PIANCA, Giuseppe Antonio
PIANCA, Giuseppe Antonio. – Nacque il 21 gennaio 1703 ad Agnona, in Valsesia, da Giovanni Giacomo e da Giacomina Lirella; gli venne imposto il nome di un fratello maggiore morto neonato.
Si formò nell’ambito della tradizione valsesiana, all’ombra della fabbrica del Sacro Monte di Varallo, con nello sguardo la pittura del fiammingo Giovanni Antonio De Groot e alcuni dipinti lombardi di recente arrivo (Paolo Cazzaniga, Cristoforo Giussani, Antonio Lucini, Pietro Maggi). A lasciare la valle lo indusse una spinosa vicenda ben ricostruita attraverso i documenti (Bossi, 1986 e 1990); nel 1721, il 24 agosto, lo si accusò, presso il Pretorio di Varallo, di aver messo incinta Maria Maddalena Sceti e di essere fuggito a Milano; la vertenza si trascinò per anni, sino a quando, il 23 agosto 1726, non avendo sposato Maddalena «conforme al promesso» (Dell’Omo, 2013, pp. 322 s.), venne arrestato nella casa di Agnona, tradotto nelle carceri di Varallo, prigioniero sino al 26 dicembre.
A Milano, dal 1721, Pianca si immerse in un fervido studio della drammatica eredità seicentesca, preso da ammirazione per protagonisti della stagione borromea (in particolare il Morazzone e Francesco Cairo) e attratto dalle narrazioni, cupe ma eloquenti, di Filippo Abbiati e dall’interpretazione dei temi barocchi offerta dalla generazione ancora attiva a raccontare ‘storie dipinte’ nei cantieri lombardi. Proprio per un ciclo per la chiesa dei Ss. Bernardo e Biagio dei Disciplini di S. Marta a Milano eseguì la perduta Maddalena in casa del Fariseo (Latuada, 1737). Dopo un avvio segnato da nostalgie e citazioni, da una immedesimazione nelle passioni del secolo appena trascorso e in realtà ancora pulsante per i temi accorati, la riflessione allargata al passaggio di Sebastiano Ricci e alle presenze ‘foreste’ in città, e soprattutto l’incontro folgorante con Alessandro Magnasco (il Lissandrino) liberarono la sua vena espressiva e lo orientarono a uno stile di vivace autonomia: radicali sprezzature delle vesti, una pennellata densa, mossa e avvolgente collegata alla fermentante maniera genovese e alle esercitazioni su testi di Valerio Castello e dei Piola (Orlando, 2001). È tale caratteristica che Roberto Longhi (in una comunicazione orale) ravvisò negli Eremiti del Museo civico di Novara già riferiti al Lissandrino (Viglio, 1920), promuovendo una considerazione critica di Pianca, fino allora noto per le citazioni di eruditi locali (De Gregory, 1824; Bianchini, 1828; Lana, 1840), e aprendo ricerche volte a precisarne il catalogo (Gabrielli, 1932; Debiaggi, 1958-59; Rosci, 1962).
Con spirito nuovo e con animo antico, in accordo con il clima della chiesa ambrosiana, Pianca si impegnò a raffigurare immagini di devozione: Vergini con Bambini pallidi e tremanti, memori di traumi infantili; Immacolate in cieli rannuvolati; Sacre Famiglie negli stenti; Compianti su rocce spigolose e lenzuola logore; meditazioni disperanti di santi e sante. Spettrali testimoni di penitenza: Francesco e Carlo Borromeo, Filippo Neri e Francesco di Sales, Francesco Saverio; e per converso attrici da tragedia antica: la Maddalena penitente e le martiri Caterina, Cecilia, Barbara, Lucia. Iconografie spesso ossequienti alle invenzioni a stampa ma ribollenti e allucinate, colte in una stravolta anatomia della coscienza.
Nel 1742 Pianca venne censito nella casa paterna di Agnona: «pictor insignis» sposato con «Joanna Nicola filia Petri Tribò Parisiensis»; e con «Giovanna Tribau», la moglie francese di trent’anni, lo si registrò presso la casa del Dazio Grande n. 41, in zona Duomo (Dell’Omo, 2013, pp. 324 s.). Nell’estate dello stesso anno eseguì degli affreschi a Cremona, lo sappiamo da una lettera del 16 ottobre inviata al conte Giuseppe Girolamo Tornielli di Vergano (ibid., p. 325). Decorò con Storie della nascita di Mosè e Allegorie delle Virtù lo scalone di palazzo Visconti guardando a modelli di Nicolas Poussin e di Simon Vouet (incisi da Michel Dorigny); sempre per la stessa famiglia lavorò in seguito ad altri affreschi nella villa-castello di Campagnola a Corte de’ Cortesi (Ferro, 2013, p. 191, nn. 179-181).
I cicli cremonesi dichiarano una conoscenza della cultura francese, che traspare in varie opere: una Betsabea al bagno, nel castello d’Aulteribe a Sermentizon in Alvernia (segnalata da Alberto Crispo, comunicazione orale), ispirata a Charles-André van Loo; un Mosè salvato dalle acque (Ferro, 2013, p. 164, n. 70), una serie dispersa di Stagioni (ibid., pp. 191 s., n. 182), alcune scene allegoriche La notte degli amanti e La musica e il vino (ibid., p. 192, nn. 183-184), figure della Fede e della Vita (ibid., nn. 185-186) e ancora episodi di miti classici e poemi cavallereschi. Vicine sembrano essere altresì le sovrapporte in palazzo Busseti a Tortona. Le imprese profane si mescolano con disinvoltura all’Osservanza riformata: sia a Cremona sia a Tortona, Pianca lavorò per i cappuccini, ritratti di personaggi dell’Ordine a Cremona e un S. Francesco in preghiera a Tortona (convento dei padri cappuccini). Del resto, l’attrazione non è solo per le eleganze rocaille, ma anche per la poetica visionaria di Louis Cretey. Un’accesa visione spirituale rivelano la Consacrazione angelica del santuario di Einsiedeln e il Martirio di s. Meinrado nella chiesa della Madonna Nera di Einsiedeln a Rogaro di Tremezzo (Como; cfr. Mara, 2015).
Dal 1744 il pittore abitò a Novara. La città, già occupata nel 1706 dai Savoia in nome dell’Austria, era appena passata, nel 1743, al re di Sardegna ora alleato della Francia. Il trasferimento da Milano, dove peraltro la residenza del 1742 risultava precaria, venne forse favorito dai Tornielli: il pittore e la moglie presero casa nella parrocchia dei Ss. Giovanni e Paolo, presso il palazzo dell’aristocratica e influente famiglia. Si aprirono anni di particolare felicità, tanto da farlo ricordare come il Pianca novarese.
Il 1745 fu cruciale, Pianca firmò e datò due capolavori: l’Assunzione della Vergine nella parrocchiale di Ghemme; e il Martirio di s. Leucio in S. Eufemia a Novara. Dipinse anche il Transito di s. Giuseppe, già Novara coll. Cassani (Ferro, 2013, p. 171, p. 89). Una stagione di geniali intuizioni, nodo dell’intero percorso.
All’Assunzione, vero trionfo alla veneta reso corposo dall’emulazione con Pieter Paul Rubens e immerso in un cielo di temporale, si affianca il Martirio di Novara, raffigurazione di un fatto di cronaca nera, un assassinio nel bosco che, pur richiamando il modello tizianesco, anticipa le efferatezze dei romantici francesi e di Théodore Géricault (Testori, 1962).
Ma neppure quest’anno di felicità creativa trascorse senza amarezze, le milizie piemontesi gli invasero la casa il 19 dicembre 1745. Un vibrante S. Gaudenzio (Novara, cattedrale) e il ritratto di Giovane Canonico (identificabile forse nell’inventario della casa pubblicato da Sergio Monferrini, in Ferro, 2013, pp. 331-336) attestano un’officina di sfavillante lucidità. Pianca continuava a meditare su Genova, ma nella sua ricerca ‘materica’ guardò altresì alle novità venete, subì il fascino di Giambattista Tiepolo e di Giambattista Pittoni. Registrò inoltre il fiorire del barocchetto in aree che si andavano adeguando al gusto dei Savoia (Valsesia, Cusio, Ossola); e tuttavia, a fronte di una pittura leggera e aerea volta a cogliere l’attimo fuggente, oppose il suo disincanto, le luci sulfuree, gli impasti verdastri, una materia tramata di minacce e di angosce.
D’improvviso s’addensarono buie nubi. La moglie Joanna Nicola morì d’improvviso nella casa novarese, il 7 marzo 1748. L’evento sconvolse una vita già tormentata, alla malinconia si aggiunsero difficoltà quotidiane: la Pazienza di Giobbe per i canonici del Duomo di Novara (tuttora in cattedrale, capitolo di S. Maria) svela un’acuta sofferenza. Fece ritorno a Milano lasciando debiti. Da questo momento le scarne voci del ‘regesto’ lo rivelano presente nella capitale lombarda che, con ogni verosimiglianza, non abbandonò più se non per temporanee trasferte. I rapporti con la famiglia di origine rimasero tesi e tra il 1757 e il 1759 si definì la separazione. In ogni modo, Pianca mantenne relazioni e committenze in Valsesia. Intorno al 1749 eseguì, per la chiesa di Agnona, la tela con il Miracolo di s. Antonio. Ancora al paese natio, nell’ottobre 1755, inviò da Milano, la pala con S. Carlo che comunica i malati di peste, autentico capolavoro (Agnona, parrocchiale); e vicine sono due palette, ora nella Pinacoteca Malaspina di Pavia, con I genitori della Vergine e La Sacra Famiglia. Nel 1756 eseguì l’Orazione nell’Orto del Getsemani e la Flagellazione per la chiesa di Galbiate (Lecco).
Fedeltà ai modelli rubensiani e vandyckiani e persistenza degli scambi con Genova: una scelta stilistica che impronta varie composizioni coeve, una fase dai confini cronologici peraltro fluttuanti. Eroi di peste, quali Rocco e Sebastiano, e Battista adolescenti immersi nella paura dei boschi: Natività e Adorazioni di pastori e di Magi (Ferro, 2013, pp. 184-189, nn. 150-153, 155-156, 171-177), dove il mistero della nascita è calato in stalle di miseria, nell’afrore degli armenti e i re del favoloso Oriente si inginocchiano sugli sterpi e nel fango; Riposi in Egitto (pp. 183 s., n. 148) lungo sentieri poco ospitali; un ‘trittico’ in una nobile dimora lombarda (pp. 187 s., nn. 167-169) con al centro la Maddalena che abbraccia la Croce mentre infuria la bufera; alcuni dipinti di gloria e Passione di Gesù in zona casalasca (Bocchi, 2003), testimoni dell’area di vasto respiro in cui il pittore si muove e opera.
Intorno al 1757 Pianca realizzò un’altra impresa in Valsesia: i due quadroni di Rima San Giuseppe (parrocchiale di S. Giuseppe), la Madonna in gloria con i genitori e gli arcangeli e la Pietà. Le pale valsesiane, a partire dal ricordo dell’epopea carliana sino a questi ‘inni sacri’, si animano in un commosso tono di elegia, presentimento del tramonto di un’esistenza e di un’epoca. Del 1760 (ne dà notizia una Cronichetta, cfr. Dell’Omo, 2013, pp. 328 s.) sono invece le tele per la chiesa e il convento cappuccino di Pescarenico, che furono donate da padre Pompeo da Oggiono: sette dipinti, raffiguranti i quattro Dottori della Chiesa latina e due sante (Margherita da Cortona e Caterina da Bologna), e la pala con l’Immacolata.
Infine, nel 1762, fra Molino Bonaventura, dei minori osservanti, con una lettera inviata dal convento del Giardino in Milano il 26 febbraio (Dell’Omo, 2013, p. 329), si diceva in grado di inviare a Mollia in Valsesia cinque quadri in ovale: della serie rimangono il S. Giuseppe con il Bambino, superstite nella parrochiale di Mollia, l’Immacolata ora a Campertogno, e forse un S. Giovanni Battista approdato a Puria di Valsolda (Ferro, 2013, p. 201, nn. 212-214).
È l’ultima notizia che abbiamo. Segni estremi di un maestro che, dopo aver resistito alla moda del rococò, sciogliendo le tenebre manieristiche e barocche in esaltazioni protoromantiche, appare perplesso di fronte ai purismi emergenti. In particolare la pittura di destinazione sacra testimonia la sua crisi, partecipe di un destino che accomuna la Lombardia alla Spagna dell’ultimo Tiepolo e di Goya.
Morì, probabilmente a Milano, qualche anno dopo il 1762.
Tuttavia, oltre alle opere ricordate, che costituiscono la trama del catalogo (Ferro, 2013) messo a punto (ora di oltre 250 opere rispetto alle 60 contemplate nella rassegna del 1962) e del regesto, Pianca fu pittore di ritratti, di paesaggi e di nature morte. Già nel 1962 Rosci sottolineava gli scorci di paese nel Martirio del 1745 e nella Pazienza di Giobbe; e subito Testori (1963 e 1967) ritrovava coppie di paesaggi con pastori e armenti. Dall’iniziale lezione di De Groot, documentato a Varallo, Pianca sviluppò la concezione dei suoi ‘paesi’ a Milano, nella cerchia della ‘pittura barona’ di Magnasco e di Clemente Spera; e forse, scomparso Antonio Francesco Peruzzini, Pianca collaborò con il Lissandrino eseguendo fondi di architetture e paesaggi. Accolse quindi emozioni d’Arcadia, guardando a Francesco Zuccarelli e ai pittori graditi al collezionismo raffinato, aggiornandosi sulle eleganze francesi. Una sincera vocazione decorativa anima le sovrapporte di palazzo Bellini a Novara con marine di fantasia e scene classiche (Debiaggi, 1990). Pittore ‘arcade’, si fece ben presto interprete di verità crude e delle domande smarrite di un mondo di poveri e vagabondi: ‘paesi’ dove si raccontano fatiche e riposi di pastori e dove gli animali sono ritratti con la cura riservata agli uomini. Come i prediletti fiamminghi, studiati nel taccuino di Nicolaes Berchem inciso da Jan de Visscher, e nella tradizione grafica della valle natia, il nostro amava disegnare dal vero e lo provano le sanguigne con studio di agnello e contadine e lavandaie rese note da Giovanni Testori (1964). Ricorrenti divennero, metamorfiche presenze, le immagini di una archeologia fantastica e le citazioni delle atmosfere di Giovanni Battista Piranesi: natura e storia contemplate nei loro turbinosi cicli e ritorni, in selve di vichiana suggestione.
Oltre ad acquisire rinomanza per i ‘paesi’, riconosciutagli dal conte bergamasco Giacomo Carrara (1796; cfr. Pinetti, 1998-99), Pianca fu pittore di ritratti e di nature morte. Esemplare è il Giovane canonico della collezione genovese Nigro, riferitogli dal Longhi (Ferro, 2013, p. 204, n. 216): il confronto, prima che con Fra Galgario e Giacomo Ceruti, è ancora con Magnasco. Precedente appare comunque il Ritratto del vescovo Benedetto Erba Odescalchi da un modello di Antonio Lucini (Testori, 1975; Ferro, 2013, pp. 203 s., n. 215). Un’attività di rilievo, già De Gregory (1824, p. 384) e Lana (1840, p. 304) parlano di «molti ritratti al vivo», come quelli visti e ricordati da Testori (1967b, pp. 41 s., 64). Una stima confermata dalla commissione, da parte del conte Tornielli di Vergano, di un «Ritratto in piedi di S.M. il Re di Sardegna»: ne è notizia in una lettera del 1742 (Dell’Omo, 2013, p. 325). Due ritratti di popolane (per le immagini v. Bologna, Fototeca della Fondazione Federico Zeri, nn. 71611-71612) e il Pitocco già Parigi Canesso (Ferro, 2013, p. 205, n. 217) mostrano la viva adesione all’universo degli umili come per Ceruti, confermata da un presumibile Autoritratto (p. 205, n. 218). Il richiamo a «lo stupendo mazzo di fiori sul sepolcro della Vergine» nell’Assunzione di Ghemme (Rosci, 1962, p. 37) portò a ritrovare una produzione di nature morte. Testori rese nota la Pentola di rame con cavolo (esposta a Torino da Andreina Griseri: cfr. Griseri, 1963, p. 198); nel 1964 Mina Gregori segnalò, in occasione della mostra La natura morta italiana (Napoli, 1964), due dipinti con pentole di rame e Carlo Volpe giudicò il nostro maestro nel «genere», «di forte tempra e di spiccatissima originalità» (1964, pp. 97 s.), valutazione condivisa da Testori (1964), che lo accostò a Ceruti e ad Arcangelo Resani, e da Luigi Salerno (1984). Interni di cucine con utensili di rame e cibi poveri, immancabili i cavoli: un’aderenza alle cose di rara pregnanza, «una visione che si apparenta con evidenza a quella dei grandi pittori lombardi della realtà suoi contemporanei (come Giacomo Ceruti)» (La seduzione della natura, 2000, p. 108).
Artista inquieto, «genio di natura temporalesca», autentico «lombardo in rivolta» nell’accezione di Dante Isella (I Lombardi in rivolta, Torino 1984), eccellente, con Testori tra i suoi estimatori, diviso tra un attaccamento morboso per le passioni antiche e proiettato d’altro canto con sorprendente modernità nel futuro delle visioni europee, Pianca si confrontò con la moda del tempo, offrì del barocchetto una versione amara e, anziché accogliere soluzioni illuministiche, liberò intuizioni di acceso romanticismo: seguendo sempre in modo rigoroso il filo rosso della cultura lombarda.
Fonti e Bibl.: S. Latuada, Descrizione di Milano ornata con molti disegni in rame…, I, Milano 1737, pp. 186 s.; G.A. De Gregory, Istoria della vercellese letteratura ed arti, IV, Torino 1824, p. 384.; F.A. Bianchini, Le cose rimarchevoli della città di Novara, Novara 1828, p. 52.; G. Lana, Guida ad una gita entro la Vallesesia…, Novara 1840, p. 304.; A. Viglio, I quattro Magnasco del nostro Museo Civico, in Bollettino storico per la provincia di Novara, XIV (1920), pp. 79-85; N. Gabrielli, in U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXVI, Leipzig 1932, p. 562; C. Debiaggi, G.A. P.: pittore valsesiano, in Bollettino della Società piemontese di archeologia e belle arti, n.s., 1958-59, nn. 12-13, pp. 158-164; M. Rosci, G.A. P., Varallo 1962; G. Testori, Elogio dell’arte novarese, Novara 1962, p. 35; A. Griseri, Pittura, in Mostra del Barocco piemontese (catal.), a cura di V. Viale, II, Torino 1963, pp. 14, 98 s.; G. Testori, Una ‘Natura morta’ e due ‘Paesaggi’ del P., in Paragone, XIV (1963), 157, pp. 53-57; Id., Palinsesto valsesiano, Milano 1964, pp. 41, 83.; C. Volpe, in La natura morta italiana (catal., Napoli-Zurigo-Rotterdam 1964-65), a cura di S. Bottari, Milano 1964, pp. 15, 22, 97 s.; G. Testori, Quattro paesaggi del P., in Paragone, XVIII (1967a), 205, pp. 87 s.; Id., in Giacomo Ceruti e la ritrattistica del suo tempo nell’Italia settentrionale (catal.), a cura di L. Mallé - G. Testori, Torino 1967b; A. Baudi di Vesme, Schede Vesme, III, Torino 1968, p. 829; C. Debiaggi, P. G.A., in Dizionario degli artisti valsesiani dal secolo XIV al XX, Varallo Sesia 1968, pp. 136 s.; F.M. Ferro, Inediti del P., in Paragone, XXVI (1975), 303, pp. 55-64; M. Gregori, Ancora sul P., ibid., pp. 66 ss.; G. Testori, Un ritratto del P. e uno del Ceruti, ibid., pp. 482 ss.; R. Romussi, Contributo alla conoscenza di G.A. P. pittore valsesiano del 700, in Bollettino storico per la Provincia di Novara, LXXIII (1982), 2, pp. 282 ss.; L. Salerno, La natura morta italiana 1560-1805, Roma 1984, p. 369; A. Bossi, Alcune notizie sul pittore G.A. P., in Bollettino storico vercellese, XV (1986), pp. 55-64; Id., Le vicende giovanili del pittore G.A. P., in de Valle Sicida, I (1990), 1, pp. 133-161; C. Debiaggi, I soprapporta di G.A. P. nel palazzo già Bellini in Novara sede e proprietà della Banca Popolare di Novara, Novara 1990; G. Testori, La realtà della pittura, a cura di P.C. Marani, Milano 1995, pp. 476-484; A. Pinetti, Il conte Giacomo Carrara e la sua Galleria secondo il catalogo del 1796 (1992), in Atti dell’Ateneo di scienze lettere ed arti di Bergamo, 1998-99, vol. 62, p. 156; La seduzione della natura. Natura morta in Piemonte nel ’600 e ’700 (catal.), a cura di A. Cottino, Torino 2000, p. 108; A. Orlando, Genova e il collezionismo nel Novecento. Studi nel centenario di Angelo Costa (1901-1976), a cura di A. Orlando, Torino-Londra 2001, pp. 154, 174, 176 s., 179; U. Bocchi, Documenti d’arte nel Casalasco-Viadanese, Viadana 2003, pp. 131-136; F.M. Ferro, L’Arcadia amara del P., in Paragone, LVI (2005), 59, pp. 42-58, tavv. 38-56; Id., ‘Arcadia picta’, in Lo sguardo sulla natura. Luce e paesaggio da Lorrain a Turner (catal., Milano), a cura di P. Biscottini - E. Bianchi, Cinisello Balsamo 2008, pp. 49-55; Id., G.A. P. pittore valsesiano del ’700, Soncino 2013 (con bibl. precedente); M. Dell’Omo, (Regesto), ibid., pp. 321- 329; S. Mara, Consacrazione angelica del santuario di Einsiedeln, scheda VI.5, in Pane e vino. Tracce del Mistero eucaristico nella pittura a Como dal XVI al XVIII secolo (catal.), a cura di E. Bianchi - A. Straffi, Como 2015, pp. 136 s.