CATTOLICA, Giuseppe Bonanno Filingeri principe di
Nacque a Palermo alla fine di dicembre 1716, secondogenito del principe Francesco e di Anna Maria Filingeri e Ventimiglia. Ebbe educazione raffinata e probabilmente fu tra i primi allievi del Collegio imperiale dei nobili fondato a Palermo dai teatini nel 1728. Conclusi gli studi, compì lunghi e “dispendiosi” viaggi nel corso dei quali toccò le principali città d’Europa. Il 1º febbr. 1730, per la morte dello zio paterno Gaetano, fu investito del titolo di duca di Foresta, ma nel 1738, morto il fratello maggiore Antonino e presone il posto nella linea di successione ai titoli e beni paterni, dovette cedere il titolo ducale al fratello minore Giovanni. Il 24 dic. 1740, per la morte del padre, fu investito del titolo di principe di Cattolica, e di tutti gli altri ch’erano stati del genitore. Nello stesso anno gli venne confermato il titolo di grande di Spagna di prima classe, già concesso al padre (diploma esecutoriato nel Regno il 6 apr. 1748); nell’ottobre 1741 sposò Giustina Borromeo di nobile famiglia milanese, che però morì appena sei anni dopo – il 2 dic. 1747 – lasciandogli due figli.
Il 3 maggio 1744 il C. venne eletto capitano di Giustizia di Palermo e il 16 maggio prese possesso dell’ufficio, che resse con fermezza e autorità, eliminando alcuni degli elementi più facinorosi della città. Fra gli altri, catturò i fratelli Fama, che due anni dopo, mentre erano ancora in carcere, tentarono di vendicarsi dando mandato a due accoliti di ucciderlo. Ma la congiura venne scoperta, il C. sfuggì all’agguato e i colpevoli furono condannati all’esilio nelle isole Egadi. Il 5 dic. 1746 il C. acquistò dalla regia corte il feudo di Milicia, nei pressi di Canicattì, per 19.000 scudi e il 25 ottobre dell’anno successivo ne ricevette l’investitura.
Dopo la morte della moglie il nome del C. per circa un decennio non compare nella vita pubblica: cronache, diari e documenti nulla riportano di lui e probabilmente egli dedicò questi anni all’amministrazione dei suoi vasti e ricchi feudi. Nel 1759 il suo nome riaffiora tra quelli dei nobili più vicini al re: alla fine di agosto Carlo di Borbone lo chiamò a Napoli e il 5 ottobre, prima di partire per Madrid, lo insignì del cordone di cavaliere di S. Gennaro e lo assegnò al seguito del giovane re Ferdinando come gentiluomo di camera. Nell’agosto del 1760 il Tanucci lo designò a sostituire il principe di laci come ambasciatore a Madrid: Carlo III approvò la proposta e il 30 dicembre successivo, tramite Riccardo Wall, fece pervenire il suo gradimento direttamente al Cattolica.
Giunto a Madrid nell’aprile del 1761, il C. svolse scrupolosamente il compito affidatogli nelle istruzioni, che era quello “di obbedire, in tutto e per tutto, gli ordini sacri della Maestà del Re di Spagna”. Oltre a questo si deve aggiungere che la fitta corrispondenza intercorrente continuamente tra il Tanucci e Carlo III contribuì con certezza a condizionare ulteriormente ogni aspirazione del C. a libertà d’azione. D’altra parte non risulta che egli si sia mai lamentato di questo ruolo di secondo piano, anzi è probabile che il Tanucci lo avesse inviato a Madrid proprio perché gli riconosceva buone capacità di seguire le direttive impartite senza cedere alla tentazione di prendere iniziative, che avrebbero potuto compromettere i futuri sviluppi della sua politica.
Giudicato nel suo complesso, il contributo portato dal C. alla storia delle relazioni tra Napoli e Madrid può considerarsi positivo. Egli si rivelò attento osservatore, coscienzioso nel riferire a Napoli quanto Carlo III gli comunicava. Si adoperò anche per dissimulare la pesante ingerenza del re-padre negli affari del Regno di Napoli (anche in questo interprete della volontà di Carlo), e scriveva al Tanucci che sarebbe stato meglio, nel riportare il parere o la volontà di Carlo III in lettere confidenziali o ufficiali, non parlare di “ordini” per evitare che apparisse palese “la totale e dovuta dipendenza di Napoli dal volere dell’augusto Genitore, neppure in menoma parte, per non opporsi alla libera ed indipendente cessione delle due Sicilie fatta al Figlio e per non darsi alle Corti di ricorrere a Madrid”.
Il primo grosso problema che il C. dovette affrontare fu quello dell’accessione del Regno di Napoli al “patto di famiglia”. Il Tanucci non vedeva affatto di buon occhio questa alleanza e, scrivendone il 16 febbr. 1762 al C., affermava che era conveniente, per Napoli, mantenere una completa neutralità. Ma Carlo III era di ben diverso avviso e premeva sul ministro napoletano perché mutasse parere e il C., a sua volta, si sforzava di mettere in luce come il trattato potesse considerarsi una valida garanzia per tutti e tre i regni e non esitava a palesare il risentimento di Carlo per gli ostacoli che ancora si frapponevano all’adesione. Di fronte a tale insistenza il Tanucci a un certo punto sembrò cedere e con dispaccio del 17 sett. 1762 abilitò il C. a sottoscrivere il patto, insistendo – però – perché in una clausola venisse riconosciuto al re di Napoli il “diritto di alternativa” per i futuri trattati non previsto nel testo. Il C. si mise subito coscienziosamente all’opera ed elaborava un lungo memoriale che il 28 settembre inoltrò a Riccardo Wall ministro degli Esteri spagnolo, senza aver capito che l’inserimento della nuova clausola era un espediente escogitato dal Tanucci per ritardare la firma del patto, che quest’ultimo avversava perché temeva la irrequietezza della politica francese. La manovra ebbe successo: l’adesione al trattato fu rinviata e successivamente altri espedienti consentirono di ottenere lo stesso effetto fino a quando Carlo III non insistette più e al Tanucci riuscì quindi di evitare l’accessione al patto.
Altro problema che impegnò il C. durante la sua missione diplomatica fu la cosiddetta “quistione delle visite”. Conclusasi la guerra con l’Inghilterra (1763) i fermieri dei porti di Provenza cominciarono ad attuare un controllo rigoroso dei bastimenti napoletani, facendo improvvise e minuziose ispezioni a bordo: ciò suscitò la pronta reazione del Tanucci, che, anche per segreto suggerimento del re di Spagna, ordinò che lo stesso trattamento si applicasse nei riguardi dei bastimenti francesi che si trovavano o sarebbero arrivati nei porti del Regno. I diplomatici francesi fecero vibranti proteste e la corte di Parigi si appellò direttamente a Madrid dichiarando che i fermieri di Provenza avevano agito all’insaputa del governo e denunciando i soprusi della reggenza napoletana. Il Tanucci rintuzzò prontamente le tesi di Parigi e il C. ne sostenne adeguatamente l’azione, insistendo perché Carlo III ottenesse dal governo francese la instaurazione di un diritto di reciprocità nel trattamento delle navi. Ma egli non riuscì a risolvere la questione, che ancora nel 1766 era motivo di reciproche lamentele.
Nei quasi dieci anni di permanenza a Madrid il C. ebbe più volte prove tangibili della stima che era riuscito ad accattivarsi: nel marzo 1764 Carlo III lo insignì del Toson d’oro; all’inizio del 1766 lo segnalò al Tanucci per una pensione annua di 2.000 ducati e nel giugno dell’anno successivo intervenne decisamente perché non gli fosse impedito l’esercizio del “diritto di tratta” per 2.500 salme di grano all’anno, che egli aveva per antico privilegio e che il vicerè di Sicilia aveva sospeso per la carestia che aveva investito l’isola. Nel 1769 il re di Spagna manifestò ancora il suo interessamento per il C. esercitando pressioni sul Tanucci perché gli fosse assegnata la prima prestigiosa carica che si sarebbe resa libera a corte: anche questa richiesta venne esaudita e il C. fu nominato cavallerizzo maggiore della regina.
Durante la lunga permanenza in Spagna non perdette mai di vista i suoi interessi patrimoniali, cercando di aumentare la consistenza del patrimonio. In questa azione rientra l’acquisto dal principe Paternò-Moncada (marzo 1767) dei feudi di Gebbiarossa e di Grasta, confinanti con la terra Canicattì, appartenente già da tempo alla famiglia, acquisto che sembra sia costato 35.000 scudi. Nel 1766 il C. aveva preso moglie per la seconda volta, sposando Maria Teresa Caracciolo dei marchesi di Grumo, da Napoli, vedova del marchese di Torrecuso e già cameriera maggiore della regina madre Elisabetta Farnese.
Il C. rientrò a Napoli il 22 sett. 1770 e il nuovo incarico lo inserì nella vita di corte con ruolo autorevole. Nel complesso egli collaborò lealmente con il Tanucci, condividendone spesso idee e giudizi e informandolo più d’una volta con ricchezza di particolari di quanto si faceva o si diceva nell’entourage di Maria Carolina. Ma talvolta vi fu qualche contrasto tra le tesi sostenute dai due uomini politici. Questo, per es., avvenne quando il C. prospettò al Tanucci l’opportunità di incominciare a mettere privatamente al corrente la regina dei più importanti problemi politici, facendosi portavoce della volontà di Maria Carolina di partecipare alla vita politica del Regno. Il Tanucci invece, mentre concordava col C. nel riconoscere che la partecipazione in forma attiva e ufficiale della regina alla vita politica poteva offrire qualche vantaggio, perché era ben nota l’influenza da lei esercitata sul sovrano, per altro verso non si mostrava entusiasta del progetto e scrivendone a Carlo III l’11 ag. 1772 esprimeva il parere che in ogni caso una tale innovazione non si potesse introdurre senza un’esplicita approvazione del re.
Le occupazioni e preoccupazioni della vita di corte non distolsero il C. dall’intenzione di rimettere in sesto il suo patrimonio che al ritorno in Italia aveva trovato in grave deficit. Nel luglio 1771 cercò di ottenere dai Banchi di Napoli, con l’appoggio del sovrano, un prestito di 120.000 ducati. I delegati dei Banchi interpellati, in linea di massima, non sarebbero stati restii ad aderire alla richiesta, ma avanzarono alcune riserve, perché temevano che l’uscita da Napoli di una tale somma avrebbe potuto generare un certo panico fra i risparmiatori e indurli al ritiro improvviso dei depositi. Il Tanucci, per evitare una tale iattura, proponeva al re che il prestito, al 4%, venisse concesso dalla Tavola di Palermo, che avrebbe versato prima 84.000 ducati, prelevandoli dalle rendite dei beni sequestrati ai gesuiti, e avrebbe pagato il resto della somma a mano a mano che fossero maturate altre rendite degli stessi beni.
Il C. intanto, nel settembre, nell’attesa che si concludesse questa grossa operazione bancaria, chiedeva che gli venissero pagati 1.400 ducati come arretrati del suo assegno di gentiluomo di camera, e qualche mese dopo anche la pensione di 2.000 ducati, che il re era solito concedere “ai capi di Corte”. Il Tanucci l'11 febbr. 1772 ne scriveva a Carlo III perché desse il suo parere e faceva il conto che ben presto il C. avrebbe cumulato assegni per ben 12.000 ducati annui. Ma una lettera del Tanucci stesso, di tre anni dopo (13 giugno 1775), ci attesta che a quella data non solo non era stata ancora liquidata al C. la pensione di “capo di Corte”, ma anche che dei tanti emolumenti, che avrebbe dovuto incassare, in effetti gli veniva pagata solo la pensione di 2.000 ducati concessagli nel 1770 da Carlo III.
Nel 1773 il C. stava per essere nominato membro del Consiglio di Stato, ma il Tanucci, pur avendo stima della persona, mostrò una chiara ritrosia a fare la nomina perché temeva che essa potesse scatenare “una guerra nazionale” tra nobili napoletani e siciliani, in quanto di quel consesso facevano già parte due siciliani. Ciò non interruppe la collaborazione del C. con il Tanucci che si fece ancora più intensa dopo le tristi giornate della rivolta palermitana contro il viceré Fogliani (19 e 20 sett. 1773). Allora prima preoccupazione del C. fu di porre in evidenza che il moto era stato provocato dal malgoverno del Fogliani e dalla penuria di viveri; nello stesso tempo, operando in altra direzione, egli fece in modo che parenti e amici in Palermo agissero in modo di calmare gli animi. Con altri otto nobili siciliani fu chiamato dal re a formare una giunta speciale destinata a studiare le cause della rivolta e a proporre i rimedi ritenuti più opportuni per evitare che si ripetessero episodi del genere. Le notizie e i pareri dati dal C. sullo stato dell’ordine pubblico, sull’orientamento dell’opinione dei cittadini di Palermo, sulle decisioni da prendere furono tenuti in grande considerazione, e il sovrano volle ancora sentirne il parere prima di comunicare al viceré i nomi che avrebbe dovuto proporre al Parlamento di Sicilia, convocato per il 15 giugno 1774 per l’elezione dei deputati del Regno.
Nel luglio dello stesso anno il C. intercesse presso il re perché con un atto di clemenza contribuisse a un più rapido ritorno della tranquillità a Palermo e verso novembre chiese, a nome della Deputazione del Regno, una moratoria per i titolati del Regno perché essi potessero far fronte senza assillo ai debiti verso la Corona. Su quest’ultimo argomento ritornò nel giugno del 1775, lamentando la rigidezza dimostrata dal viceré Marco Antonio Colonna, principe di Alliano, nel pretendere il pagamento immediato dei debiti che i nobili avevano verso il Senato di Palermo e gli altri creditori.
La preoccupazione per il mantenimento dell’ordine pubblico in Sicilia, che andava di pari passo con la difesa degli interessi del baronaggio isolano, non aveva impedito al C., appena due mesi prima che scoppiasse il moto contro il Fogliani, quando già la penuria dei viveri era evidente, di chiedere il mantenimento di un privilegio che gli consentiva la tratta di 2.500 salme di grano, che il viceré voleva impedire. La stessa richiesta venne sollevata nel 1775 e ancora una volta, nonostante i timori di carestia che giustificavano la proibizione del vicerè, il principe aveva la meglio perché un dispaccio reale del 3 ottobre gli confermava l’esercizio del privilegio.
L’episodio è un’altra conferma della stima che il re aveva per il C., condivisa pienamente da Maria Carolina, che fra l’altro a lui si era rivolta nel carnevale del 1774, perché persuadesse il sovrano a ripristinare la tradizione dei balli in maschera al S. Carlo, e che da lui amava farsi accompagnare ai banchetti dei frammassoni, quando, infatuata della loro attività, prese a proteggerli. Nell’aprile 1775 il C. fu nominato cavallerizzo maggiore del re.
Dopo la caduta del Tanucci e l’assurgere al potere del marchese di Sambuca la sua influenza in seno alla corte dovette subire una certa flessione, e questo pure per effetto della notevole gelosia suscitata fra i nobili siciliani dalla potenza della sua famiglia e che può avere indotto il nuovo ministro, siciliano anche lui, a emarginare lentamente il Cattolica.
Questi si spense in Napoli il 28 nov. 1779 e venne sepolto nella chiesa dei cappuccini.
Fonti e Bibl.: Archivo General de Simancas, Secretaria de Estado, Reino des las Dos Sicilias, leg. 5869, n. 71, f. 178; leg. 5871, n. 28, f. 96; leg. 5900, n. 19, f. 85; libro 320, n. 39, ff. 72-82; libro 321, n. 2, ff. 1-4, n. 58, ff. 84-90, 146-154; libro 336, n. 30, ff. 62-67, 107-115, 116-120; libro 337, ff. 87-93, 147-154; libro 340, n. 22, ff. 39-41, 61-63; libro 352, n. 30, ff. 181-183; leg. 6100, n. 29, ff. 118-120; Archivio di Stato di Palermo, Notai defunti (S. D. Bruno), vol. 11.375 (Minute 1779-80), ff. 378 ss.; vol. 11-408 (Registri 1779-80), ff. 45 ss.; A. Mongitore, Diario palermitano, in G. Di Marzo, Bibl. stor. e lett. di Sicilia, IX, Palermo 1871, pp. 229, 231, 254-255, 328; X, ibid. 1872, pp. 48, 93, 95, 136; F. M. Emanuele e Gaetani di Villabianca, Diario palermitano, ibid., XII, ibid. 1873, pp. 53, 59, 80-81, 106, 117, 406; XIII, ibid. 1874, pp. 22, 25, 52, 159; XIV, ibid. 1875, pp. 12, 264; XVI, ibid. 1875, pp. 12-13, 59, 319, 350-351; XVII, ibid. 1879, pp. 70, 353-354; B. Tanucci, Lettere a Ferdinando Galiani, a cura di F. Nicolini, Bari 1914, I, pp. 72, 85 s., 98; II, p. 297; E. Viviani della Robbia, B. Tanucci e il suo più importante carteggio, Firenze 1942, I, pp. 104, 125, 194-195, 211, 315; II, pp. 392, 394, 425; Lettere di B. Tanucci a Carlo III di Borbone (1759-1776), Regesti, a cura di R. Mincuzzi, Roma 1969, ad Indicem; F. M. Emanuele e Gaetani di Villabianca, Della Sicilia nobile, Palermo 1754-1759, I, 2, p. 42; II, pp. 291, 359, 386; III, pp. 228-229; Id., Append. alla Sicilia nobile, I, Palermo 1775, pp. 37-39; G. E. Di Blasi, Storia cronol. dei viceré, presidenti, luogotenenti del Regno di Sicilia, Palermo 1842, pp. 537, 544 s., 597, 599, 651; V. Amico, Diz. topografico della Sicilia, I, Palermo 1855, 1, pp. 305, 306; P. Calà Ulloa, Di B. Tanucci e dei suoi tempi, Napoli 1875, pp. 44, 46, 53, 55, 66, 68, 83, 94, 96-97, 123, 133; G. B. Caruso, Storia di Sicilia, IV, Palermo 1877, pp. 397, 486, 487, 491, 593-594; M. Danvila y Collado, Reinado de Carlos III, II, Madrid 1892, pp. 174, 200, 253, 351, 353 s., 356, 361, 3711, 392 s., 395, 402, n. 2; M. d’Ayala, I Liberi Muratori di Napoli nel sec. XVIII, in Arch. stor. per le prov. nap., XXII (1897), pp. 568, 570; C. Losurdo, Tanucci e la Reggenza al tempo di Ferdinando IV, Bari 1911, pp. 12, 15-16, 18, 24, 26, 45-47, 59, 65, 66-67, 79, 80, 81-83, 85, 106, 119; M. Schipa, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo Borbone, II, Milano 1923, p. 19; F. San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia, Palermo 1924-29, II, p. 461; III, pp. 333 s.; V, p. 170; VI, p. 254.