DAVANZATI, Giuseppe Antonio
Nacque il 29 ag. 1665 a Bari da Lorenzo, patrizio fiorentino, e da Eugenia Celia, nobile originaria di Atene.
I Davanzati costituivano un potente gruppo familiare nel patriziato di Firenze, dove parecchi di loro avevano ricoperto cariche pubbliche. In conseguenza delle lotte politiche cittadine un avo di Lorenzo, aveva lasciato Firenze per stabilirsi a Napoli. Questo ramo napoletano non troncò mai i rapporti con il ceppo originario di Firenze, dove possedeva ancora la maggior parte dei suoi beni. Il D., ultimo di quattro figli, fu destinato alla carriera ecclesiastica; Niccolò, il secondogenito, ritornò a Firenze e, essendo il primogenito Giuliano morto in tenera età si occupò dei beni che la famiglia vi possedeva. Quando Niccolò mori a sua volta senza figli, il D. ereditò tutta la fortuna familiare. Una sorella, Agata, sposò Domenico Forges, nobile di origine francese. I loro discendenti formarono la famiglia Forges Davanzati che si distinse nella vita politica e culturale della Puglia nei secc. XIX e XX.
Il D. studiò nel collegio gesuitico di Bari. Cominciò con la filosofia, ma la madre - dopo la morte del padre avvenuta durante la sua infanzia - lo inviò a 15 anni a studiare diritto e teologia all'università di Napoli. Tre anni più tardi, dopo la morte della madre, iniziò a viaggiare, secondo una caratteristica dei giovani intellettuali dell'aristocrazia del tempo. Per suo conto il D. vi aggiunse una curiosità e apertura mentale fuori del comune. Attirato dalle matematiche e dalle scienze fisiche, che ancora non si insegnavano a Napoli, si trasferì a Bologna, dove soggiornò a lungo, con l'intermezzo di una sosta a Firenze, dopo la morte del fratello Niccolò, per riprendervi in mano gli affari di famiglia. Visitò in seguito gli Stati pontifici, la Toscana e la Repubblica di Venezia, quindi si recò a Parigi, passando per Milano, Torino e Ginevra, e di là fece un pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Ne approfittò per visitare la Spagna e il Portogallo, prima di ritornare a Parigi "essendo molto imamorato delle maniere e de' costumi de' Francesi". A Parigi restò per molti anni, frequentando l'università e i circoli letterari. Ritornò in Italia, passando per le Fiandre, i Paesi Bassi, la Germania e Ginevra, ma appena ricevette il denaro della eredità ripartì per Parigi, con l'intenzione di raggiungere l'Inghilterra per conoscervi lo scienziato più celebre della sua epoca, Isaac Newton. Il progetto fallì e il D. rientrò in Italia, attraversando di nuovo le Fiandre, i Paesi Bassi e la Germania. Quest'ultimo viaggio concluse il periodo della sua formazione, cosicché poté conseguire a Roma il dottorato in teologia alla Sapienza il 10luglio 1692. Poco tempo dopo ottenne la carica di tesoriere della chiesa di S. Nicola di Bari e il 20 dic. 1692 fu ordinato sacerdote nella chiesa di S. Vitale di Pozzuoli. Nel corso dei suoi viaggi aveva conosciuto Francesco Redi e Ludovico Antonio Muratori in Italia, il teologo Jean Leclerc a Ginevra, il medico e botanico Joseph Pitton de Tournefort a Parigi, per il quale sembra avere avuto una grande ammirazione ("dottissimo, verace, saggio, prudente e spregiudicatissimo d'ogni superstiziosa credulità, e l'ornamento più glorioso dell'Accademia Reale dell'Arti e delle Scienze della real città di Parigi") e Pierre Bayle a Rotterdam.
In occasione di un conflitto che l'oppose al priore di S. Nicola di Bari, venne a Roma per giustificarsi davanti al papa Clemente XI dalle accuse mosse contro di lui. Nel corso di questo soggiorno romano fece la conoscenza del cardinale Prospero Lambertini, il futuro Benedetto XIV, e fu introdotto negli ambienti della Curia. Per questa ragione nel 1713 venne nominato legato pontificio straordinario a Vienna, incaricato di trovare un compromesso tra il Papato e l'imperatore Carlo VI, re di Napoli, sulla controversia dell'interdetto di Lecce. Durante il soggiorno viennese entrò in rapporto con Leibniz, come attesta la corrispondenza che scambiarono successivamente. La riuscita della missione diplomatica gli valse la simpatia dell'imperatore che, per riconoscenza, lo nominò arcivescovo di Trani e gli fece dono di 10.000 fiorini, mentre Clemente XI gli concesse le rendite della chiesa romana di S. Maria della Vittoria (600 scudi annui) e il 22 nov. 1717 lo elesse arcivescovo di Trani. Nell'ottobre del 1718 fu fatto cavaliere di Malta e un mese dopo conservatore dei privilegi dell'Ordine presso la provincia di Trani.
La sede vescovile di Trani era vacante da otto anni, dopo la morte dell'arcivescovo Pietro de Torres nell'ottobre del 1709. Il nuovo eletto trovò dunque una situazione amministrativa e patrimoniale precaria.
Il Processus Datariae steso all'atto della sua intronizzazione segnala che il palazzo vescovile era in rovina e doveva essere ricostruito. La sacrestia era "provista scarsamente di paramenti tanto per il clero, quanto per l'arcivescovo per esercitare li Pontificali". La sua prima cura fu quindi la ricostituzione del patrimonio mobiliare e immobiliare della chiesa. Nelle due visite ad limina che ci sono pervenute, il D. sottolineò che fece riparare il palazzo vescovile a sue spese e che fornì la chiesa di nuovi ornamenti di culto. Alla sua morte, il Processus Datariae redatto nel febbraio del 1755, in occasione dell'investitura del suo successore Domenico Cavalcanti, conferma il buono stato materiale della diocesi.
Per contro, sul piano della disciplina ecclesiastica questo vescovo novatore e illuminato urtò contro le difficoltà politiche e culturali tipiche dell'Italia meridionale. Sin dalle sue prime visite pastorali, condannò le devozioni che giudicava superstiziose e dovette fronteggiare una vera e propria rivolta del clero locale. Denunciato a Roma, vi fu convocato per giustificarsi davanti al papa. Benedetto XIII lo fece attendere un anno prima di riceverlo. Accolse le ragioni del suo vescovo con apparente benevolenza, ma di ritorno a Trani il D. cambiò atteggiamento. Mise ora l'accento sulla formazione del clero, ma, ostile ai seminari nei quali credeva che "la gioventù fosse più esposta ad apprendere il male che il bene", fondò una scuola pubblica, nel suo palazzo vescovile. Fu un cocente fallimento e dovette chiuderla rapidamente. Non creò però il seminario. Si può giudicare dell'ampiezza delle opposizioni che egli incontrò anche alla luce di un precedente conflitto che lo oppose allo strapotere dei francescani della sua diocesi.
Uno di loro, il p. Maulano, fu sospettato di tenere un comportamento ereticale nella confessione. Il D. fece aprire un'inchiesta e lo fece arrestare. Ma i minori conventuali ottennero che il Maulano fosse dichiarato pazzo e rinchiuso nel convento di Gravina, quindi si rivoltarono contro il vescovo che accusarono di volere ristabilire pratiche inquisitoriali. Il D. fu così chiamato a giustificarsi davanti al viceré Daun.
Anche se dette l'esempio risiedendo regolarmente nella diocesi, il D. dovette frenare. le sue ambizioni riformatrici a confronto con la realtà religiosa e politica del Mezzogiorno. Occupò gli ultimi anni della sua vita a scrivere alcune opere pervenuteci solo in parte. Nel 1742 indirizzò al suo amico Benedetto XIV una Lettera sopra la riforma delle feste. Giudicando il loro numero troppo elevato, riprese il progetto di Juan Caramuel, vescovo di Campagna e Satriano dal 1657 al 1673, di mantenere come feste di precetto solo le domeniche, le festività principali del Cristo (Natale, Circoncisione, Epifania, Purificazione, Pasqua, Pentecoste, Ascensione, Corpus Domini) e una per la Vergine, S. Giovanni Battista e i SS. Pietro e Paolo.
Voleva che tutte le altre feste degli apostoli e dei santi cadessero di domenica. Oppure proponeva di rispettare le feste già ricordate rigorosamente e contentarsi per tutte le altre di una messa obbligatoria che lasciasse a ciascuno la possibilità di lavorare. Per giustificare questa riforma del calendario liturgico, avanzò due considerazioni di ordine morale: le feste di precetto erano per "il popol. o basso" solo un'occasione per frequentare le taverne, ubriacarsi, bestemmiare e battersi. Tanto valeva allora farlo assistere alla messa il mattino, fargli recitare il rosario e rimandarlo a lavorare. Se fossero state meno numerose, le feste di precetto sarebbero state meglio osservate e in modo più solenne. Sul piano economico si preoccupava della perdita di guadagno che la moltiplicazione dei giorni di festa comportava. Ricordava l'esempio di Vienna, dove le feste degli Innocenti, di S. Silvestro e di S. Anna erano state soppresse, mentre in Puglia il mese di dicembre, così importante per l'agricoltura locale, era preso per metà dalle feste. Il risultato era che il vescovo doveva distribuire elemosine ad una popolazione temporancamente priva di risorse. La posizione del D. fu dunque di rottura con il movimento per la moltiplicazione delle feste, soprattutto patronali, che fu una caratteristica del cattolicesimo controriformistico. Essa rappresentò un'eco interessante nell'Italia meridionale della polemica, iniziata nel sec. XVIII, contro la festa popolare corruttrice dei costumi e nefasta per l'economia.
Nel 1738 aveva scritto una Dissertazione sulle comete, che si è perduta, come un'altra Dissertazione sulla tarantola in Puglia, dedicata a Clelia del Grillo, contessa Borromeo Arese e scritta nel 1740 per invito dell'amico Celestino Galiani. Nel 1739 scrisse una Dissertazione sopra i vampiri, che circolò manoscritta durante la sua vita. Ne mandò nel 1743 una copia a Benedetto XIV che l'apprezzò molto. Ma il testo fu, pubblicato per la prima volta solo nel 1774 dal nipote Domenico Forges Davanzati.
Niente di nuovo vi si apprende su questa credenza che fu la grande paura dei popoli dell'Europa centrale tra la fine del XVII e l'inizio del XVIII secolo. Il libro offre però una testimonianza originale della reazione intellettuale di un prelato italiano aperto alle discussioni scientifiche dell'epoca. Quando il cardinale Wolfgang Schrattenbach vescovo di Olmütz gli descrisse i vampiri e i misfatti che commettevano nel suo paese, il D. si mostrò scettico. La lettura della gazzetta di Vienna, che informava abbondantemente sulle storie dei vampiri, lo fece ritornare però sui suoi passi. Consultò allora gli autori antichi e moderni per convincersi della "certezza storica de' vampiri", che egli accostò agli spiriti, fantasmi e altri revenants più familiari alla cultura italiana. Decise di spiegare la questione secondo i criteri della ragione. Non era convinto dalle teorie dei filosofi antichi e neanche da quelle dei filosofi contemporanei. Le categorie della scolastica si mostravano inadeguate: l'esistenza dei vampiri non era il frutto di un intervento soprannaturale e miracoloso, né di un'illusione diabolica. Erano "puri effetti naturali". I vampiri esistevano, visto che la gente credeva alla loro esistenza e pretendeva di subirne i misfatti; ma la causa di questa credenza doveva essere cercata semplicemente nell'immaginazione degli uomini: "la nostra sola fantasia è l'unica ragione di tutte le strane e meravigliose apparenze di tanti spettri o fantasmi d'uomini morti". Tutta la sua dimostrazione giungeva a negare la realtà dei vampiri, ma anche di tutte le "insolite apparizioni di fantasmi, d'ombre, di larve, di monaci e monacelle". là un atteggiamento nuovo in un uomo di Chiesa, che si affiancava così alle posizioni dei filosofi e giuristi napoletani che cinquant'anni prima avevano chiesto la soppressione del S. Uffizio a Napoli. Il D. dimostrava una cultura vasta e spregiudicata, perché non esitò a sostenere le sue argomentazioni con il ricorso a filosofi come Galilei e Cartesio. Ma restava anzitutto uomo di Chiesa con tutte le ambiguità connesse. Così, se negava l'esistenza dei diavoli, incubi e succubi come "cosa assurda scandalosa", ammetteva poi la potenza del demonio, anche se aggiungeva "cum pundere et mensura et cum grano salis". Non credeva all'efficacia delle streghe e'della fattura, ma consigliava ai genitori "per maggior cautela" di proteggere i loro bambini "con reliquie de' santi e cose sacre". Consigliava di allontanare dai loro piccoli le vecchie laide e deformi dagli occhi cisposi che potevano trasmettere "spiriti velenosi e maligni". Quando attribuiva all'immaginazione umana la paura dei vampiri e degli spettri, non si nascondeva che la stessa spiegazione poteva essere affacciata per i miracoli dei santi. Respingeva queste ipotesi con una dichiarazione di fede ortodossa: se i testimoni erano degni di fede e dotati di virtù morali cristiane, i miracoli dovevano esser considerati realtà e non effetto dell'immaginazione. Per tentare infine di spiegare le qualità straordinarie attribuite al corpo dei vampiri - gli occhi che si aprivano, il sangue abbondante che colava se trafitti - riesumò tutto l'immaginario affastellato dall'Occidente medievale e moderno sulla sopravvivenza dei corpi dopo la morte.
Questa volontà di conciliare Cattolicesimo e ragione, o piuttosto di mettere la ragione al servizio della religione, accomuna il suo tentativo con quello di Prospero Lambertini che cercò nel De Servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione di giustificare e codificare, spesso con accenti scientisti, il soprannaturale della santità. Lo stesso Benedetto XIV pensò sicuramente di promuovere il D. al cardinalato, e se non lo fece, gli attribuì tuttavia il 2ag. 1746 il titolo patriarcale di Alessandria. Nel 1750 il D. fu accolto nel patriziato di Trani con l'aggregazione al seggio nobile di S. Marco.
Il D. morì a Trani il 16 febbr. 1755.
Fonti e Bibl.: La fonte più importante per la conoscenza del D. è la Dissertazione sopra i vampiri di Giuseppe Davanzati, patrizio fiorentino e tranese, cavaliere gerosolimitano, arcivescovo di Trani, e Patriarca di Alessandria, Napoli 1774. Questo libro conobbe una seconda edizione nel 1789. È una pubblicazione postuma, a cura del nipote dell'autore, l'abate Domenico Forges Davanzati. Vi si legge una biografia dell'autore scritta da suo nipote, la Dissertazione propriamente detta, preceduta da una lettera - prefazione di Pietro Metastasio, scritta da Vienna nel 1774, la Lettera sopra la riforma delle feste, datata 1742 e seguita dalla risposta di Benedetto XIV, anch'essa del 1742. Per dei riferimenti bibliografici complementari, si possono consultare, nell'Arch. Segreto Vaticano, la serie dei Processus Datariae, vol. 94 (1717), ff. 103 e ss.; 132 (1755), ff. 85 e ss. Cfr. anche le sue visite ad limina (del 1735 e 1747) conservate presso l'Archivio Segreto Vaticano, Visite ad limina, Trani, 809-A. Salvo errore, solo la corrispondenza del D. con Gottfried Leibniz è stata conservata nella Niedersáchsische Landesbibliotek di Hannover: due lettere di Leibniz del M3 e M4 euria lettera del D. del 1714.