CAPECE ZURLO, Giuseppe
Nacque a Monteroni di Lecce il 3 gennaio del 1711 dal principe Giacomo e da Ippolita Sambiase dei principi di Campana. A undici anni egli venne ammesso nell'alunnato dei teatini presso la casa di S. Paolo a Napoli, dove il 6 gennaio 1727 fece la solenne professione. Qui si distinse per l'esemplarità di vita, conseguendo l'incarico di maestro dei novizi. Ordinato sacerdote il 19 dic. 1733, divenne lettore di filosofia e di teologia, e quindi ricoprì le cariche di vicario e vicepreposito nella casa di S. Silvestro a Roma. Il 24 maggio 1756 fu preconizzato vescovo di Calvi e Teano e il 27 maggio fu consacrato dal cardinale Giuseppe Spinelli.
Nel governo della diocesi il C. si preoccupò soprattutto della formazione della gioventù e del clero locale, rinnovò e ampliò il seminario, portandone la capienza da ventidue alunni nel 1756 a sessanta nel 1777; come testi di teologia dommatica e morale confermò i trattati di Habert e Antoine. Promosse lavori di abbellimento della cattedrale, arricchendola di scale marmoree, di un nuovo altare con le reliquie di s. Casto e di una nuova sacrestia con dipinti di Angelo Mozzilli. Anche la residenza vescovile fu restaurata. Le relazioni, che il C. inviò a Roma regolarmente ogni triennio, sono ricche di lodi per i costumi e il comportamento del clero secolare e regolare ed esaltano il costante accordo con l'autorità civile, da cui non veniva alcun attentato all'immunità ecclesiastica. Fu forse questo ottimismo nel considerare i rapporti tra Stato e Chiesa nel Regno, proveniente da un carattere portato alla cedevolezza e al compromesso, a farlo considerare adatto a ricoprire più importanti incarichi.
Il 16 dic. 1782, per volere di Ferdinando IV, fu designato a succedere nella metropoli del Regno all'arcivescovo Serafino Filangieri. Il C., insignito intanto della dignità cardinalizia (16 dicembre), giungeva a Napoli il 24 dicembre 1782, dopo aver tentato invano di declinare la nomina a causa della sua "decrepita età": era in effetti privo delle necessarie energie che un compito così gravoso richiedeva.
La sua attività pastorale è caratterizzata da una serie di iniziative instancabili ma inadeguate alle nuove esigenze culturali. Ebbe particolarmente a cuore l'istruzione religiosa del popolo, per cui favorì l'istituzione del Monte della dottrina cristiana; incrementò inoltre le cappelle serotine, create da s. Alfonso de Liguori, aggiornandone il regolamento. Una cura particolare fu riservata alla formazione del clero: le Regole dell'arcivescovo Giuseppe Spinelli furono sostituite da un nuovo Regolamento, scritto dallo stesso C., meno rigido e più rispettoso della libertà di coscienza dei seminaristi, ma certamente non originale né innovatore. Anche la riapertura dell'Accademia di scienze ecclesiastiche, fondata dallo stesso Spinelli nel 1741 e poi estintasi, va interpretata come un tentativo di elevazione culturale del clero, nonostante i suoi limiti, oltre che come uno strumento atto ad arginare il "dilagare dell'Enciclopedismo", vero responsabile, secondo quanto afferma il C. nelle sue pastorali, di tanti sconvolgimenti sociali, politici e religiosi.
Le numerose iniziative soprattutto devote, ma non sempre prive di valore, intraprese dal C., non riuscirono però a sopperire alla mancanza di idee creatrici né alla scarsa individuazione dei problemi e delle disfunzioni della diocesi napoletana: ne sono una prova le sue tre Relationes ad limina (1785-1790-1795)e i tre volumi delle visite pastorali (1783-85; 1791-94).Anche le numerose lettere pastorali generalmente confermano, con il loro silenzio sui reali problemi della società napoletana, una grave incapacità di coglierne la portata.
Nelle difficili circostanze politiche in cui si trovò ad operare, sempre interessato esclusivamente e forse anche ingenuamente - e cioè con visibile mancanza di senso storico - al bene spirituale del suo gregge, cercò di salvare le istituzioni ecclesiastiche, destreggiandosi, spesso con scarso successo, nei difficili e vincolanti rapporti con il potere costituito.
Ma già nei tempi in cui la sua amicizia con la famiglia reale assicurava una certa armonia tra la monarchia e la Curia, non mancarono difficoltà e incidenti destinati ad alienargli la simpatia e l'appoggio ora da parte del re, ora da parte della S. Sede. Significativa è la sua posizione nella celebre causa di scioglimento del matrimonio del duca di Maddaloni Marzio Domenico Carafa con la contessa di Acerra Maria Giuseppa de Cardenas: avendone egli fatta inserire la sentenza nei registri parrocchiali per le pressioni della corte, fu rimproverato da Pio VI per la "debolezza soverchia nell'adempimento del suo ministero apostolico" (I. Rinieri, Della rovina di una monarchia..., Torino 1901, p. 292).
Anche in altre occasioni egli diede prova di scarso vigore nel sostenere i diritti della S. Sede, ma con insolito coraggio e libertà di espressione seppe difendere le costituzioni dei regolari del Regno quando, nel 1788, Ferdinando IV promulgò leggi limitatrici dell'autonomia degli ordini religiosi (Vat. lat. 8350, ff. 445-60).I suoi rapporti con la famiglia reale si mantennero comunque cordiali fino al 1799:l'arcivescovo accettava l'invadenza del governo anche negli atti di più specifica giurisdizione ecclesiastica, purché fosse salvo il bene spirituale della diocesi, e si prestava premurosamente e pazientemente a celebrare tutte le ricorrenze che segnavano la vita della corte (Napoli, Arch. dioc., Diari dei cerimonieri, vol. XIX).
Dopo aver disapprovato nel dicembre 1798 la decisione del re di abbandonare la città per rifugiarsi in Sicilia a bordo di una nave inglese, con la creazione della Repubblica partenopea il C. non usò del suo prestigio per screditare il nuovo regime sorretto dalle armate francesi. Fu questa "omissione" che in sostanza i realisti gli rimproveravano con la restaurazione, più che una serie di dichiarazioni pubbliche estortegli con gravi minacce (si vedano le convincenti giustificazioni del C. stesso nel memoriale pubblicato da F. Gabotto, Un episodio del '99 a Napoli. L'arcivescovo,il governo repubblicano e la ristorazione, in Rass. pugliese, XII [1895], pp. 82-91).Già subito dopo l'ingresso dei Francesi egli aveva ordinato l'esposizione del SS. Sacramento "pro gratiarum actione" in tutte le chiese; poi, essendogli stato fatto intendere che alla sola condizione di garantire egli "la sicurezza de' Francesi e di far sopportare pazientemente al Popolo il nuovo governo e la nuova legge che si voleva imporre, la Religione Cattolica sarebbe rimasta in questo paese tollerata ed anche garantita" (ibid., p. 841, consentì a firmare una lettera pastorale (datata 15 marzo 1799) stesa da Vincenzo Troisi, dopo che gli era stato falsamente assicurato che avrebbe potuto introdurvi delle modifiche.
In essa (che rappresenta uno dei più validi esempi di come i giacobini volessero e sapessero utilizzare l'influenza del clero per mantenere l'ordine) veniva ricordato ai fedeli l'obbligo, secondo il precetto paolino, di obbedire alle autorità costituite, tanto più che il nuovo governo prometteva la felicità pubblica e il rispetto della religione. Venivano anche chiariti nei loro limiti i concetti di libertà e di eguaglianza. Il primo escludeva "ogni atto... il quale offenda il buon ordine pubblico o privato, la sicurezza delle proprietà, delle sostanze, e della vita, la pacifica tranquillità delle famiglie, la decenza de' costumi, la pratica onestà, il decoro della Religione"; il secondo voleva "che tutti devono obbedire alla Legge, cosicché sarà pronto il castigo qualunque siasi il violatore" e che ogni individuo "sia pari ad ogni altro nel diritto di aspirare agli impieghi dei suoi talenti, e di esser premiato per le sue lodevoli azioni".
Maggiori resistenze il C. oppose alla sottoscrizione del proclama del 5 apr. 1799, contro il cardinale Ruffo, ingiuntagli dal ministro degli Interni Francesco Conforti sotto la minaccia di essere ritenuto responsabile "di tutto il male che sarà per cadere su di voi e su dell'intero vostro Clero, entrambi come apertamente dichiarati nemici del buon ordine, dell'ubbidienza alla legge, della libertà e della Patria": egli finì per cedere anche questa volta, pur se volle attribuire la materiale risoluzione di consentire la pubblicazione del documento al vicario capitolare da lui inviato dal Conforti per indurlo a recedere dal suo proposito (ibid., p. 91).
Nel proclama si accreditava "l'orribile voce... che il Cardinale Ruffo abbia assunto nelle Calabrie il nome di Romano Pontefice, e che con l'abuso di questa Sagra Autorità si affretti a sedurre que' Popoli, incitandogli a delitti di ogni genere, e alla più sanguinosa strage" e si ricordava che "il mascherato pontefice... è fulminato con tutte le Censure della Chiesa, è trabalzato da tutti i gradi della Gerarchia, è separato dalla Comunione Cattolica, ed è esposto alle maledizioni di Dio e degli uomini"; il popolo era quindi invitato a non seguire il Ruffo nella sua azione contro il governo repubblicano "organizzato sugl'inviolabili e sagri diritti del genere umano".
Emblematico della debolezza del C. fu il comportamento da lui tenuto il 28 apr. 1799, quando il Conforti lo invitò, minacciandolo in caso contrario di fucilazione, a revocare ai confessori ordinari la facoltà di assolvere le persone conspirationem contra rem publicam sollicitantes, riservandola all'arcivescovo. Il C. rimise ogni decisione al capitolo della cattedrale, cosicché la firma di approvazione del "caso di coscienza" fu posta dal vicario generale e non da lui.
Il 2 luglio 1799 mentre ancora i giacobini opponevano una resistenza residua alle soverchianti forze del Ruffo, il C. fu pronto a pubblicare una nuova pastorale, questa volta inneggiante alla monarchia borbonica restauratrice della pace e della "solida e vera libertà" dopo "una fierissima burrasca di sciagure ed afflizioni". Ma queste non erano finite per il quasi nonagenario C., che non trovò alcuna comprensione da parte dei sovrani, e soprattutto da parte di Maria Carolina, i quali, negatagli udienza, lo costrinsero a partire l'8 agosto alla volta di Montevergine, donde dopo oltre un anno di silenzio, egli si risolse a scrivere un memoriale autoapologetico (12 sett. 1800) che non giunse mai a Ferdinando IV.
Poco prima di morire, il C. stava probabilmente per rassegnare le sue dimissioni come risulta da una lettera del Consalvi al card. Ruffo (6 nov. 1801), in cui si comunica che il papa avrebbe accolto "la rinunzia che il signor cardinale Zurlo intende di fare della chiesa arcivescovile di Napoli" (I. Rinieri, cit., p. 516).
Il C. morì nel monastero di Montevergine il 31 dic. 1801 e i funerali furono celebrati a Napoli senza pompa alcuna. Solo nel 1806 al ritorno dei Francesi nel Regno, la salma del C. fu trasportata nel duomo con solenni onoranze: ciò contribuì ad accreditare l'equivoco della sua adesione alle idee giacobine.
Fonti e Bibl.: Manca una biogr. critica del Capece Zurlo. Si vedano: N. Candia, Elogio stor. all'arcivescovo G.C.Z., Napoli 11837; L. Loreto, Mem. stor. dei vescovi ed arcivescovi della S. Chiesa napolitana..., Napoli 1839, pp. 227-230; L. Parascandolo, Mem. storiche-critiche-diplom. della Chiesa di Napoli, IV, Napoli 1851, pp. 161-163; D. M. Zigarelli, Biografie di vescovi e arcivescovi della Chiesa di Napoli, Napoli 1861, pp. 241-260. Altri dati in: Arch. Segr. Vat., Proc. Dat. 158, ff. 116 ss.; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica.... VI, Patavii 1958, pp. 33 s., 141, 304. Sull'attività pastorale a Calvi: Arch. Segr. Vat., Arch. della Congr. del Concilio,Relationes ad limina,Calven., 1759, 1762, 1765, 1772, 1777, 1780; A.Ricca, Osservazioni… su l'antica Calvi di D. Mattia Zona, Napoli 1835, pp. 200-225. Sul periodo napoletano: C. Caristia, Il giansenismo regalista, in Riflessi politici del giansenismo ital., Napoli 1965, pp. 245-248, e R. De Maio, Società e vita relig. a Napoli nell'età moderna (1656-1799), Napoli 1971, ad Indicem (entrambe con ricca indic. di ulteriori fonti e bibliografia).