BETTIOL, Giuseppe
Nacque a Cervignano del Friuli (Udine) il 26 sett. 1907 da Rodolfo, ispettore scolastico dell'amministrazione asburgica, e da Leontina Pacco (Pacher). Compi gli studi classici a Gorizia e quelli giuridici all'Università cattolica di Milano, laureandosi nel 1929. Rilevante per la sua formazione fu l'incontro a Monaco con Ernst Beling, il sacerdote della libertà penalistica. Intrapresa la carriera universitaria, fu assistente, poi straordinario (1936) e infine ordinario di diritto penale (1939) nelle università di Urbino, Cagliari, Trieste e Padova.
Legato al movimento antifascista cattolico e già noto giurista, nel 1945 fu delegato alla Consulta nazionale per il partito della Democrazia cristiana, per il quale avrebbe svolto attività parlamentare ininterrottamente dal 1946 al 1976. Fu infatti deputato al Parlamento per l'Assemblea costituente e per le prime quattro legislature della Repubblica (1948-68), eletto sempre nella circoscrizione di VeronaVicenza-Padova-Rovigo, e senatore nella quinta e sesta legislatura, eletto nel collegio di Padova. Fu ministro della Pubblica Istruzione nell'ottavo gabinetto De Gasperi (luglio-agosto 1953) e ministro senza portafoglio per i rapporti con il Parlamento nel secondo gabinetto Segni (febbraio 1959-marzo 1960). Fu presidente della commissione Giustizia nel periodo 1949-1952, e presidente della commissione Esteri nella seconda e terza legislatura. Nel periodo dicembre 1950-giugno 1953 fu presidente del gruppo democristiano alla Camera e nel IV congresso dei partito (Roma, novembre 1952) relatore sull'attività del gruppo.
Fu membro dei Consiglio esecutivo dell'Unione latina, deputato al Consiglio d'Europa, vicepresidente dell'assemblea dell'Unione europea occidentale (UEO).
Fuori ruolo dall'università dal 1977, il B. morì a Padova il 29 maggio 1982.
La frase, con cui il B. dava inizio al corso di filosofia del diritto tenuto all'università di Trieste nell'anno accademico 1944-45, "il diritto penale è una filosofia", sembra avvalorare l'equivoco che, chiamando di volta in volta in campo neoscolastica, kantismo, filosofia dei valori, ha attribuito al pensiero di questo autore una qualifica speculativa. La verità è che ciascuna di tali etichette può definirsi appropriata, per cui tutte debbono definirsi errate. Sia detto piuttosto che le concezioni del B. - in tema di norma, di reato, di reo, di pena, di misure di sicurezza - hanno tratto la loro ragion d'essere in negativo, per l'opposizione, cioè, a questo o a quell'indirizzo, a questa o a quella tendenza; cosicché ciò che in positivo tale autore è stato, può essere colto solo attraverso un processo di elaborazione paziente compiuto sui singoli contenuti di lotta che costellano la sua opera. Il B. stesso, del resto, era solito dire che senza il positivismo di Filippo Grispigni, contro cui aveva combattuto, il suo Diritto penale non sarebbe stato scritto; mentre un'altra vicenda che ha caratterizzato il suo pensiero è stata l'inesausta, esasperata polemica con il formalismo cameluttiano. Per non parlare, infine, di quel tormento politico che lo ha visto impegnato in una battaglia senza quartiere contro il totalitarismo giuridico, di destra e di sinistra. È su queste tre direttrici che va ricercato il nucleo del pensiero del Bettiol.
Contro il sovvertimento operato dal positivismo criminologico il B. invoca il complesso speculativo del razionalismo: né l'agire dell'uomo è "determinato", né l'uomo che delinque è assimilabile alle primitive razze selvagge (i due postulati dell'indirizzo avversato). Il soggetto di diritto penale è "persona" sulla quale può cadere un rimprovero. Il rimprovero, non già la pericolosità (previsione di un possibile danno, che come tale può riguardare anche un essere subumano o un'entità inanimata), è il giudizio penalistico da riferire ad una azione, perché essa, in quanto umana, è cosciente e volontaria. La scuola positiva si trova dunque in errore; i principi in cui credere - l'uomo è un essere cosciente, l'azione umana è cosciente e volontaria - sono ancora gli stessi del vecchio mondo razionalistico. Ma tale corso di idee va debitamente adeguato ai tempi, per cui il reato viene configurato e inteso non più come segmento di vita, come spazio chiuso, come fatto e null'altro, bensì come risultante di fatto e di personalità, cosicché il credo legalitario liberale non rinviene più nella condotta incriminata un limite ma un'occasione di arricchimento ultenore.
Accenti particolari, per un discorso fondamentalmente tradizionale, il B. trova pure contro il trionfo cameluttiano della teoria. Oggetto della critica è qui il limite endemico di una dottrina che tutti gli istituti, di ogni ramo dei diritto, aveva condotti a fare i conti con le sole strutture della logica. Ciascun istituto era stato riportato unicamente a quella logica superiore che è la teoria generale del diritto, dalla quale fatalmente stemperate erano uscite le multiformi realtà concrete non del diritto penale soltanto (il carneluttiano diritto di me e di te) ma di quello stesso diritto civile (il cameluttiano diritto del mio e del tuo) da cui pure era stata tratta l'ispirazione. Preziose per insegnare, e dunque per imparare, le articolazioni di una teoria generale dei diritto sono, ad un tempo, per il B., troppo e troppo poco: perché quel che acquistano in estensione perdono in profondità; perché quell'aggettivo - penale, civile - che pensano di togliere da un "diritto" inteso come sola realtà, è invece il sostantivarsi di fenomeni autonomi. Diritto penale e diritto civile sono realtà distinte tra loro nelle qualità, cosicché non è pensabile che alle rispettive essenze possa venire la spiegazione o anche solo qualsivoglia contributo da una sistemazione di concetti logico-astratta ad esse comune.
L'elaborazione di Camelutti appariva dun. que al B. come una via ingegnosa ma fallace che al diritto penale veniva indicata dopo l'esperienza positivistica, una piattaforma eterogenea rispetto a quest'ultima, offerta allo scopo di acquisire esiti privi di incognite, come privo di incognite è, fuor di dubbio, un metodo induttivo di tipo razionale (quello che il B. definì "il positivismo giuridico di Francesco Carnelutti"), strumento di conoscenza si, ma non certo principio costitutivo di valori.
Il nuovo che il B. inserì col suo antiformalismo nei vecchi capisaldi penalistici sta proprio qui. La legge che chiede razionalità alla teoria e la teoria che della legge è elaborazione egli non rinnegò, ma rese anzi più vitali attraverso i "valori", da cui legge e teoria vengono illuminate come da finalità che le sopravanza: diritto naturale e teleologismo sono la sostanza che percorre gli scritti di questo autore.
Non meno accanita che negli altri casi fu la lotta del B. sul piano politico, la viscerale avversione da lui opposta al totalitarismo. Ma i suoi furori, le cose che al riguardo egli scrisse, ebbero la politica solo come movente. Sbaglierebbe chi cercasse al riguardo proposte non appartenenti alla problematica giuridico-penale. o Principio di legalità" e "pena" sono i due poli penalistici del vecchio mondo liberale intorno ai quali ruota l'universo politico dei Bettiol. E con essi i loro opposti ideologici: le "clausole generali" (dove il fatto criminoso è indeterminatamente previsto) e le "misure di sicurezza" (provvedimenti amministrativi di riadattamento).
Anche qui più diffusa è stata la critica che la difesa. Non occorreva, del resto, a sostegno del principio di legalità, motivare quella protesi penalistica di esso che è lo strumento della fattispecie (con cui il fatto criminoso è descritto specificamente) né dimostrare, a favore della pena, che il suo fondamento doveva essere la colpevolezza (l'atteggiamento doloso o colposo di un soggetto capace di intendere e di volere): su tali materie già intere generazioni di penalisti avevano lavorato. Urgeva piuttosto un'azione di assalto che operasse su due fronti: da una parte smascherando quella "socialità perversa" che ispirava le clausole generali la cui funzione avrebbe dovuto realizzare meglio delle fattispecie la finalità sostanziale dei principio di legalità, dall'altra parte denunciando le insidie nascoste in quell'idea di "pericolosità" (per cui l'individuo veniva giudicato solo come causa probabile di reati) che, posta in luogo dei concetto di colpevolezza (come dire del riniprovero per il reato posto in essere) su cui era fondata la pena, finiva col sostituire a quest'ultima una misura di sicurezza.
Aggiunta di indubbia modernità, sia accanto alla fattispecie per quanto concerne il "principio di legalità", sia accanto alla colpevolezza per quanto concerne la "pena", è la già accennata rilevanza conferita da questo penalista alla personalità del colpevole, con la quale entrambe le problematiche - legalitaria e sanzionatoria - appagano la loro moderna esigenza di compiutezza.
In tale direttrice è rinvenibile il significato dell'intera opera dei Bettiol. Egli è stato il giurista assertore e sul piano criminologico - relativamente al positivismo - e sul piano teorico - relativamente al formalismo - e sul piano politico - relativamente al totalitarismo - di una visione altissima dell'umano. Accusatore dei vuoti di senso che hanno percorso il suo tempo penalistico, è stato il portatore del messaggio che la classicità incentrata sul valore della persona è ancora in grado di porgere.
Le sue opere giuridiche più significative sono: Il problema penale (Trieste 1945), Diritto penale (Palermo 1945), Aspetti politici del diritto penale contemporaneo (ibid. 1952), Istituzioni di diritto e procedura penale (Padova 1966). Tranne il Diritto penale e le Istituzioni, tutti i suoi lavori penalistici figurano nei volumi Scritti giuridici (I-II, Padova 1966), Scritti giuridici 1966-1980 (ibid. 1980), Gli ultimi scritti (1980-1982) e la lezione di congedo (6-V-1982) (ibid. 1984).
Fonti e Bibl.: Per una bibliografia sul pensiero del B. si veda G. Marini, G. B. Diritto penale come filosofia, Napoli 1985, pp. 111 s., cui si rimanda. Per la sua attività di parlamentare e di legislatore, si vedano gli Atti parlamentari delle legislature in cui fu presente. Inforrnazioni relative alla sua biografia politica sono reperibili in: I deputati e i senatori del sesto Parlamento repubblicano, Roma 1968, s. v.; G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere. La DC di De Gasperi e di Dossetti. 1945-1954, I-II, Firenze 1974, ad Indicem.