Personalità di straordinaria forza, Giuseppe Bettiol è stato un protagonista per tutta la sua esistenza, senza però che l’influenza del suo pensiero si sia protratta oltre la sua vita; egli fu, insomma, una sorta di gigante solitario («Sarò stato una voce isolata ma questo non interessa. Ciò che conta è rendere testimonianza di verità nella vita»; Diritto penale, 198211, pp. VII-VIII). Nella penalistica italiana del dopoguerra grandeggia la compatta coerenza e l’originalità del suo sistema di pensiero, radicato esplicitamente nelle premesse cristiane, così da conferirgli un’impostazione spiccatamente filosofica. Fu peraltro tra i penalisti italiani più conosciuti e apprezzati all’estero, in Europa ma soprattutto in America Latina, dove il suo pensiero e la sua figura continuano ancora oggi ad avere seguaci ed estimatori. Molto intenso il suo impegno nella vita politica, in un connubio strettissimo di pensiero e azione.
Nato a Cervignano del Friuli, presso Udine, il 26 settembre 1907, Bettiol può ben essere considerato un intellettuale mitteleuropeo per le circostanze anche spaziali e temporali in cui si formò la sua personalità. Compì gli studi universitari alla Cattolica di Milano, ove conobbe padre Agostino Gemelli e ove si laureò nel 1929. Alla cattedra giunse nel 1936, sotto l’insegnamento di Giacomo Delitala e dopo aver perfezionato i suoi studi penalistici in Germania, al confronto con la grande dogmatica tedesca (incontrando, fra gli altri, Ernst Beling e Hans Welzel). Insegnò nelle università di Urbino, Cagliari e Trieste, per approdare quindi, nel 1943, all’Università di Padova, da dove non si sarebbe più mosso, continuando per molti decenni a fare la spola tra il Veneto e Roma, ove si profondeva il suo lungo, intenso e appassionato impegno politico nelle file della Democrazia cristiana.
Dopo aver fatto parte della Resistenza nei gruppi dei cattolici, fu presidente della commissione provinciale per l’epurazione e quindi, nel 1945-46, componente della Consulta nazionale. Eletto all’Assemblea costituente (1946-48), fece parte della cosiddetta commissione dei 75, ove svolse un ruolo molto attivo nell’elaborazione dei principi penalistici, in generale sintonia con Giovanni Leone, al quale era legato da antica amicizia. Alla Costituzione Bettiol credette sinceramente, benché il suo giusnaturalismo cristiano di fondo lo rendesse talvolta distante da quegli equilibri fra le tre principali componenti politiche (cattolica, liberale e marxista) di cui veniva intessendosi la trama costituzionale. Lo dimostra il discorso da lui pronunciato nella seduta dell’Assemblea costituente del 26 marzo 1947:
Anche chi come me è piuttosto scettico sul valore delle formule giuridiche in genere e persino sul valore delle formule giuridiche costituzionali, che spesso vivono solo lo spazio di un burrascoso mattino e, più che alla legalità puramente formale dell’azione, crede alla sua moralità; anche chi come me non subisce l’incantesimo costituzionale […]: pure, di fronte a questo testo costituzionale […], è preso come da una specie di timore reverenziale (in Bettiol, Pellegrino 2009, p. 63).
Successivamente, Bettiol fu eletto parlamentare alla Camera dei deputati per quattro legislature (1948-68) e al Senato per due (1968-76); lungo un trentennio di intensa vita istituzionale fu anche presidente di diverse commissioni parlamentari e ministro della Repubblica. A quest'attività politica si affiancò anche l’esercizio, non intensissimo ma significativo, dell’avvocatura.
Si spense nella sua Padova, il 29 maggio 1982, appena tre settimane dopo aver tenuto, con il consueto vigore e una forte, presaga ispirazione, la lezione di congedo su Colpevolezza normativa e pena retributiva oggi.
Fieramente ostile a ogni forma di totalitarismo, il perno filosofico e politico del suo pensiero fu il personalismo cristiano dell’uomo concepito come valore assoluto in sé («Kant vince ancora!»; Colpevolezza normativa e pena retributiva oggi [1982], in Gli ultimi scritti, a cura di L. Pettoello Mantovani, 1984, p. 102). Manifestò diffidenza verso l’esaltazione acritica ed estremistica (allora non infrequente) della cosiddetta secolarizzazione del diritto penale, scorgendovi il rischio che rimanessero così in ombra le componenti forse meno razionalizzabili ma più moralmente significative dell’agire umano. Conseguentemente, l’orientamento del suo sistema è univocamente antiformalistico e rivela una certa insofferenza verso il razionalismo fine a se stesso delle forme giuridiche concettualistiche (vivace fu al riguardo la sua polemica con Francesco Carnelutti).
Metodologicamente, il suo diritto penale è forse il più incondizionatamente ‘aperto’ alla pregiuridica realtà dei valori: compito ineludibile di chi fa e di chi interpreta le leggi penali è quello di tradurre normativamente i valori. Tra questi primeggia quello della persona umana che, in quanto essere raziocinante e morale, è capace di guardare e parlare a se stesso, ai propri simili e al mondo sociale che lo circonda, alla dimensione trascendente spiritualmente esistenziale. Ma quest'idea dell’uomo come valore fondante del sistema penale, benché non lontana da certi indirizzi eticizzanti del giusnaturalismo, non coincide interamente con il modello ottocentesco della scuola classica del diritto penale. Invero, se in quest’ultima l’essere umano è ancora concepito quale astrazione quasi meccanicistica, nel pensiero di Bettiol si agitano invece consapevolezze esistenzialistiche che lo portano a spingere lo sguardo nelle profondità complesse della personalità dell’uomo concreto.
Sulla base di queste premesse, Bettiol costruì il suo sistema di pensiero penalistico alieno da ogni eclettismo, finendo piuttosto per incarnare l’allora vivace polemica, o meglio contrapposizione, tra retribuzione e difesa sociale quali chiavi di volta alternative sulle quali fondare l’intero edificio penale. E il suo rifiuto dell’idea della difesa sociale riguardava non soltanto quella radicale di matrice positivistica o sociologica, ma anche quella d’intonazione umanistica denominata nuova difesa sociale.
La compattezza del sistema bettioliano rende disagevole procedere a una sua esposizione per parti nettamente distinte. Peraltro, è anche vero che egli, rifiutando una considerazione unitaria del reato per i connessi rischi intuizionistici e irrazionalistici, aderì molto convintamente alla concezione analitica tripartita del reato (fatto tipico, antigiuridicità, colpevolezza) seguendo così le orme del suo maestro Delitala e distaccandosi invece dalla bipartizione patrocinata nell’altro manuale imperante insieme al suo dal dopoguerra, ossia quello di Francesco Antolisei.
E a ben vedere non poteva che essere così, poiché solo nella concezione tripartita le ‘aperture’ del pensiero di Bettiol potevano avere spazio. L’antigiuridicità, in primo luogo, spalanca la porta alla considerazione dei valori antagonistici a quelli penalmente tutelati e circolanti nella storica vitalità dell’ordinamento complessivo. Ma è soprattutto la terza categoria dogmatica della concezione tripartita che consente di dare alla colpevolezza quella rilevanza e autonomia etico-normativa negatele invece da una concezione meramente fattuale-psicologica del cosiddetto elemento soggettivo del reato, come avviene appunto nella concezione bipartita.
Nonostante il ruolo centrale attribuito da Bettiol alla colpevolezza nella sistematica del reato, egli non arretrò mai di un centimetro sul terreno – spiccatamente garantista – del fatto tipico di reato. Anche nei tempi bui delle dittature nazifasciste, anzi proprio allora, Bettiol fu inflessibile sull’esigenza prima di tutto politica che il reato s’incardinasse in un fatto materiale esteriore, contro ogni tentazione illiberale verso il cosiddetto Willensstrafrecht.
E successivamente fu anche sensibile all’ulteriore rafforzamento della componente oggettiva del reato proposto dalla cosiddetta concezione realistica del reato, secondo la quale non basta la corrispondenza alla previsione legale del fatto, occorrendo anche la sua concreta offensività dell’interesse – ‘valore’, nel lessico di Bettiol – tutelato dalla norma. E, ancor più in generale, l’ispirazione cristiana del suo pensiero non gli impedì però di stagliare netta la differenza tra reato e peccato, affermando il principio per cui, se la retribuzione morale è il fondamento della pena, la necessità sociale della repressione costituisce il limite all’opzione incriminatrice del legislatore. Una sorta di principio di extrema ratio formulato ante litteram, prima cioè che esso divenisse ai giorni nostri quasi uno slogan dei moderni programmi di politica criminale.
Rimane però incontestabile la posizione davvero centrale della colpevolezza nel sistema di Bettiol, come del resto testimoniano la frequenza dei suoi interventi su questo tema e il fatto che la sua ultima lezione fosse ancora una volta a esso dedicata.
Premesso ovviamente il carattere normativo con cui Bettiol concepisce la colpevolezza, quale sinonimo cioè di rimproverabilità morale dell’azione, essa svolge coerentemente un duplice ruolo. Innanzitutto, quello di fondamento della pena, della responsabilità penale che non sarebbe razionalmente e moralmente giustificata in assenza di una soggettiva rimproverabilità del soggetto. In secondo luogo, quello di criterio di commisurazione in concreto della pena, di nuovo razionalmente e moralmente proporzionata alla gravità dell’illecito. A questo riguardo Bettiol, pur ben fermo sulle garanzie della legalità e della irretroattività della legge, non esita a dichiarare che
le uniche garanzie che sin dal ’45 mi permettevo di suggerire e che pur oggi hanno una valenza sono di natura sostanziale: esse sono la colpevolezza, la retribuzione, il rapporto di proporzione tra colpa e pena. Sono le sole che s’inseriscono in un’efficace difesa dei diritti dell’uomo (Diritto penale, 1982¹¹, p. VII).
Al termine della sua vita, quando ormai la produzione legislativa penale era già ispirata all’efficientismo prevenzionistico e caratterizzata da artificialità e caoticità normativa, Bettiol additava la colpevolezza come il pilastro sul quale, dopo la tipicità del fatto e l’antigiuridicità, la penalistica avrebbe dovuto impegnarsi per salvare il futuro del diritto penale.
Ma che cos’è questa colpevolezza per Bettiol? Egli non si limitò a porre questo concetto al centro della sua concezione del diritto penale filosoficamente orientata. Ne trasse tutte le potenzialità di significato, spingendosi verso orizzonti d’introspezione dell’uomo ove pochi in Italia avevano osato guardare, nel timore di favorire un’involuzione autoritaria della penalità. E fu proprio sul terreno della colpevolezza che si aprì, negli anni Settanta, una vivace polemica che costrinse Bettiol – qualificato come un ‘apprendista stregone’ – a ribadire ripetutamente come la sua valorizzazione della personalità nel giudizio di colpevolezza non prescindesse affatto dall’irrinunciabile presupposto di un fatto illecito materiale e offensivo. Comunque sia, lo ‘stregone’ rimase apprendista, poiché la colpevolezza, nonostante gli approfondimenti recati poi dalla riflessione penalistica, attende ancora oggi un più largo riconoscimento nell’esperienza applicativa quotidiana.
In effetti, una volta superata la riduttiva concezione di una colpevolezza puramente psicologica, quale nesso psichico tra il fatto e il suo autore, Bettiol spinse il giudizio di rimproverabilità oltre gli schemi sostanzialmente presuntivi della capacità d’intendere e di volere e della conoscenza o conoscibilità del precetto, avendo il coraggio di instaurare un nesso concreto tra rimproverabilità della volontà criminosa e personalità del soggetto.
E così, su questa strada indubbiamente tanto affascinante quanto inquietante, la colpevolezza finì per essere declinata come colpevolezza per l’atteggiamento interiore (quella Gesinnung e quel Gesinnungstrafrecht, che gli valsero gli strali del giovane Franco Bricola, tutto meritoriamente intento a ridare al diritto penale il suo volto costituzionale e liberaldemocratico), come colpevolezza per la condotta di vita in cui il reato s’inserisce quale episodio di un modo di porsi e vivere nel mondo sociale, come colpevolezza per il modo di essere in cui il reato costituisce la manifestazione di un’intera personalità che è venuta formandosi nel senso di una predilezione per il male.
Questo dispiegarsi della colpevolezza verso la personalità, lungi dal rappresentare una regressione del diritto penale verso un totalitarismo annientatore dell’individuo, ne esalta l’umanità, finendo così per essere la vera via per il riconoscimento del valore in sé della persona e dei suoi diritti fondamentali. Sullo sfondo di questa concezione, in qualche modo ‘drammatica’ nella sua pretesa di scandagliare – oltre gli schemi presuntivi offerti dalle formule giuridiche – il concreto processo motivazionale del reo, vi è indubbiamente la convinzione di un uomo libero di scegliere tra bene e male.
Ma non si tratta più di una libertà astratta, quasi sospesa in un vuoto umano e sociale: al contrario, nella complessità – spesso oscura – in cui si forma l’atto volitivo, solo la considerazione di tutti quei fattori che interagendo con la personalità fanno scoccare la decisione d’agire, può consentire un giudizio di colpevolezza realmente umano. A quale impresa è chiamato il giudice!
Date le premesse di cui sopra, è facile comprendere come per Bettiol la pena non possa che essere retribuzione in senso morale e giuridico. Su questo terreno la sua forza polemica diventa talvolta sferzante, come quando, per es., giudica addirittura ridicolizzante per il diritto penale l’infatuazione diffusa per le cosiddette misure alternative alla pena.
Bettiol non ebbe, dunque, nessuna simpatia per il principio rieducativo tanto innovativamente enunciato nell’art. 27, 3° co., della Costituzione, e in effetti sia lui sia Leone a esso furono sostanzialmente ostili durante i lavori della Costituente. L’art. 27 tanto fu valorizzato da Bettiol nel suo 1° comma, sulla personalità della responsabilità penale, quanto fu sottoposto a un’operazione di ridimensionamento nel suo 3° comma, spogliandolo di quel positivismo e soprattutto sociologismo criminologico che per altri avrebbe invece dovuto segnare il congedo dalla metafisica penale.
Per Bettiol, ferma l’essenza retributiva della pena, la rieducazione avrebbe potuto avere un qualche significato solo nel concreto momento esecutivo, nel senso di non ostacolare un sempre possibile processo emendativo – prima di tutto in senso morale – del condannato. Coerentemente a ciò, l’ostilità di Bettiol si estendeva anche alle misure di sicurezza, che nel suo sistema si collocavano naturalmente al di fuori del diritto penale.
La sua lunga e ferma battaglia contro il ‘mito della rieducazione’ non deve però far pensare a un orientamento aspramente repressivo e insensibile ai pericoli di inumana degenerazione della pena retributiva. Dell’art. 27, 3° co., egli valorizzò al massimo il principio di umanità della pena, sulla base del quale anche la pena capitale – seppure non rifiutata in linea assoluta – non può trovare che spazio eccezionale, e sempre fino a quando la naturale evoluzione del senso di umanità non la renda intollerabile.
Nella Prefazione alla citata ultima edizione del suo Diritto penale, a poche settimane dal suo commiato dal mondo scriveva:
L’unica vera riforma penale sarebbe la demolizione degli attuali istituti di pena e la costruzione di nuove città carcerarie che eliminassero la soffocazione dell’uomo recluso che è pur sempre un valore. Ma anche se spendiamo miliardi per ludi pubblici siamo un paese […] di povera gente! (Diritto penale, cit., p. VIII).
Gli anni ormai trascorsi da queste parole, ormai disgiunte dal ricordo della dolce inflessione veneta, rendono più alto e forte il monito che esse ci consegnano suonando ancor più vere e severe alle nostre orecchie.
Diritto penale: parte generale, Palermo 1945, Padova 1982¹¹.
Istituzioni di diritto e procedura penale. Corso di lezioni per gli studenti di Scienze politiche, Padova 1966, 20007 (dalla 4 ediz. del 1989 aggiornata da R. Bettiol).
Scritti giuridici, 2 voll., Padova 1966.
Scritti giuridici, 1966-1980, Padova 1980.
Gli ultimi scritti (1980-1982) e la lezione di congedo (6-V-1982), a cura e con prefazione di L. Pettoello Mantovani, Padova 1984.
Scritti giuridici: le tre ultime lezioni brasiliane, Padova 1987.
G. Marini, Giuseppe Bettiol: diritto penale come filosofia, Napoli 1985, rist. aggiornata 1992.
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G. Marinucci, Giuseppe Bettiol e la crisi del diritto penale negli anni Trenta, «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 2008, 3, pp. 929-46.
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