AVEZZANA, Giuseppe
Nacque il 19 febbr. 1797 a Chieri (Torino), da Lorenzo e Caterina Molino, e nel 1812 si trasferì con la famiglia a Torino, dove il padre aveva avviato un'attività commerciale. Sebbene per educazione e tradizioni familiari fosse devoto a casa Savoia, preso d'entusiasmo per le imprese napoleoniche, poco più che quindicenne, si arruolò fra gli Ussari ed entrò il 15 giugno 1812come volontario nel IV reggimento della Guardia d'onore imperiale dell'esercito francese con destinazione Strasburgo. Nel dicembre dell'anno successivo la precipitosa ritirata delle forze imperiali portò l'A. in Lorena, dove riportò la frattura di una gamba, trovandosi costretto a riparare prima a Nancy e successivamente a Milano.
Nel 1815 l'A. ritornava a Torino dove il padre gli procurò un posto nell'esercito piemontese col grado di luogotenente. Ma l'indole irrequieta dell'A. e la sua insofferenza alla reazione sabauda lo portarono ad aderire al mondo cospiratorio.
Allo scoppio dei moti, l'11 marzo 1821, l'A., che si trovava in congedo a Torino, raggiunse gli insorti e, divenutone uno dei principali agitatori, riuscì a raccogliere tra studenti ed amici un valido gruppo che, sotto la sua guida, contribuì a tenere in scacco le milizie regie nei pressi di S. Salvario. Costretto alfine a ripiegare, egli si diresse dapprima a Chieri e quindi ad Alessandria, mentre Carlo Alberto assumeva la reggenza del regno. Raccolti volontari veneti e lombardi dell'università di Pavia, l'A. tornava a Torino, dava il nome di "Veliti italiani" al suo manipolo e veniva nominato capitano dal Santarosa (4 aprile). Ma la reazione annientò il movimento e l'A. fu costretto a imbarcarsi a Genova su una nave diretta in Spagna, poco prima che venisse pronunciata la sua condanna a morte dal tribunale di Torino.
Sbarcato a Barcellona, prese parte anche qui con i suoi uomini alla lotta tra le forze costituzionali del col. Riego e quelle conservatrici. Dopo l'invasione della Spagna da parte dell'esercito francese condotto dal duca d'Angoulême, fu costretto alla resa presso Cartagena: posto nell'alternativa di restare prigioniero o abbandonare la Spagna, preferì ancora una volta prendere il mare, diretto verso il nuovo mondo. Sulla fine del '23 si stabilì infatti a New Orleans, dove intraprese una proficua attività commerciale. Ma se gli affari prosperavano procurandogli in breve una apprezzabile agiatezza, il suo spirito intemperante non resse alla prova. Tre anni dopo perciò si trasferì nel Messico, a Pueblo Viejo.
Qui, saputo di un progetto governativo mirante a creare una città e un porto sulla sinistra del Pánuco, l'A. si diede con entusiasmo all'insolita avventura, contribuendo efficacemente a costruire il nuovo centro (Tampico), che nel giro di alcuni anni contava quattromila abitanti. Nel '29 l'A. ne organizzò la difesa contro l'esercito spagnolo, che, agli ordini del gen. G. Barradas, tentava la riconquista del Messico e riuscì a tenere in scacco gli avversari sino all'arrivo delle truppe regolari, riedificando quindi la città che era stata gravemente danneggiata nella lotta.
Dopo la eliminazione del presidente messicano V. Guerrero, ordita con l'inganno dal vice presidente A. Bustamante, l'A. riprese ancora le armi sconfiggendo l'esercito dell'usurpatore a Ciudad Victoria (7 ag. 1832) e poi a San Luis de Potosí, imprese, queste, che gli valsero il comando generale dei Quattro Stati d'Oriente della Repubblica messicana.
Nel maggio del '34 si chiudeva la lunga parentesi messicana e se ne apriva un'altra più densa di attività e rapporti. L'A., recatosi a New York, avuta la notizia di nuovi rivolgimenti nel Messico, si stabilì in quella città, dove aprì una casa di commissioni. A New York l'A. fu accolto nei salotti aperti all'intellettualità romantica e avventuriera della giovane colonia, soprattutto in quello dei ricchi irlandesi Morrogh. Innamoratosi dell'avvenente Maria Morrogh, la sposò ed ebbe da lei sei figli. Morta nel 1850 Maria in un incidente, due anni dopo l'A. sposò la sorella di lei, Fanny, dalla quale ebbe altre due figlie; dopo la nascita della seconda rimase nuovamente vedovo.
Ai primi sintomi di rivolta del '48 non esitò ad imbarcarsi per l'Italia, ove giunse solo il 29 agosto, dopo l'armistizio Salasco. Da questo momento l'A. cercò di farsi accettare nell'esercito piemontese, e il 24 febbr. 1849 fu infatti nominato comandante generale della guardia nazionale di Genova, dopo esserne stato dal 19 gennaio il capo di Stato maggiore.
Nella città ligure l'A. fu uno dei maggiori protagonisti del moto insurrezionale avvenuto tra la fine di marzo e i primi d'aprile in seguito alla voce che, perduta la guerra, in vigore delle clausole armistiziali i forti intorno alla città sarebbero stati affidati all'occupazione austriaca. L'A., adoperatosi dapprima, il 27 marzo, a calmare la folla eccitata raccoltasi al palazzo comunale, si faceva poi interprete della volontà popolare che, alla notizia che il comandante del presidio gen. De Asarta aveva sollecitato l'arrivo della divisione del gen. Alfonso La Marmora, invocava l'armamento della guardia nazionale e la sua partecipazione alla occupazione dei forti. Mentre il 28 la calma sembrava tornata con la consegna di due forti minori alla guardia nazionale, il giorno seguente riprendeva l'eccitazione in seguito alla formazione del ministero De Launay-Pinelli e al ritorno dei deputati dalle sedute agitate del parlamento. Tradizioni municipali, fermenti antimoderati e antipiemontesi, aspirazioni repubblicane confluivano ad accendere la speranza di fare di Genova il punto di raccoglimento delle forze democratiche e delle opposizioni all'armistizio. Il consiglio comunale si costituiva il 29 in comitato di pubblica sicurezza, sia pure con intenti di moderazione: l'A. e il sindaco A. Profumo invitavano la guardia nazionale alla calma, ma la sera stessa si decideva la distribuzione di armi agli scaricatori del porto, mentre il giorno seguente il gen. De Asarta concentrava il presidio nell'arsenale. L'A., insospettito da questo atto e insoddisfatto della moderazione del consiglio comunale, chiedeva che si procrastinasse l'arrivo della divisione La Marmora. Il 31 la cattura del comandante di un battaglione di presidio al palazzo ducale da parte di un gruppo di dimostranti faceva precipitare la situazione: un triumvirato, designato dal popolo e composto dell'A., del deputato C. Reta e dell'avv. D. Morchio, si poneva alla testa del movimento. In realtà, il Reta e l'A. sembravano desiderosi di contenere la massa, ma il 1º aprile si dovevano concedere ai rivoltosi le armi dell'arsenale marittimo e nel pomeriggio lo stesso A. si poneva alla testa dei dimostranti avviatisi verso la sede del presidio. Quivi la massa non poté essere trattenuta, i soldati reagirono a fuoco: 23 le vittime tra la folla e 5 tra i militari (e fra essi il col. Morozzo della Rocca, fratello del ministro della Guerra). Il mattino seguente il gen. De Asarta, ritenendo difficile opporsi alla folla anche per le defezioni tra i soldati, si accordava con i capi del movimento per l'uscita delle truppe dalla città, impegnandosi ad interporre buoni uffici per evitare l'afflusso di altre truppe su Genova.
Evacuato il presidio, il triumvirato si costituiva in governo provvisorio, chiedeva l'aiuto della divisione lombarda reduce dalla guerra, apriva (con scarso esito) arruolamenti di volontari e invitava il La Marmora, nominato frattanto dal governo commissario straordinario per la città di Genova, a sospendere la sua marcia. Questi però il 4 aprile, ormai alle porte della città, intimava la resa, ricevendo un rifiuto da parte dell'A., mentre all'interno del movimento cominciavano i primi contrasti. Il 5 le truppe regolari, rinforzate da altri arrivi, occupavano alcuni forti e iniziavano a penetrare in città: il Reta e l'A. restavano fermi nella difesa ad oltranza mentre il municipio cercava la via dell'accordo attraverso il corpo consolare. Dopo il bombardamento del 5 sera e della notte, il municipio tramite il commodoro inglese lord Hardwick trattava la capitolazione ed otteneva una tregua, esonerando l'A. dalle sue funzioni. Questi però incitava ancora la popolazione alla resistenza, cercava di sistemare la difesa e sperava nell'aiuto della divisione lombarda. Il 9 aprile veniva pubblicata dal sindaco la notizia dell'amnistia che il re concedeva ai compromessi, salvo dodici capi fra i quali l'A.: Genova non avrebbe avuto armi straniere alle sue porte, lo Statuto e la guardia nazionale erano garantiti. L'A. rimasto solo all'opposizione protestava col sindaco, rifiutava di firmare la convenzione col La Marmora, si dimetteva da generale e chiedeva che fossero lasciati partire i soldati disertori e i volontari. Il 10 stesso, con altri 450 circa, l'A. si imbarcava su una nave americana, mentre le truppe regolari occupavano la città.
Sbarcato a Livorno, su un'altra nave americana giungeva a Civitavecchia, e il 18 aprile a Roma con N. Bixio e G. Mameli. Nella stessa notte, ebbe la nomina a ministro della Guerra della Repubblica. Iniziò subito una vasta azione di raccordo per preparare le forze repubblicane in previsione degli scontri futuri, dimostrando doti di organizzatore e coordinatore tempestivo. Tra le sue ultime disposizioni fu quella di nominare Garibaldi generale (23 aprile) e di destinare ai suoi volontari 500 fucili a percussione di recente fabbricazione. La preparazione logistica della difesa di Roma, da lui particolarmente curata, fu elemento determinante per il successo del 30 aprile contro l'attacco dell'Oudinot. Una sua missione ad Ancona nel giugno non giunse ad evitare la caduta della piazza prima del suo arrivo.
Dopo la fine della Repubblica romana, l'A. ritornò a New York, dove fu accolto calorosamente dalla colonia italiana. Le prime notizie degli avvenimenti del '60 lo strapparono ancora una volta all'affetto familiare: arrivò infatti a Napoli quando Garibaldi era già a Caserta, ma in tempo per partecipare alla battaglia del Volturno. Qui fu promosso da Garibaldi al grado di tenente generale ed ebbe ancora modo di dare prova di ardimento e capacità direttive.
Con tale grado nel '61 entrò nell'esercito regolare prima di andare a riposo. Ma gli avvenimenti del '66 lo riportarono, a fianco di Garibaldi, al comando della divisione di Salò e della flottiglia del lago di Garda.
Con il '61 l'A. entrò nel vivo della lotta politica, facendo parte della Sinistra del parlamento italiano, eletto dal collegio di Montesarchio; nel '65 rappresentò il I collegio di Napoli, nel '70 e '74 quello di Capaccio, nel '76 Isernia. Intervenne per la prima volta alla Camera sulla questione romana, prendendo poi la parola a favore del progetto di legge relativo al trasferimento della capitale da Firenze a Roma per ammonire che bisognava prevenire il movimento di solidarietà in favore del papa da parte del mondo cattolico. Intervenne pure sul grave problema dell'emigrazione, che portava migliaia di compatrioti nelle terre allora malariche del Brasile e del Venezuela, indicando come causa del fenomeno l'aggravarsi delle tasse sui meno abbienti, il persistere del latifondo incolto, l'apatia dei governi precedenti il '60.
Alla fine del '77 si costituì, con lo scopo di liberare Trento e Trieste, l'Associazione pro Italia Irredenta, e l'A. ne fu il primo presidente.
Negli ultimi anni di vita, cessata ogni sua attività commerciale nel Nord-America, fu costretto a vivere modestamente con la pensione di ufficiale Si spense a Roma il 25 dic. 1879.
Bibl.: F. P. Cestaro, G. A.: parole dette il 4 genn.1880 nella sala del Palazzo Comunale in Eboli, Eboli 1880; G. Romano, Episodii della vita del generale G.A., Napoli 1880, E. N. Gay, Pubblica dimostrazione di simpatia per il Papa Pio IX e per l'Italia avvenuta a New York lunedì 29 nov. 1847, Roma 1907; A. D'Alia, G.A., Roma 1940; A. Zazo, L'episodio di Aspromonte in una lettera inedita del generale A., in Samnium, XVI-XVIII (1943-45), n. 1-2, pp. 104 s.; Th. Dwight, G.A., in Testimonianze amer. sul Risorg., a cura di E. Mann Borghese, s. l. 1961, pp. 119-127. Inoltre per i fatti del '21 vedi C. Beolchi, Víttorio Ferrero e il fatto di San Salvario nel 1821, Torino 1853, pp. 15-16, 22, 39; A. Manno, Informazioni sul ventuno in Piemonte, Firenze 1879, pp. 123-25; F. Sclavo, G. A. Commemorazione per l'anniversario della Rivoluzione Piemontese, anzi Italiana dell'11 marzo 1821, Roma 1905. Per il moto di Genova del marzo-aprile 1849 e per la parte avuta dall'A., si veda in particolare E. di Nolfo, Storia del Risorgimento e dell'Unità d'Italia, continuazione dell'opera di C. Spellanzon, VI, Milano 1959, pp. 663-686 (con indicaz. di fonti e bibl. alle pp. 916-918), e G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, III: La Rivoluzione nazionale 1846-1849, Milano 1960, pp. 410-412. Per l'azione dell'A. durante la Repubblica romana, vedi E. Di Nolfo, op. cit., VII, Milano 1960, pp. 428, 430, 431, 436.