggiore abilità e più profitto, a maneggiare la spada, tanto da preferire al mestiere del battiloro quello del bravaccio. Implicato in risse e omicidi, fu imprigionato nelle carceri palermitane della Vicaria, dalle quali evase riparando a Napoli, dove assistette, e forse partecipò, ai tumulti popolari capeggiati da Masaniello. Rientrato a Palermo poco dopo, si rifugiò nel quartiere dei consarioti, la combattiva maestranza palermitana del cui console era parente, e, forte della sua esperienza napoletana, vi andò acquistando influenza e prestigio. Nel corso delle prime settimane di agosto 1647 partecipò attivamente ai convegni di esponenti popolari tendenti a organizzare una nuova rivolta in città, dopo il fallimento dei tumulti del maggio. L'occasione si presentò il 15agosto, quando il viceré marchese de Los Velez, avvertito dei conciliaboli popolari, chiamò e trattenne a lungo nel palazzo vicereale due consoli fra i più noti delle maestranze palermitane, con il proposito di intimorirli e stroncare così la rivolta sul nascere. Sparsasi la voce del fermo dei due consoli, la folla, raccoltasi minacciosamente sotto il palazzo vicereale, sospettò nel viceré il proposito di ucciderli. Di tale atmosfera di allarme approfittò l'A., che, senza farsi scoraggiare dal pronto rilascio dei due consoli, assaltò, alla testa di una turba di conciapelli e pescatori, ilbaluardo del Tuono e mosse quindi all'assalto del palazzo vicereale. La resistenza spagnola fu debole e nella serata del 15 l'A. si trovò padrone della città: il viceré, non potendo contare che su poche truppe spagnole, aveva preferito rifugiarsi sulla flotta per riparare sulla vicina spiaggia dell'Arenella. Il suo esempio fu seguito da gran parte della nobiltà, che lasciò la città e fuggì nei propri feudi, mentre il presidio spagnolo si asserragliò nei castelli cittadini.
Il successo così rapidamente ottenuto non diede alla testa all'A., che iniziò subito una politica di estrema moderazione. La sua prima preoccupazione fu di mantenere l'ordine in città, e in tal senso promulgò, nella stessa serata del 15, un bando che minacciava la pena capitale a chi avesse commesso furti e saccheggi o adoperato le armi senza giusti motivi. Quindi cercò di consolidare la sua posizione fra ilpopolo, facendosi acclamare capitano generale con una speciale squadra popolare adibita alla sua sicurezza, ed eliminando decisamente (lo fece decapitare) la concorrenza di un altro esponente popolare, che gli contestava la direzione del moto.
La moderazione dell'A. non era certo sorretta da un preciso programma politico, ma piuttosto dettata dalla preoccupazione, vivissima particolarmente nei suoi intimi collaboratori, a cominciare dal fratello Francesco, un ufficiale della Tavola che aveva avuto qualche esperienza politica e amministrativa (era stato governatore della terra di Caronia), di non rompere del tutto con la nobiltà e tanto meno con gli Spagnoli.
È significativo in questo senso che, nella stessa notte del 15,Francesco Alesi si recò segretamente e di propria iniziativa dal viceré a rendergli omaggio e rassicurarlo sulle intenzioni del fratello. La tendenza fortemente conciliatrice di Francesco trovava, del resto, facile terreno nell'istintivo rispetto per l'autorità costituita, per la nobiltà e il clero, e nella grande devozione per il lontano monarca, che impedivano all'A. di pensare ad una qualsiasi prospettiva di radicali rivolgimenti politici.
Trovatosi improvvisamente alla testa di un moto popolare, per la direzione del quale si sentiva politicamente del tutto impreparato, l'A. fece ricorso agli uomini di penna, fra i quali contava di trovare quei sicuri consiglieri politici di cui abbisognava. Il suo primo pensiero fu per Francesco Baronio, il noto letterato palermitano, detenuto nelle carceri del Sant'Offizio sotto accusa di eresia, ma in realtà perché compromesso nei tumulti del maggio. L'inquisitore, D. Trasmiera, al quale l'A. si rivolse, ebbe però facile gioco: facendo leva sugli scrupoli religiosi, fortissimi nell'A., non solo non liberò il Baronio, ma iniziò quella sottile politica di lusinghe che doveva liquidare in una settimana la rivolta e il suo capo improvvisato.
I legisti che accettarono di assistere l'A. non mostrarono mai un'eccessiva fiducia nelle possibilità di riuscita del moto; alcuni anzi esercitarono la loro influenza sull'A. in perfetto accordo con il viceré e l'inquisitore. Venne così a mancare un serio impegno dei legisti, che solo poteva dare, in quelle circostanze, una direzione politica efficiente al movimento popolare.
Non mancò, invece, l'impegno in senso repressivo di preti e nobili: il 16 agosto il Senato cittadino invitò l'A., con una lettera piena di adulazioni, a concertare insieme i provvedimenti di cui la grave situazione economica della città abbi-sognava.
L'A. acconsentì di buon grado, e cominciarono così le riunioni nella chiesa di S. Giuseppe, con la partecipazione dei legisti, dei consoli delle Arti, dei senatori e di altri pubblici ufficiali, del Trasmiera e di alcuni nobili. Il risultato di queste conferenze fu depositato in quarantanove capitoli da sottoporre, secondo la formula tradizionale, all'approvazione del viceré. L'elaborazione dei capitoli, nella quale ebbe un peso determinante l'influenza moderatrice dei legisti, ubbidì sostanzialmente a una triplice direttiva: soddisfare la generale esigenza del basso popolo, che voleva liberarsi dall'oppressione delle tasse, assicurare alle maestranze una più attiva partecipazione alla vita politica cittadina, consolidare l'ordinamento autonomistico isolano e le sue garanzie giuridiche, cui i legisti erano particolarmente attaccati. Per il resto, il viceré veniva, dopo aspro dibattito, confermato in carica, e, cosa assai più grave, non si proponeva alcun specifico provvedimento per risolvere la gravissima crisi economica, che, in definitiva, aveva suscitato la rivolta a Palermo come in varie altre città e borghi dell'isola.
In queste riunioni l'A. si trovò completamente prigioniero dei legisti e dell'astuto Trasmiera: la sua fu essenzialmente un'opera di moderazione, rivolta a frenare e imbrigliare l'ala più estremista del movimento popolare.
Tutto il prestigio guadagnato con l'audacia dimostrata il 15agosto fu speso dall'A. in questa continua azione d'imbrigliamento della rivolta, destinata fatalmente a sottrargli quella generale simpatia popolare che l'aveva fln'allora sorretto.
Fra i suoi seguaci cominciò a insinuarsi il malcontento, abilmente alimentato dal Trasmiera e dai nobili, che in una seduta a S. Giuseppe proposero tre capitoli aggiuntivi con cui si nominava l'A. sindaco perpetuo con un salario di 2.000 scudi annuali, e il fratello Francesco Maestro razionale e campanino della città. In tal modo la posizione dell'A. diveniva insostenibile: il suo desiderio di rientrare al più presto nella legalità e la conseguente condiscendenza alle lusinghe dei nobili e dell'inquisitore mal si conciliavano con le tendenze ribellistiche di certi settori popolari che l'A. controllava sempre meno. La politica collaborazionistica dell'A., se aveva impedito il saccheggio delle ricche dimore della città e lo scatenarsi dei rancori e delle vendette popolati, non aveva certo ottenuto come contropartita risultati immediati di qualche rilievo a vantaggio della massa. Il blocco dei sostenitori dell'A. cominciò così a incrinarsi seriamente. I pescatori in particolare mostrarono aperta insofferenza per l'A., che aveva punito severamente uno dei loro perché aveva fatto frustare di sua iniziativa un orefice, reo di omicidio, e, mantenendo un rigoroso blocco intorno alla città per evitare ogni contatto con la flotta, impediva loro l'esercizio della pesca.
Intanto il viceré aveva accettato di trasmettere i capitoli a Madrid per l'approvazione reale e si dichiarava pronto a rientrare in città, a condizione che i rivoltosi disarmassero i due baluardi di S. Giorgio e del Tuono. La condizione posta dal viceré suscitò fortissime resistenze e l'A. dovette faticare non poco per farla accettare. Ma il risentimento popolare raggiunse il suo culmine quando l'A., il 21 agosto, su ispirazione dei teatini, che avevano sempre avuto una fortissima influenza su di lui, promulgò un bando con cui rimetteva il governo nelle mani del viceré. Ormai nessun ostacolo si frapponeva più all'infierire della reazione: la stessa sera del 21 si formarono due colonne di plebaglia e pescatori (il viceré sin dal primo sorgere della rivolta aveva speso grosse somme per procurarsi aderenti fra il popolo), che, capeggiate da parecchi nobili rientrati in città, si diressero nel quartiere dei consarioti, dove catturarono e decapitarono l'A., insieme con il fratello Francesco e alcuni altri compagni.
Politicamente assai sprovveduto, l'audace capopopolo si dimostrò assai presto del tutto incapace di governare la città e tanto meno ilresto del paese, che non pensò mai di chiamare a raccolta sulla base di una seria prospettiva di rinnovamento politico. In definitiva la mancanza di un'efficace direzione politica rifletteva la profonda immaturità del movimento popolare, la forza degli interessi settoriali e particolaristici che lo dividevano. L'intrinseca debolezza del movimento costrinse così l'A. al tentativo irrealizzabile di salvare le conquiste popolati proprio con l'appoggio dei suoi irriducibili nemici. Il tentativo di arrivare a una sorta di governo misto, basato sulla stretta collaborazione tra popolo, nobili e viceré, era destinato, nella Sicilia del sec. XVII, a fallire miseramente.
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