BARETTI, Giuseppe
Ebbe per causa di uomini e circostanze, ma più per il suo carattere irrequieto e combattivo, una vita errabonda e avventurosa: nato a Torino il 24 apr. 1719 da famiglia originaria del Monferrato (dal nome dell'ava materna gli piacque desumere il cognome Del Carretto, di cui si valse quando ebbe motivo di tenersi celato, ma senza fondamento è la pretesa origine dai marchesi Del Carretto), venne giovanissimo in contrasto col padre (Luca Antonio, architetto militare ed estimatore generale del re) e dopo le seconde nozze di lui, a sedici anni, abbandonò la casa paterna per recarsi a Guastalla da uno zio, che lo collocò come scrivano presso un commerciante. Vi conobbe Carlo Cantoni, poeta burlesco tra i più rinomati del tempo, che lo avviò, confortando la sua naturale inclinazione, agli studi letterari: li proseguì tornato a Torino nel 1737, frequentando la scuola d'eloquenza del modenese Tagliazucchi, considerato come uno dei "restauratori del buon gusto" e da lui poi sempre ricordato con gratitudine; ma più che a Torino trovò spiriti congeniali a Venezia (1738), dove si strinse in amicizia con la famiglia Gozzi, e a Milano (1740), che la compagnia di G. M. Bicetti, di G. M. Imbonati, del Passeroni, del Tanzi (il primo nucleo dei Trasformati) gli rese sopra ogni altra città carissima. Ottenne nel 1742 la nomina di economo delle nuove fortificazioni di Cuneo, ma nel 1744, mortogli il padre, tornò a Torino, e poi, dissipata in gran parte la tenue eredità e venuta meno forse la speranza di succedere nella cattedra al Tagliazucchi, desiderando procacciarsi da vivere con la sua penna, di nuovo a Milano e a Venezia (1747), ritrovando gli amici, che lo accolsero nelle loro accademie dei Trasformati e, col nome di Severo Fuggitivo, dei Granelleschi. A Venezia pubblicò una mediocre traduzione del teatro del Corneille e diede la prima prova del suo genio polemico nelle Lettere contro Biagio Schiavo. Come appare dagli stessi nomi dei suoi amici e maestri, i quali tutti proseguivano per diverse vie l'opera dell'Arcadia, i suoi interessi in quegli anni furono esclusivamente, e nel senso più ristretto, letterari, e conformi alle usanze del tempo i vari suoi scritti in prosa e tanto più numerosi in versi, tutti d'occasione (fra l'altro a Milano nel 1741 fu il compilatore della raccolta, a cui pure contribuì, per la nascita dell'arciduca Giuseppe e nello stesso anno con quei suoi amici collaborò alla nota raccolta burlesca Lagrime in morte di un gatto). Suo pensiero primo se non unico era quello d'impossessarsi delle ricchezze linguistiche e delle movenze stilistiche degli scrittori dei "buoni secoli", da lui studiati con la foga che mise sempre in ogni cosa sua; e nello stile del Berni, che scelse a suo autore sia per la voga nel suo tempo di quella poesia, sia perché quei modi gli sembrarono conformi all'indole del suo spirito vivace e scarsamente riflessivo, compose la maggior parte delle cose sue, di cui pubblicò una scelta col titolo di Piacevoli poesie nel 1750, ristampata con qualche aggiunta nel 1764, e di cui aveva preparato una più ampia raccolta manoscritta (ora nella Biblioteca comunale di Verona).
Si può nelle rime edite e inedite, in mezzo al profluvio della chiacchiera bernesca e fra i soliti temi del genere, cogliere qualche tentativo di rappresentazione dell'autore, del suo carattere e dei suoi gusti e qualche spunto di satira del costume, ma più notevoli sono le pagine di prosa, le lettere private, le prefazioni alle tragedie del Corneille, le Lettere contro lo Schiavo, non tanto per alcune idee critiche che vi si accennano e a cui egli si manterrà fedele per tutta la vita, quanto per la insistente preoccupazione linguistica, che lo porta a infarcire quegli scritti di locuzioni e vocaboli "di forte e vivace significato", desunti dal Berni e dai berneschi, dal Pulci, dai novellieri e comici fiorentini, e per l'attitudine che egli attraverso questo esercizio venne acquistando, a dominare il sovrabbondante materiale linguistico con un piglio suo proprio e a trarre da quei vocaboli e da quelle locuzioni effetti gustosi e personali di caricatura e di satira.
Di questa prima educazione letteraria lo scrittore e il critico serbarono indelebile l'impronta: ma egli stesso, dopo uno studio più che decennale delle parole, cominciò (verso il 1749) a sentire il bisogno di evadere da quella cerchia di interessi in cui si era rinchiuso, e questa sua conversione, iniziatasi in Italia, si confermò in Inghilterra, dove si recò nel 1751, dopo aver veduto cadere le speranze di ottenere un impiego stabile in patria (per il quale aveva fatto più di un approccio presso i principi sabaudi) ed essersi accorto (sopra tutto dopo la proibizione di continuare la polemica con Giuseppe Bartoli, successore del Tagliazucchi nell'università di Torino, contro il quale aveva scagliato un primo Cicalamento) che fra l'ambiente chiuso del suo paese e il suo carattere vi era un'assoluta incompatibilità. Nove anni stette a Londra, addetto prima alla direzione del teatro italiano (in questa veste stese il Projet pour avoir un Opéra italien à Londres dans un goút tout nouveau) e poi, venuto a contrasto col nuovo direttore del teatro (e queste vicende teatrali gli ispirarono un opuscolo burlesco parte in francese, parte in inglese: La voix de la discorde, ou la bataille des violons -histoire d'un attentat séditieux et atroce contre la vie et les biens de cinquante chanteurs et violonistes, Londres 1753), dando lezioni di lingua italiana e attendendo a varie pubblicazioni. Fra queste, la dissertazione sulla poesia italiana (1753), difesa, a dire il vero un po' tardiva, dei nostri poeti contro le censure del saggio volterriano sulla poesia epica, e un catalogo ragionato di scrittori italiani, a cui è premessa una storia della lingua italiana, rapida scorsa attraverso la nostra letteratura: scritti che non si distinguono per singolare originalità di spunti critici, ma che valsero a farlo conoscere al pubblico inglese. A prender dimora in Inghilterra lo aveva indotto lord Charlemont (allora visconte Caulfield) che aveva conosciuto a Venezia, e per queste aderenze, ma più per la sua indole vivace e socievole, entrò in relazione con cospicui rappresentanti della politica e delle lettere inglesi, il Fielding, il Reynolds (che negli anni più tardi gli fece il famoso ritratto), l'attore Garrick, ma soprattutto Samuele Johnson, il cui incontro ebbe per lui una importanza decisiva e che celebrò poi sempre come il suo maestro e il maggior critico del tempo. Più anziano di lui di dieci anni e fornito di una cultura classica e filologica tanto maggiore della sua (prima di quel tempo, unica prova di un interesse del B. per le letterature classiche, poco da lui studiate ed amate, la traduzione dei Remedia amoris e degli Amores ovidiani, a cui aveva atteso in Italia), fermo in alcuni principi critici e morali e dotato di un'indole risoluta e caparbia, non molto diversa dalla sua, il Johnson gli fu subito insieme maestro e guida, contraccambiando la simpatia e riconoscendone i pregi come i limiti; suo è il giudizio tramandato dal Boswell: "Il Baretti ha pochi uncini ma con quelli si aggrappa assai bene". Il Johnson gli aperse anche più di altri la mente alla conoscenza dei poeti inglesi e in particolare dello Shakespeare: a lui pure, che nel 1755 aveva pubblicato il famoso Dizionario della lingua inglese, si deve se il B. si accinse al rifacimento di un vecchio dizionario (dell'Altieri) italiano-inglese, pubblicandolo del tutto rinnovato in due volumi nel 1760 con una lettera dedicatoria del Johnson all'ambasciatore spagnolo: l'opera più importante di questo periodo inglese, a cui lo aveva preparato oltre all'esperienza del dizionario jolinsoniano l'esperienza sua propria, quel gusto suo per le lingue, che apprendeva al pari dei dialetti con tanta facilità e per cui si era formato un così fine, senso lessicografico, e che per molto tempo (per tutto il secolo scorso almeno) è stato considerato il migliore dei dizionari italo-inglesi. Ai due volumi accompagnò due grammatichette della lingua inglese e della lingua italiana e due prefazioni, notevoli soprattutto per l'entusiasmo che vi si dimostra per la letteratura inglese, cosi ricca e così nuova rispetto a quelle familiari ai connazionali.
Il Dizionario gli valse anche un discreto guadagno: e con questo gruzzolo, ma più con la coscienza di un nuovo patrimonio di idee e di attitudini acquistate e provate nel soggiorno inglese, egli, cogliendo l'occasione offertagli di fare da compagno e guida a un giovane di ricca famiglia, Edward Southwell, decise di tornare -in Italia per riprendervi con nuova lena e vigore l'opera di scrittore italiano. Non Torino, bensì Milano, dove contava sull'appoggio del nuovo governatore Firmian, oltreché sui vecchi amici dell'Accademia dei Trasformati, doveva essere il campo della sua attività, e a Milano nel 1762 pubblicò il primo volume delle Lettere familiari ai suoi tre fratelli, descrizione del viaggio di ritorno in patria attraverso il Portogallo e la Spagna, compiuto dall'agosto 1760 al novembre dello stesso anno. Ma la pubblicazione non poté aver seguito a causa delle proteste del ministro del Portogallo per l'evidente animosità delle lettere dedicate al suo paese (recente era l'espulsione dei gesuiti e le pagine barettiane potevano sembrare, non a torto, essere ispirate da avversione per quei provvedimenti). Nemmeno a Venezia, dove l'anno successivo stampò il secondo volume, la pubblicazione poté essere continuata: soltanto nel 1770 l'opera rifatta e riscritta in inglese poté uscire completa col titolo A Yourney from London to Genoa through England, Portugal, Spain and France.
Le Lettere familiari (quarantasette lettere nell'edizione italiana) sono di fatto la prima vera opera del B., frutto della sua nuova esperienza e della raggiunta maturità. Ben vi si avverte ancora l'efficacia della prima educazione bernesca in descrizioni burlesche di avventure e disavventure di viaggio e in certa ostentazione di disinvoltura e piacevolezza, ma sulla maniera prevale per lo più la personalità dello scrittore, che ci s'impone per il gusto delle cose, della realtà viva, sia pure umile e modesta. Non vi cerchiamo né impressioni vive e originali di paesaggi esotici, né considerazioni peregrine sulla vita sociale e politica dei popoli visitati, bensì la schietta e semplice umanità di uno spirito sano, che si compiace di trovarsi tra i propri simili di diverso paese e di diversa condizione, di conoscerne le usanze e gli umori e che sa prendere interesse anche alle piccole cose della vita quotidiana, libero dalle prevenzioni del letterato e lieto di muoversi lontano dall'atmosfera libresca e di dover occuparsi d'altro che di libri. Per quanto sensibili siano le tracce dell'educazione letteraria non solo negli scoperti scherzi di sapore bernesco, ma anche in pagine programmaticamente sostenute e retoriche, come le troppo famose sul terremoto di Lisbona, siamo lontani dall'esercizio stilistico di un letterato a tavolino (come erano i precedenti scritti barettiani) e siamo portati piuttosto a riconoscervi un esempio di giornalismo moderno, di giornalismo inteso nel miglior senso della parola.
Domina nelle Lettere, su tutte le figure e figurette, le scene e le scenette che vi son ritratte, la figura dell'autore protagonista: e ancora un autoritratto dello scrittore, non più in viaggio ma fra i libri degli autori moderni, si leverà dai fogli della Frusta letteraria, il giornale che con la falsa indicazione di Roveredo farà uscire quindicinalmente dal 10 ott. 1763 a Venezia, città in cui, riuscitegli fallaci le speranze di una sistemazione nell'ambiente milanese, si era stabilito, fidando nelle risorse di così importante centro librario, oltreché, pare, nella protezione di personaggi legati al partito gesuitico.
Ambizione sua era dar vita in Italia a un giornale di critica letteraria e morale simile a quelli da lui ammirati dell'Addison e del Johnson. La vocazione polemica, che era in lui primordiale (un'idea o un giudizio egli non sapeva sostenere e, direi, concepire se non nel contrasto con un avversario) e che sino allora si era sfogata in battaglie povere di contenuto ideale, come nel caso dello Schiavo e del Bartoli, trovava finalmente una giustificazione nella battaglia contro la falsità di una letteratura che, paga di un suo fittizio mondo di immagini tradizionali, si era preclusa ogni contatto con la realtà. Famosa è la caricatura dell'Arcadia, pubblicata quasi programma nel primo numero, ma più che quelle pagine troppo colorite e di dubbio gusto contro un'istituzione che aveva già esaurito il proprio compito, importanti sono gli articoli, come quelli sul Genovesi e il De Gennaro, che mettono in luce l'errore del canone dell'imitazione ribadito dall'Arcadia, per il quale veniva a porsi dinanzi a un autore un modello prefissato di bello scrivere desunto dagli antichi e particolarmente dal Boccaccio, con effetti inevitabili di forzatura e dissonanza se non addirittura di falsità. Il B. non rinnega lo studio della lingua, che per tanto tempo è stato il suo, e risolutamente avversa i moderni dispregiatori dello studio delle parole, delle tradizioni linguistiche, come gli scrittori del Caffè, pur riconoscendo che non tutta la lingua è nella Crusca e vagheggiando una lingua moderna insieme ed espressiva, come quella ammirata in scrittori inglesi e francesi; ma distingue tra la lingua e lo stile, che deve essere invece cosa personale, nascere insieme col pensiero; e a quegli scrittori che si costringevano entro moduli estrinseci e scolastici, ai boccaccisti e allo stesso Boccaccio contrappone l'esempio del suo Cellini, illetterato in un secolo letteratissimo, scrittore che egli particolarmente sentì anche per affinità di carattere, ma più ancora che come individuo, come vero e proprio mito critico, l'uomo della santa e salutare ignoranza che "si dipinge senza pensarvi più che tanto", che "scrive come vien viene" o addirittura "ha prima scritto che pensato", un uomo fatto nascere dalla Provvidenza nel secolo dottissimo ed elegantissimo a confusione e ad ammonimento dei pedanti di tutti i tempi. È qui il centro vivo della polemica della Frusta, per la quale il B. si affianca con una nota sua originale a quanti propugnavano una letteratura moderna, atta a interessare un largo pubblico di lettori, come quella di altre nazioni. Non tanto la poesia gli stava a cuore quanto la prosa: si limitava a satireggiare la vacuità di certa pseudopoesia contemporanea, le "frugonerie", i versi sciolti e i "versiscioltai" (poiché il "moderno" B. non sapeva ammettere una poesia italiana fuori dal giro tradizionale delle strofe e delle rime) e, se lasciava la critica negativa e satirica in cui era maestro, veniva a tessere un vero e proprio elogio accademico del Metastasio, senza dire cose nuove e in stile così lontano da quello che gli era proprio, insistendo particolarmente, e qui il suo articolo ha valore di testimonianza del gusto suo e del tempo, sulla "chiarezza", dote precipua del poeta cesareo, sulla sua testa "sgombra di nuvoli" come quella di nessun altro poeta. Tutt'altro il suo sentimento verso il Goldoni, sia che lo rendessero diffidente l'elogio del Voltaire e il favore degli spiriti "illuminati", sia che gli piacesse a Venezia prendere una posizione decisa accanto all'amico Carlo Gozzi in quella lunga e ancor viva polemica, o, non riuscendo o non volendo comprendere la effettiva novità del teatro goldoniano, si compiacesse di metteme in luce gli aspetti più deboli, che più si prestavano al suo genio caricaturale. Ma giusti od errati, dettati da un retto intuito o da prevenzioni, i giudizi barettiani tutti s'impongono per il piglio dello scrittore, che è divenuto per questo suo vigore d'arte agli occhi dei posteri l'esemplare per eccellenza del critico o più esattamente del critico del tempo suo, non disposto a sottomettersi ad alcuna autorità, ad accettare le fame consacrate, tutto inteso a scuotere da un pigro ossequio a celebrità più o meno autentiche i troppo timorati lettori. Perciò non rimane una finzione marginale la figura di Aristarco Scannabue, presentato come estensore del periodico nella felicissima introduzione: nella figura di Aristarco, il vecchio soldato amante delle lettere e nemico dei letterati, l'italiano dalla vasta esperienza di vita, così diversa da quella dei connazionali, il B. fa una caricatura di sé medesimo e annuncia la propria volontà polemica. "In tutti i numeri della Frusta risuona quella voce di soldato imperterrito e collerico che ci è stato presentato nell'introduzione come il protagonista e l'autore del giornale. La Frusta letteraria nasce così con un'impostazione fra artistica, morale e critica che rimane il suo concetto dominante" (Momigliano).
Non facile, si comprende, fu la vita della Frusta, che doveva per il suo spirito aggressivo, per i suoi attacchi giusti ed ingiusti, suscitare al B. numerosi nemici: si aggiunga il sospetto che egli fosse protetto dai gesuiti (significativa la vivacissima polemica contro di lui del giornale veneziano La Minerva di tendenza giansenistica), né quel sospetto fu forse estraneo alle proteste presso il governo della Serenissima del ministro Tanucci per un accenno sprezzante agli scavi d'Ercolano (l'avversione agli studi d'antiquaria era una delle fissazioni del B.); a evitare la soppressione minacciata egli fece allora ammenda con un articolo elogiativo del libro sugli scavi d'Ercolano e del principe che li aveva promossi, ma non evitò, dopo il venticinquesimo numero del 15 genn. 1765, la proibizione di continuare la stampa del suo foglio, col pretesto del giudizio severo da lui dato sull'opera poetica del Bembo patrizio venezimo, ma in realtà per por fine, come è detto in una comunicazione degli Inquisitori di Stato, alle "querele frequenti che giungevano d'ogni parte, ed anche dalla corte di Napoli, per li modi irriverenti e maledici dei suoi scritti". In quel tempo stesso usciva contro di lui un libello, Bue pedagogo, del padre Appiano Buonafede dell'Ordine dei celestini (del quale fu poi procuratore generale), da lui sulla Frusta aspramente criticato per le Commedie filosofiche pubblicate sotto lo pseudonimo di Agatopisto Cromaziano (e nelle censure barettiane e in tutta la polemica sembrano aver avuto parte ragioni non puramente letterarie): soprattutto per rispondere a quell'attacco il B. proseguì con la falsa data di Trento il giornale, pubblicandovi otto discorsi contro il Buonafede in altrettanti fascicoli, oltre a un nono fascicolo con un articolo di altro argomento. Vi attese, lasciata Venezia e rifugiatosi sotto falso nome per qualche mese nei pressi di Ancona, bene accolto da quel vescovo, il cardinale F. Acciaiuoli, che già nunzio in Portogallo e cacciatone insieme con i gesuiti lo aveva allora conosciuto e gli aveva fatto amichevoli profferte. Ma ormai si era persuaso che non era più possibile per lui continuare in patria il suo "mestiere d'autore" e nel 1766, dopo un viaggio per varie città d'Italia, dove s'incontrò con amici e parenti, soffermandosi più a lungo nelle sue terre e a Genova, tornò a Londra per riprendere le abitudini e il lavoro di un giorno, in quella società che ora sentiva più che per l'innanzi congeniale.
Vi trovò, ormai costituita in regolare club e con nuovi adepti, la cerchia degli amici del Johnson (tra essi, oltre ai ricordati, il Burke e il più giovane Boswell, non benevolo verso di lui che male aveva accolto il suo libro sulla Corsica, non condividendone la simpatia per gli insorti e l'avversione ai Genovesi): e dell'amicizia del circolo johnsoniano ebbe una valida prova quando, processato per l'uccisione di un uomo che lo aveva minacciato e provocato in una strada londinese (1769), vennero fra gli altri a testimoniare in suo favore il Johnson, il Burke, il Garrick, il Goldsmith ("Non mai una tale costellazione di geni, scrisse il Boswell, ebbe a illuminare la cupa aula di un tribunale criminale"), contribuendo alla sua assoluzione. Né Londra lasciò più se non temporaneamente nel 1768-69 per un viaggio in Spagna, che gli offerse nuova materia di notizie e di impressioni per il rifacimento inglese delle Lettere, e poi alla fine del 1770 e nei primi mesi del 1771 in Italia, per rivedere ancora una volta luoghi e persone care. E della fama conseguita nel suo paese d'elezione ebbe un segno nella nomina a segretario per la corrispondenza straniera della Reale Accademia di belle arti di Londra (1769).
Del primo anno del nuovo soggiorno a Londra è l'opera in due volumi scritta in inglese con gran foga per confutare gli errori e le censure del dottor Sharp, autore di un recente libro sull'Italia, Letters from Italy, ché si direbbe per tutti o quasi i suoi scritti il B. aveva bisogno di un avversario da ribattere o combattere. Dedicato a lord Charlemont, l'Account of the manners and customs of Italy; with observations on the mistakes of some travellers, with regard to that country (1767) discorre per quaranta capitoli in forma non sistematica, passando da un soggetto all'all'altro, dei temi più vari, di costumi e di religione, di arte e di letteratura, dei caratteri diversi dei diversi popoli d'Italia (con osservazioni ora penetranti ora superficiali), non senza dare pure consigli spiccioli ai viaggiatori. Parrà a Cesare Balbo che in questa difesa dei costumi italiani (fra l'altro del cicisbeismo) egli fosse andato troppo oltre per ché "dopo aver perseguitati i vizi italiani in patria molto bene, si era lasciato trarre a coprirli e quasi a giustificarli fuori per il solito malinteso amor di patria" (del resto il B. stesso in una lettera privata affermava di aver detto dell'Italia "quel bene che poteva e velatone il male quanto poteva"). Particolarmente significativo per questo rispetto e indizio di una più intima contradizione quanto egli scrive sulle difficoltà frapposte agli scrittori dalle varie censure in Italia, delle quali egli stesso aveva dovuto soffrire e di cui tanto si compiaceva di essersi liberato lavorando nella sua seconda patria: ben sa, e lo ripete nell'Account, che gli scrittori inglesi han da rallegrarsi della propria condizione, eppur con vivacissime parole depreca una libertà di stampa negli Stati italiani, che si risolverebbe in licenza perniciosa per i governi come per i privati. Ritornano in questa Relazione i temi prediletti della critica barettiana: una più divertita e meno acrimoniosa presentazione dell'Arcadia e degli arcadi, nuovi rilievi degli errori del Voltaire, l'esaltazione dei Metastasio e giudizi forse ancor più severi sul Goldoni; vi si lodano invece le Fiabe di Carlo Gozzi, per la prima volta forse accostate allo Shakespeare creatore di Calibano e di altri personaggi fantastici (ma quando le poté leggere stampate parecchi anni dopo ne diede un ben diverso giudizio, perché gli parve che il Gozzi, "scioccone ingegnoso", avesse rovinato tante belle invenzioni con scipite buffonerie e con la trascuratezza di lingua e di stile). L'opera ebbe grande successo e fu ristampata in una seconda edizione nel 1769 con un'appendice in risposta all'opuscolo dello Sharp in difesa dell'opera propria; fu pure tradotta infelicemente in francese nel 1773 e in tedesco nel 1781; una traduzione italiana, imperfetta e lacunosa, fu pubblicata a Milano nel 1818.
La fama di scrittore inglese procuratagli dall'Account fu confermata dal libro sul viaggio in Portogallo e in Spagna, pubblicato nel 1770 e dedicato alla Reale Accademia di belle arti: il Johnson ebbe a dirlo uno dei migliori libri di viaggio che fossero stati scritti. Nuova è rispetto all'edizione italiana tutta la parte sulla Spagna e sulla Francia, ma anche le parti precedenti sono state corrette e, se si difendono i gesuiti dalle accuse del governo portoghese, pure non mancano contro di loro critiche acerbe in contrasto coi sentimenti altra volta espressi verso la Compagnia e taluno dei suoi membri. Più lettere sono dedicate a un quadro della letteratura spagnola, altro campo da lui coltivato con interesse e impegno, come appare da altre opere o disegni di opere. Si era proposto fra l'altro di curare una edizione inglese della Storia del famoso predicatore Frate Gerundio, stendendone una prefazione che è stata stampata ai nostri giorni, e aveva atteso per qualche tempo a una traduzione rimasta incompiuta dei Don Chisciotte. Pubblicò invece nel 1778 un dizionario inglese e spagnolo; e, maestro di lingue e di lettere, diede di questa sua esperienza saggio in una antologia di passi scelti di scrittori inglesi, francesi, italiani e spagnoli con traduzioni (1772). E delle "tante opericiattole" che andava scrivendo, "per uso delle fanciulle britanniche" da lui ammaestrate nelle lingue, gli piacque stampare col titolo Eas Phraseology for the use of young y ladies who intend to learn the colloquial part of the Italian language (1775) "certi dialoguzzi da nulla scritti così sui due piedi" per una giovanissima allieva, Ester Thrale, manualetto grazioso e vivace di modi e locuzioni peculiari alla lingua italiana, in cui ha modo ancora di farsi valere il gusto linguistico e insieme quel che di gentile era nell'animo del suo autore.
Ma di tanto supera queste opere e operette il Discours sur Shakespeare et sur Monsieur de Voltaire, pubblicato a Londra nel 1777 e a Parigi in un'edizione mutilata da C. B. Suard: "un'operetta - ebbe a dire in una lettera - che ho limata un pezzo e che faccio conto sia la meglio cosa che m'abbia scritta mai". A ragione, poiché, come osservò il Foscolo, il soggetto e più ancora l'avversario sollevarono il suo ingegno ispirandogli un discorso in un francese tutto suo, intraducibile, tutto brio e punte, non indegno del Voltaire, con cui aveva tentato più volte in passato di azzuffarsi, eleggendolo a suo antagonista primo, e la scelta tradisce una segreta simpatia di polemista per il polemista principe, quali che fossero le divergenze ideali.
Occasione ne fu la Lettera all'Accademia francese del Voltaire, il quale, dopo essere stato il primo a far conoscere lo Shakespeare in Francia e averne intuito, sia pure come in barlume, la grandezza, si era scagliato violentemente contro il Letourneur, che stava traducendo l'opera intera del tragico inglese, atteggiandosi a paladino del buon gusto e del teatro classicistico di Francia e giudicando lo Shakespeare "un selvaggio ubriaco" e un "barbaro istrione". La difesa dello Shakespeare, a cui il B. era preparato dalla consuetudine oltreché col teatro inglese con uomini come il Johnson e il Garrick, divenne per lui la difesa della poesia originale, di tanto superiore alle convenzioni classicistiche. Se uno per uno i suoi argomenti non erano nuovi (tutto il ragionamento sulle cosiddette unità violate nel teatro shakesperiano è desunto dal Johnson), autentica è l'ammirazione per lo spirito libero dello Shakespeare, quasi un maggiore Cellini, e più felice che mai per l'innanzi il genio caricaturale dello scrittore, che con trovate inesauribili fa qui la maggiore prova, ponendo in così forte rilievo le contradizioni e gli errori del Voltaire e ritornando sui prediletti idoli della sua polemica, il Goldoni, l'Algarotti, il Verri, il Beccaria e tutti i moderni spiriti illuminati.
Il critico e il moralista, lo scrittore e il maestro di lingua son presenti nella Scelta delle lettere familiari fatta per uso degli studiosi della lingua italiana (1779), che, come dice il titolo, doveva ammaestrare lettori stranieri nella nostra lingua, offrendo copia di esempi dei suoi modi anche meno ovvi, ma che nello stesso tempo veniva a essere una summa delle sue opinioni letterarie e morali.
Per questa Scelta egli ha attinto largamente al suo epistolario privato, uno dei più vivi della nostra letteratura e vero banco di prova delle sue doti di scrittore, poiché il B., poco atto a una meditazione serrata intorno a un concetto o a uno sviluppo fantastico di un'immagine, meglio si ritrovava in un libero discorso con familiari: di qui il proposito di presentarle al pubblico con opportuni adattamenti, inventando fra l'altro i nomi dei corrispondenti (tutte persone reali e amiche dell'autore, ma il cui carattere nulla ha che fare col contenuto della lettera) e cercando così nelle sue vecchie come nelle altre nuove scritte per questa raccolta di sfoggiare la propria bravura stilistica con costrutti e locuzioni non comuni, giustificati dal fine didattico del libro, ma conformi a una tendenza in lui connaturata al virtuosismo verbale, che in quest'ultima opera si fa forse più ancora che in altre notare. Come saggio dei suoi criteri stilistici egli ha posto innanzi alle altre un rifacimento di una lettera di Annibal Caro, ma l'assunto stilistico e retorico non è così prevalente da togliere interesse all'opera (divisa in due libri rispettivamente di cinquantadue e trentaquattro lettere) avvivata in ogni sua pagina dagli estri, dagli umori, dal fondamentale buon senso dello scrittore. Vi è, non frequente nel B., una fresca descrizione di paesaggio, le colline del Monferrato (che piacque al Carducci), vi sono assennati consigli di vita morale, frutto di un'esistenza non facile, consoni a un carattere nonostante le apparenze equilibrato, giudizi letterari e, ancor approfondito, il suo tema prediletto, la lingua italiana, per cui egli combatte a un tempo le pretensioni degli zelatori di una stretta osservanza a una pretesa pura fiorentinità e la licenza dei novatori, come il Verri, affatto insensibili, a suo credere, ai valori dell'espressione. Notevoli pure le pagine nelle quali, andando oltre i giudizi espressi nell'Account, il B. manifesta i propri dubbi sul soverchio numero dei frati negli stati italiani, i quali non gioverebbero alla fede religiosa e certamente nuocciono alla vita sociale ed economica.
Non cessò di lavorare e pubblicare negli anni seguenti: ma questi ultimi scritti, se attestano il non mai spento ardore combattivo che ne è il motivo ispiratore, si esauriscono tutti in una polemica non sorretta da ragioni ideali. Tali il Tolondron (1786), un libro in inglese di ben 338 pagine contro un editore del Don Chisciotte,John Bowle, di cui si dimostra la totale ignoranza della lingua e letteratura spagnola; e ancor più personali e accaniti gli articoli (1788) contro la signora Thrale per la pubblicazione da lei curata e annotata di lettere del comune amico Johnson (morto nel 1784), nei quali dà sfogo a una avversione andata via via crescendo dopo a rottura di parecchi anni innanzi con quella famiglia, e più ancora dopo le seconde nozze della donna col cantante italiano G. Piozzi. Essi ebbero peraltro una certa eco nel mondo letterario inglese per la vivacità dello stile e per le persone contro le quali o delle quali si discorreva. A quel mondo ormai si sentiva legato il B., che dell'opera sua in Inghilterra aveva avuto pure un riconoscimento ufficiale con la pensione di 80 sterline annue, assegnatagli dal re d'Inghilterra a partire dal 1782. Ultima sua pubblicazione in italiano fu un libretto di Quattro epistole in versi martelliani (1787) contro il padre Appiano Buonafede, contro i letterati italiani, sulle traversie di un viaggio per mare da Genova a Nizza, sul piacere di viaggiare. A Londra moriva il 5 maggio 1789.
Fortuna. "Amatore miracoloso degli amici", come si definì, e impetuoso e talora avventato e sempre ostinato polemista, il B. ebbe in vita fautori e avversari, attratti o respinti dalla sua personalità piuttosto che dalle idee di cui si fece sostenitore. Si è detto delle amicizie milanesi e veneziane; sarà da aggiungere a quei nomi Francesco Carcano, il più assiduo dei suoi corrispondenti milanesi, e Antonio Greppi, il potente capo dei fermieri, da cui sperò protezione e che non fu estraneo ai primi attacchi della Frusta contro il Verri, e i bresciani G. M. Mazzuchelli, che inserì nei suoi Scrittori d'Italia la sua biografia sino al 1754, e G. B. Chiaramonti, suo confidente nei travagliati anni della Frusta. Di quegli anni sono gli scontri violenti col bresciano Durante Duranti, che lo costrinse ad un'umile ritrattazione, e con l'abate Vicini modenese, l'uno e l'altro criticati sulla Frusta, e gli accenni sdegnosi del Frugoni, ripresi dall'editore discepolo di quel poeta, il Rezzonico, nel Ragionamento premesso alla raccolta delle opere di lui, a proposito della dibattuta questione del verso sciolto. E come libellista e letterato nel senso deteriore egli vien ricordato sempre nel carteggio di Pietro e di Alessandro Verri, non dimentichi delle aspre censure barettiane mai da Pietro pubblicamente ribattute. Si è detto delle polemiche veneziane: altri contrasti suscitò l'Account nella patria del B. dove un avvocato Vernazza pubblicò un opuscolo di critica ai giudizi sul Piemonte (ne era viva ancora l'eco quando il Lessing visitò Torino e dei giudizi sul B. lasciò ricordo nel diario). Dell'Account invece tradusse, consentendo nei giudizi, le pagine sul teatro italiano J. G. Hamann in una rivista tedesca, replicando poi con un articolo a un censore, che non condivideva l'avversione sua e del B. per il Voltaire e il Goldoni. Della sua fortuna in Inghilterra la testimonianza più importante rimane, nonostante la scarsa simpatia, quella del Boswell nella vita di S. Johnson: significativi i necrologi, apparsi su più di un giornale alla sua morte.
In Italia la sua figura e la sua lezione di critico si fece valere si può dire soltanto col nuovo secolo: la prima ristampa della Frusta si ha nel 1799-1800, delle Lettere ai fratelli nel 1803 (e la traduzione di quest'opera completa nel 1830-31); la prima traduzione dell'Account nel 1818. Perciò il riconoscimento dell'efficacia della critica barettiana, a cui non è stata estranea la nuova coscienza civile e letteraria, non è senza riserve dettate appunto da quella più matura consapevolezza e della letteratura e della sua connessione con la vita tutta, quale le nuove esperienze politiche e letterarie avevano promosso. Di qui le lodi del Foscolo fin nell'articolo Sulla traduzione dell'Odissea (1810), in cui per primo forse affermò che più dei soliti "maestri di poetiche e retoriche il B. vedeva su quali fondamenti posi la vera letteratura" e rilevò l'originalità stilistica dell'"intraducibile" prosa del Discours; e nel più tardo articolo sulla Letteratura periodica, il più ampio, meditato e sfumato ritratto che pone in luce i limiti del critico, l'attitudine di lui a dare una espressione tutta sua a idee accolte con felice intuito ma non profondamente meditate, e particolarmente la contradizione, per la quale "predicava riforme e liberissimi principi in letteratura non pensando mai che rigenerata per nuovi principi la letteratura, ne viene presto o tardi immancabilmente il rinnovamento politico e religioso". Per le stesse ragioni i romantici del Conciliatore rimanevano perplessi nel loro giudizio, stimando che "quel vivo ingegno del B. mancasse di filosofia", e questo giudizio restrittivo si fa sentire nell'articolo del Borsieri (nn. 6 e 10) sull'opera di recente tradotta sugli Italiani. Anche per il Berchet il B. era "uomo d'ingegno vivacissimo ma di cognizioni non sempre profonde"; e interprete del sentimento dei romantici fu Camillo Ugoni, che ci ha lasciato il giudizio meglio meditato e fondamentalmente equo sul B., di cui non nasconde l'unilateralità e la monotonia di idee critiche. Non si prosegue nel secondo Ottocento il discorso iniziato con le pagine del Foscolo e dell'Ugoni, accettandosi piuttosto senza discriminazione dei pregi e dei limiti l'idea di un B. critico innovatore e geniale ed esempio di "prosatore moderno". Illuminanti alcuni cenni del Carducci e una pagina del D'Ovidio: ma le nuove diligenti ricerche del Piccioni, nonostante o forse in grazia di certo atteggiamento apologetico o rivendicatorio, valsero in un diverso clima culturale a riproporre il quesito sull'effettivo valore del critico settecentesco. Ne vennero le fortissime limitazioni del Croce, e dopo di lui del Natali, del Borgese e di altri, e da queste discussioni e da nuove ricerche, un giudizio più equo e storicamente fondato sul B., meglio compreso anche per una più estesa conoscenza del Settecento italiano ed europeo e in particolare della storia delle idee critiche. E' da ricordare infine che il nome del B., il critico per antonomasia, fu assunto come titolo da riviste letterarie pubblicate nella sua città natale: il giornale di varia erudizione, dal 1872 al 1885, e la rivista fondata e diretta da Piero Gobetti e continuata dopo la sua scomparsa dal 1924 al 1928.
Edizioni: per le prime edizioni delle singole opere, quasi tutte ricordate qui sopra, rinvio alla Bibl. del Piccioni. Del secolo scorso vanno ricordate: Opere di G. B. scritte in lingua italiana, Milano 1813 - 14, in 5 tomi, continuate in Opere, Milano 1818-20, tomi VI e VII; Scritti scelti inediti o rari di G. B. con nuove memorie della sua vita (di P. Custodi), Milano 1822-23, 2 Voll.; Opere, Milano, dalla Società tipogr. de' classici italiani, 1838-39, in 4 voll. Un'edizione rimasta incompleta ha curato: il Piccioni per Gli Scrittori d'Italia dell'ed. Laterza: Prefazioni e polemiche, 1911 (2 ed., 1933); La scelta delle lettere familiari, 1912; La Frusta letteraria, 1930, in 2 Voll.; Epistolario, 1936, in 2 Voll. (fra le lettere edite posteriormente vanno ricordate quelle presentate nei seguenti articoli: A. Foresti, Due lettere inedite del B. a Carlo Antonio Tanzi, in La Bibliofilia, XXXIX 119-371, pp. 354-59, notevole documento del periodo giovanile; Id., G. B. e i letterati bresciani in Commentari dell'Ateneo di Brescia R9391, pp. 21-74; E. Carusi, Tre lettere inedite di G. B., in Atti dell'Acc. degli Arcadi, XVII-XVIII [1938-39], pp. 49-62, sono dirette al padre Lagomarsino, importanti per i rapporti del B. coi gesuiti; R. Wamock, Nuove lettere inedite di G. B., in Giorn. stor. d. letter. ital., LXXI [19541, pp. 73-87, importanti per i rapporti del B. col Boswelli. Presso altro editore lo stesso Piccioni ha curato le Lettere familiari a' suoi tre fratelli Filippo, Giovanni e Amedeo, Torino 1942. Come testimonianze dei contemporanei ci limitiamo a citare: G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 1, Brescia 1758, pp. 345-49; l'art. di J. G. Hamann cit. più sopra pubbl. nella K6nigsbergischen Zeitung (1770), trad. col titolo Della traduzione del B. in J. G. H., Scritti e frammenti di estetica, a cura di S. Lupi, Firenze 1938, pp. 155-62; J. Boswell, Life of Johnson, I ed., London 1791, in cui il B. è ricordato più di una volta.
Bibl.: L. Piccioni, Bibliografia analitica di G. B., con un'appendice di cronologia biografica barettiana, Torino 1942 (cfr. la rec. di M.Fubini, in La Nuova Italia, XIV [1943], pp. 36 s.); per gli anni successivi si vedano le pubblicazioni intorno al B. che si citeranno. Più innanzi. Studi biografici e monografie: P. Custodi, Mema rie della vita di G. B., in Scritti scelti, I, Milano 1822, pp. 43-216; L. Piccioni, Studi e ricerche intorno a G. B., Livorno 1899; Id., G. B. prima della Frusta letteraria, in Supplemento nn. 13-14 del Giorn. stor. d. letter. ital.,1912 (fondamentale con molte citazioni di rime inedite); Id., G. B., in Celebrazioni piemontesi, I, Urbino 1935, pp. 195-221; E. Masi, Frusta letteraria e Bue pedagogo, in Parrucche e sanculotti nel sec. XVIII, Milano 1886, pp. 97-117; A. Neri, G. B. e i gesuiti, in Suppl. n. 2 del Giorn. stor. d. letter. ital., 1899, pp. 106-29; L. Collison Morley, G. B., with an account of his literary friendships and feuds in Italy and in England in the days of dr. Johnson, London 1909; C. Segrè, B. e Ester Thrale, in Relazioni letterarie tra Italia e Inghilterra, Firenze 1911, pp. 231-315; R. Cessi, Vicende "frustatorie" di G. B., in Rass. critica d. letter. ital., XVIII (1913), nn.7-12; sul giornalismo veneto nei tempi dei B. e sulla polemica contro la Frusta della Minerva, cfr. Giornali veneziani del Settecento a cura di M.Berengo, Milano 1962, pp. 96 ss., 106 ss. Per la critica, oltre ai giudizi negli scritti citati: U.Foscolo, Opere, ediz. naz., VII, pp. 226 ss. (nell'art. Sulla traduzione dell'Odissea); XI, pp. 344-59 (nell'art. Italian Periodical literature); C. Ugoni, Della letteratura italiana nella seconda metà del sec. XVIII, I, Milano 1856, pp. 3-74; L. Morandi, Voltaire contro Shakespeare, B. contro Voltaire, Città di Castello 1884; F. D'Ovidio, Le correzioni ai Promessi Sposi e la auestione della lingua, Napoli 1933 (rist. della 3 ediz. [1893]), pp. 183 S.; G. Carducci, Opere, ediz. naz., XVI (Il Parini minore): importanti giudizi sul B. negli articoli sull'Accademia dei Trasformati e sulla Vita rustica del Parini; Id., Letture del Risorgimento italiano, I, Bologna 1896, pp. XXVI, 27-38; U. Cosmo, G. B. e Yosé Francisco de Isla, in Giorn. stor. d. letter. ital., XLV (1905), pp. 193-314 (sull'aut. del Frate Gerundio con appendici di pagine edite e inedite del B.); B. Croce, G. B., in Problemi di estetica, Bari 1910, pp. 443-448; G. A.Borgese, Una fama ambigua, in La vita e il libro, Torino 1913, pp. 315-322; G. Natali, Un'antologia barettiana, in Idee, costumi, uomini del '700, Torino 1926, pp. 255-60 e dello stesso le pp. sul B. ne Il Settecento, II, Milano 1929, pp. 138-147; F. Biondolillo, L'estetica e la critica di G. B., in Poeti e critici, Palermo 1910; G. S. Gargano, I pregiudizi di uno spregiudicato, in Il Marzocco, XVII, 34 (1912), p. 2; S. A. Nulli, Shakespeare in Italia, Milano 1918, pp. 11-18; E. Moroncini, Il B. artista, Milano 1921 (cfr. rec. di G. Brognoligo, in Rass. critica d. letter. ital., XXVII [1922], p. 143); G. Toffanin, L'eredità del Rinascimento in Arcadia, Bologna 1923, cap. XIV; P. Gobetti, Risorgimento senza eroi, Torino 1926, pp. 79-86; C. Arici, Un avventuriero della critica, Palermo 1926; E. Merian Genast, Voltaire und die Entwicklung der Weltliteratur, in Romanische Forschungen, XI,(1926), p. 201 (per la polemica col Voltaire); M. Fubini, Yean Racine e la critica delle sue tragedie, Torino 1926, pp. 159 s. (sul B. critico del Corneille e del Racine); A. Ermini, Nuovi studi sulla Frusta letteraria del B., in Atti d. Acc. degli Arcadi, n. s., XIV (1930), vol. V-VI, pp. 205-93; A. Devalle, La critica letteraria nel '700. G. B. I suoi rapporti con Voltaire, Johnson e Parini, con pref. di V. Cian, Milano 1932; F. Flora, La "Frusta letteraria", in Pegaso, V (1933), pp. 306-318; C. Calcaterra, Il nostro imminente Risorgimento, Torino 1935, pp. 449-458 e passim; A. Momigliano, La rivolta di Aristarco e B. nelle sue Lettere, in Studi di poesia, Bari 1938, pp. 93-104; M. Fubini, G. B. scrittore e critico e G. B. dalle Lettere ai fratelli alla Frusta letteraria, in Dal Muratori al Baretti, 2 ediz., Bari 1954, pp. 218-291 (cfr. anche nello stesso vol. Arcadia e illuminismo); G. I. Lopriore, G. B. nella sua "Frusta", Pisa 1940; W.Binni, Preromanticismo italiano, Napoli 1948, cap. IV; J. M. Lubbers-Van der Brugge Johnson and B. Some aspects of eighteenth-century literary life in England and Italy, Groningen 1951 (cfr. anche la rec. di M. Fubini, in Giorn. stor. d. letter. ital., LXX (19531, pp. 543-46); Encicl. Ital. VI, pp.172 ss.