Baretti, Giuseppe
Polemista, critico letterario, linguista (Torino 1719 - Londra 1789), celebre soprattutto per la rivista «La frusta letteraria» (1763-1765). Dopo aver soggiornato a Venezia e a Milano, nel 1766 si trasferisce a Londra, dove diventa segretario per la corrispondenza straniera della Reale Accademia di belle arti.
Il contributo più significativo di B. alla fortuna di M. consiste nell’edizione londinese delle sue opere, apparsa nel 1772 presso l’editore Davies. Il progetto era stato annunciato nell’aprile del 1767 e interrotto nel settembre dello stesso anno, per essere quindi ripreso nel 1771. Finalmente nell’ottobre 1772 apparivano i tre tomi in quarto, accompagnati da una prefazione cui B. fa riferimento come a un «chiacchieramento politico» (lettera del 14 febbr. 1772, in Epistolario, s cura di L. Piccioni, 2° vol., 1936, p. 101). I volumi proponevano il corpus integrale delle opere di M., così come era stato costituito nell’edizione più recente, quella veneziana dello stampatore Pasquali (1769), comprendente la commedia apocrifa (in realtà di Antonfrancesco Grazzini), che B. per primo intitolava Il frate, e il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua. La pretesa di completezza, essenziale al successo commerciale dell’opera, si spingeva fino alla riproduzione di «due patenti sottoscritte da lui», incluse nell’edizione «onde la non s’abbia un acca meno di qualunque altra» (Prefazione a tutte l’opere di Niccolò Machiavelli, 1772, in Prefazioni e polemiche, a cura di L. Piccioni, 1933, p. 187). Inoltre, per poter offrire a sua volta novità suscettibili di allettare gli acquirenti in un’epoca di importanti ritrovamenti filologici machiavelliani, B. faceva appello a Giuseppe Pelli Bencivenni, pregandolo di fornirgli aneddoti inediti per la sua prefazione. Del resto il movente commerciale era stato il motore della fatica editoriale intrapresa, destinata a fruttargli cinquanta ghinee.
Prima di allora, M. non aveva ricevuto un’attenzione specifica nei suoi scritti, per quanto il suo nome vi ricorra con una certa frequenza. Rappresenta una parziale eccezione The Italian library, il catalogo ragionato del 1757 che introduce al pubblico inglese i maggiori autori italiani. Qui la presentazione delle opere di M. lascia emergere spunti che troveranno sviluppo nella prefazione redatta più di dieci anni dopo, a partire dall’intenzione apologetica, fondata sullo scarto fra l’uomo e lo scrittore, vale a dire tra la probità della vita di M., comprovata da testimonianze di contemporanei, e i precetti immorali del Principe; contraddizione sanabile attraverso l’interpretazione obliqua del trattato, quale «satire on» piuttosto che «lecture to, Sovereigns and Politicians» (The Italian library, 1757, p. 44).
In altri scritti M. figura come il politico per antonomasia, oppure per l’apprezzamento letterario delle sue opere, non esente tuttavia da riserve. Se infatti M. viene talvolta contrapposto a Boccaccio quale modello per la sua prosa scorrevole, seppur priva del necessario labor limae, in altre occasioni B. ne enfatizza invece i difetti, come nella Scelta di lettere familiari fatta per uso degli studiosi di lingua italiana, 1779:
Vedete il tanto lodato Machiavelli, che si sta come chi dicesse in vetta alla nostra storica piramide! Chi può scorrere venti pagine della sua Storia senza maladirne le tante parentesi, talvolta incarcerate in altre parentesi?
Chi può non desiderare la scomunica maggiore a que’ suoi verbi che, invece di starsene dietro ai loro nominativi e dinanzi ai loro accusativi e agli altri casi, come la natura del parlar toscano richiede, vannosi latinamente a porre sulla punta d’ogni suo periodo? (La scelta delle lettere familiari, a cura di L. Piccioni, 1912, p. 107).
Si denuncia così l’inadeguatezza della prosa italiana, manifesta persino nelle opere dei rappresentanti più alti del canone: secondo le sue dichiarazioni, infatti, negli anni giovanili B. aveva ricavato dai buoni autori, approvati o meno dalla Crusca, il materiale necessario a comporre il proprio bagaglio lessicale, ma l’insoddisfazione per il loro stile lo aveva indotto a ispirarsi piuttosto alla sintassi lineare dell’inglese e del francese. Più radicale ancora doveva essere l’insofferenza espressa in incontri privati, se si presta fede a un corrispondente di Pelli Bencivenni, per il quale «secondo lui non vi sono altri poeti che Berni, e Ariosto in Italia; prosatori nessuno» (Efemeridi, s. I, 27° vol., 24 marzo 1771, p. 92). La testimonianza precede di poco la stesura della prefazione alle opere di M., in cui l’aspetto letterario e linguistico riceve ampio spazio, non solo per gli apprezzamenti rivolti alle singole opere (è il caso soprattutto dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, delle commedie e della legazione a Giampaolo Baglioni, composta da una sola lettera di M. che B. considera la più bella della tradizione italiana), ma anche per l’interesse riservato al Dialogo intorno alla nostra lingua.
La confutazione del trattato di M., opera «tanto meschina, che a malapena si può credere sia uscita di quel suo cervello» (Prefazioni e polemiche, cit., p. 194), non prescinde dalla sua attualizzazione, per cui, accanto agli antichi, vengono evocati gli autori contemporanei non toscani che hanno contribuito all’arricchimento dell’italiano. Queste pagine riflettono gli interessi linguistici del B., che già nella «Frusta» si era schierato contro il fiorentinismo cruscante per asserire la dimensione sovraregionale della lingua comune, idealmente capace di competere con le altre lingue nazionali. Anche nella prefazione a M. la questione della lingua viene impostata grazie al confronto fra la situazione italiana e quella di altri Stati europei, nell’ampia visuale di cui la cultura cosmopolita dei Lumi e i lunghi soggiorni all’estero avevano dotato Baretti.
Un’istanza analoga a quella che impone il prolungamento nel presente della questione linguistica cinquecentesca permea anche la proiezione nel passato del dibattito sulle forme di governo, per cui l’autore piemontese immagina di confrontarsi con M. sulla minaccia rappresentata dall’arrivo di Castruccio Castracani a Firenze: lungi dall’opporre resistenza, i fiorentini avrebbero fatto meglio a rinunciare alle istituzioni repubblicane per accogliere il condottiero come sovrano, contribuendo alla sua conquista dell’Italia; solo a queste condizioni Firenze avrebbe potuto raccogliere l’eredità di Roma e l’italiano avrebbe realmente coinciso con il fiorentino. La scarsa lungimiranza di M. nei giudizi storici viene imputata alla sua pervicace ideologia repubblicana, che costituisce uno dei motivi di dissenso con Baretti. Quest’ultimo – che contesta il rimprovero di essere «apathetically indifferent about politics», mossogli da un corrispondente inglese, adducendo a sua difesa proprio lo studio di M. coronato dall’edizione delle sue opere (lettera del 25 febbr. 1772, in Epistolario, cit., p. 104) – dichiara in più sedi l’equivalenza delle diverse forme di governo, liquidando per suo conto il dibattito che contrapponeva la repubblica alla monarchia.
Nonostante la stessa convinzione sia ribadita nella prefazione all’edizione machiavelliana, B. inclina verso la signoria, non tanto per adesione al dispotismo illuminato, prefigurato nel buon governo dei Medici, quanto – bisogna credere – per il deprezzamento dei liberi comuni medievali, diffuso nel Settecento prima della celebrazione di Simonde de Sismondi. E infatti il repubblicanesimo di M. viene annoverato fra le «opinioni arcibislacche», che lo motivano a scrivere il Principe con l’intento di prendere «due colombi ad una fava», vale a dire svelare i mali dell’assolutismo e indurre i Medici a governare «in guisa, che s’avessero poi a snodolare il collo» (Prefazioni e polemiche, cit., p. 161). L’ipotesi della duplice obliquità del Principe, estesa al Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze, era già stata formulata nell’elogio di M. composto da Marco Lastri per la Raccolta d’elogi d’uomini illustri toscani, probabilmente consultato da B. attraverso la mediazione di Pelli Bencivenni, che nel marzo 1772 si apprestava a inviarglielo corredato delle proprie annotazioni.
Tuttavia il profilo di M. che emergeva nella prefazione entrava in conflitto con quelli univocamente encomiastici tracciati in Toscana, non senza che B. cadesse in incoerenze interne, addossate in maniera semplicistica ai «ghiribizzi» dell’autore fiorentino.
La lettura obliqua del Principe non bastava infatti ad attestarne la rettitudine, compromessa dai tempi corrotti, né sfuggivano alla condanna morale le commedie, incapaci di adempiere la funzione pedagogica attribuita alla letteratura. Malgrado questi limiti, il merito di M. non veniva riconosciuto solo nel campo della politica, ma se ne proclamava l’eccellenza anche come maestro di arte militare, come storico (anche se non sempre attendibile), come letterato e, soprattutto, come «politico in pratica», vale a dire come statista, qualità particolarmente apprezzata da B. che, in accordo con il suo secolo, pretendeva dall’intellettuale un impegno fattivo nella realtà.
Lunghi stralci della prefazione confluivano nella Scelta delle lettere familiari del 1779, attribuite a mittenti fittizi, e concluse da un’epistola su M. scritta per controbattere la recensione negativa dell’edizione delle sue opere che Marco Lastri aveva pubblicato nel 1778 sulle Novelle letterarie. Riassumendo i toni aristarchei, al punto da fare riferimento a sé stesso come lo «zoppo», B. perorava la propria causa sotto la maschera di Pelli Bencivenni. Lodando i giudizi equilibrati della prefazione, esenti da ogni coinvolgimento fazioso, l’autorevole funzionario granducale confermava la rivendicazione di B. di aver scritto «senza parzialità e senza passione» (Prefazioni e polemiche, cit., p. 174).
Bibliografia: The Italian library. Containing an account of the lives and works of the most valuable authors of Italy, London 1757; Prefazioni e polemiche, a cura di L. Piccioni, Bari 1911, 19332; La scelta delle lettere familiari, a cura di L. Piccioni, Bari 1912; La frusta letteraria, a cura di L. Piccioni, Bari 1932; Epistolario, a cura di L. Piccioni, 2 voll., Bari 1936.
Per gli studi critici si vedano: G.I. Lopriore, Baretti e Machiavelli, «Lettere italiane», 1958, 10, 4, pp. 455-70; N. Jonard, Giuseppe Baretti (1719-1789). L’homme et l’oeuvre, Clermont-Ferrand 1963, pp. 341-56; M. Rosa, Dispotismo e libertà nel Settecento. Interpretazioni ‘repubblicane’ di Machiavelli, Bari 1964, Pisa 20052; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995, capp. 10 e 11; E. Cutinelli-Rendina, Sulla costituzione del corpus teatrale di Niccolò Machiavelli, in Il teatro di Machiavelli, Atti del IX Convegno di studi, Gargnano del Garda 2004, a cura di G. Barbarisi, A.M. Cabrini, Milano 2005, pp. 549-68.