CAPECELATRO, Giuseppe
Nacque a Napoli il 23 sett. 1744 da Tommaso dei duchi di Morrone e da Maddalena Perrelli dei duchi di Montestarace. Fece i suoi primi studi nel collegio di famiglia Capece, poi in quello dei nobili tenuto dai gesuiti; quindi frequentò l'università, dove ebbe a maestri Antonio Genovesi, Giuseppe Pasquale Cirillo, Alessio Stefano Mazzocchi. Appena ordinato sacerdote (19 dic. 1766), fu promosso canonico della cattedrale; il 29 genn. 1770, seguendo l'esempio di molti esponenti del clero partenopeo, si iscrisse alla Congregazione delle apostoliche missioni.
Dalle prime esperienze pastorali prese ispirazione l'opera Delle feste de' cristiani (Napoli 1771). Il C. deplora l'uso invalso di adempiere il precetto festivo ascoltando una messa privata in "un sol quarto d'ora" (p. 106); nega, in polemica esplicita con i pastori lassisti e più ancora in antitesi con L. A. Muratori, che ciò sia il sintomo di una mutata mentalità e di nuove esigenze economico-sociali; egli sostiene che l'intero giorno festivo è da considerare sacro e che dall'assoluta astensione dai lavori servili, necessaria per la osservanza, traggono i maggiori vantaggi "non solo la religione, ma lo stato ancora" (p. 1), per l'affinamento della coscienza a tutti i livelli sociali che ne deriva. Ma nell'opera sono ancora da segnalare la denunzia che "la sregolatezza degli ecclesiastici è l'origine della corruttela dei popoli" (p. 221) e la polemica contro il culto del cuore carneo di Gesù, curiosamente bilanciata da una compiacente difesa del miracolo di s. Gennaro.
Grazie all'appoggio dello zio materno, card. Nicola Perrelli, il C. poté trasferirsi a Roma nell'intento d'intraprendervi la carriera curiale. Frequentò la Sapienza, conseguendo il dottorato in utroque iure l'11 maggio 1773. Ottenne l'impiego di referendario delle due Segnature e quello di avvocato concistoriale, che tenne fino alla promozione vescovile. Sono di questi anni una sua Dissertatio ad titulum codicis de legatis et fideicommissis (Romae 1773) e la Bucolica di P. Virgilio Marone tradotta in italiano in versi sdruccioli (Napoli 1775).
Il 30 marzo 1778 fu promosso arcivescovo di Taranto, anche in seguito a un intervento del Tanucci in Consiglio di Stato (Viviani della Robbia, II, p. 502). Consacrato a Roma il 12 apr. 1778, tentò di risiedere a Taranto; ma difficoltà di acclimatamento lo costrinsero a tornare a Napoli per due lunghi periodi nel primo decennio di episcopato.
La Lettera sulla conchiliologia de' mari di Taranto (Napoli 1780), inviata a Caterina II di Russia con una collezione di conchiglie, e la Memoria sui Testacei di Taranto classificati secondo il sistema del ch. Linneo (Napoli s.d.), dedicata a Gabriele di Borbone (in data Taranto, 30 maggio 1782), documentano anche l'ambiguità della personalità del C., diviso tra la propensione a condurre una brillante vita aulica nella capitale e la pur sentita preoccupazione di interessarsi alle condizioni del popolo tarantino. La Memoria, oltre a classificare 84 specie di Testacei e a tentare dai reperti fossili argomentazioni in favore del diluvio biblico, presenta la possibilità di sfruttamento dei Testacei a scopo alimentare e ornamentale, e dei loro detriti per l'arricchimento della calce muraria (p. 35).
Intanto l'incremento demografico registrato in quegli anni nel Regno di Napoli, con il conseguente aumento della natalità e della mortalità infantile, aveva reso frequente l'amministrazione del battesimo in casi urgenti da parte di levatrici o di altre persone poco istruite. A Martina Franca, ch'era la città più popolosa dell'archidiocesi (12.000 ab.) dopo Taranto (18.000 ab.), sorse allora il dibattito sulla necessità o meno di reiterare il sacramento. Il C. intervenne con la Lettera pastorale o sia istruz. canonica sul battesimo cristiano scritta per uso de' parrochi di sua archidiocesi (Napoli 1785; 2 ed., ibid. 1817).
Egli optò per la non iterazione, nemmeno condizionata, allorché constava della retta amministrazione: i parroci non cedessero, quindi, ad apprensioni o superstizioni. Ma questo caso gli offrì l'occasione per delineare l'ideale figura del sacerdote che intendeva formare nella sua diocesi: i preti dovevano essere ministri "utili al popolo, non solamente nella vita spirituale, ma eziandio ne' pubblici bisogni della società" (2 ed., p. 200), nella convinzione che soprattutto nelle parrocchie rurali solo essi fossero in possesso della cultura sufficiente per aiutare i contadini a migliorare le proprie condizioni. Per questo preannunziò l'erezione nel seminario, oltre che di una cattedra di agricoltura, anche di una di chirurgia, perché i curati, aderendo all'insegnamento autorevole del canonista van Espen, divenissero capaci di eseguire il taglio cesareo e così garantire il battesimo nei parti difficili (pp. 199 s.). La pastorale ebbe una certa diffusione nel Regno di Napoli e fu tradotta in francese dall'abate Clemaron. Come sfondo teologico vi si intravvede la polemica sulla salvezza eterna dei bambini morti senza battesimo. Rigorismo dogmatico ed etico fanno da supporto alle risoluzioni ispirate al riformismo illuminato. Ma non mancano tracce di acriticità, soprattutto dove sono descritti i parti mostruosi, frutto talora di "abominevole commercio degli uomini colle bestie" (pp. 251 s.).
Eppure è proprio l'avversione al leggendario (ormai affinata in materia agiografica negli ambienti colti) che lo porta a promulgare nel 1787 una nuova ufficiatura di s. Cataldo, patrono principale dell'archidiocesi. Il C. non chiese l'approvazione né della S. Sede né della corte di Napoli. Ciò favorì tenaci resistenze soprattutto a Martina Franca. Chiamato a Napoli ad audiendum verbum, ottenne il parere favorevole dei teologi di corte, i quali però auspicarono che in simili casi il vescovo ottenesse previamente il regio assenso (Auletta, pp. 14-16). Fu inoltre sottoposto al giudizio del ministero della Guerra, perché aveva dato di propria iniziativa quasi tono di ufficialità ai cosiddetti "giochi militari", specie di giostra popolare in occasione della festa di s. Cataldo. Assolto, rimase a lungo argomento di riprovazione nei dispacci del nunzio pontificio (Rinieri, pp. 248-251; Savio, pp. 244-252).
A Roma tra l'altro fu inviata in copia una lettera del 1º giugno 1787 in cui il C. dichiarava le proprie convinzioni episcopaliste e regaliste: come vescovo si riteneva investito di autorità direttamente da Dio; nessuna disposizione di predecessori poteva vincolarne l'attività pastorale; le autorità politiche napoletane, vietando il ricorso a Roma anche per provvedimenti liturgici, miravano a ristabilire i vescovi nel possesso dei propri diritti originari (Savio, pp. 242-244).
Il C. si trovò in tal modo coinvolto nel conflitto giurisdizionale tra Roma e Napoli. Per istanza probabilmente dell'Acton pubblicò anonima l'opera sua di maggior scalpore: Discorso istorico-politico dell'origine,del progresso e della decadenza del potere de' chierici su le signorie temporali (Filadelfia s.d., ma Napoli 1788; 2ed., ibid. 1820).
Come L. A. Muratori (espressamente citato, 2 ed., p. X) il C. si propone di "rispettare" il carattere sacro del papa, ma di contrastare le distorsioni che avevano spinto da secoli i papi e il clero a usurpare il potere temporale a detrimento della "suprema ragion di stato spirituale" (p. 69). Appellandosi al Sarpi riconosce nello stesso celibato ecclesiastico una misura dettata dalla sete di potere, ne dichiara, il radicale contrasto con le leggi di natura e conseguentemente l'antievangelicità, posto che Cristo era venuto non a distorcere, ma a perfezionare la natura. Dalla Istoria civile dell'"illustre Pietro Giannone" (p. 55) attinge la documentazione relativa al concubinato degli ecclesiastici e quanto, inoltre, giovava a dimostrare infondati i pretesi diritti della corte di Roma sul Regno di Napoli. Pur nei termini aspri, comuni ad altri scritti polemici del momento, il C. sembrerebbe auspicare uno svuotamento del potere politico della religione e una forma di presenza, ch'egli non riesce a teorizzare, ma che intravvede analoga alla irenica rappresentazione che si è fatta dei filosofi: "I Newton, i Galilei, i Cartesii, i Loki, i Bayli, e tanti altri non furono autori di dissensioni civili come lo furono sempre le controversie teologiche: in ogni pagina della storia gli arriani, li unitarj, i millenarj, i sociniani, gli armeniani, i giansenisti, i molinisti, misero in movimento le intestine sedizioni e turbarono la tranquillità delle nazioni" (p. VII).
Elogiato dagli Annali ecclesiastici di Firenze (5 e 12 dic. 1788), il Discorso fu invece attaccato violentemente dal Giornale ecclesiastico di Roma (10 e 17 genn. 1789)e posto all'Indice con decreto del S. Uffizio del 29 genn. 1789. Il C.vide con amarezza tra i suoi avversari anche l'antico amico Stefano Borgia. Nel 1789 pubblicò anonime le Riflessioni sul discorso istorico-politico,dialogo del sig. Censorini italiano col sig. Ramour francese (Filadelfia, ma Napoli), in cui ribadiva quanto aveva scritto sul curialismo e contro il celibato. In appendice aggiungeva alcuni brani del sinodo di Pistoia sulle indulgenze, la riforma dei regolari e la monarchia papale. Anche le Riflessioni finirono all'Indice con decreto del 20 febbr. 1794.
A Roma si temeva che Taranto divenisse un focolaio riformistico simile alla Pistoia di Scipione de' Ricci (Savio, pp. 246, 251).In effetti le premesse dalle quali il C. si muoveva non potevano che spingere sulla via delle riforme in autonomia dalla S. Sede e in termini di contrasto. Nel 1789 dal sovrano ottenne di destinare al seminario le rendite di tre badie, una delle quali era concistoriale e le altre di regio patronato, ma la cui destinazione in ogni caso, dal punto di vista romano, non poteva mutarsi senza il consenso papale. Il C. nondimeno poté fruire della base economica che gli permetteva di delineare e pubblicare un Nuovo piano pel buon regolamento del seminario arcivescovile della regia chiesa di Taranto (Napoli 1789).
A differenza di Scipione de' Ricci, non imponeva un insegnamento unidirezionale sui temi della grazia e della stessa Trinità (che allora era studiata in polemica con le opinioni dei gesuiti Hardouin e Berruyer). Su tali argomenti stabilì il silenzio, traducendo in pratica la persuasione, già espressa nel Discorso istorico-politico, che i dibattiti teologici erano causa di "furiosi partiti, che hanno divise le nazioni, alterando il sistema della pubblica tranquillità" (Nuovo piano, p. 23). Esponeva pertanto un corpo di "verità", che professori e chierici dovevano accettare e o nemmeno per esercizio mettere in disputa"; tra esse: "La superiorità del concilio generale su quella de' papi e l'infallibilità della Chiesa legittimamente congregata"; "i Principi nell'esercizio della propria autorità non hanno dipendenza alcuna dal potere della Chiesa"; "la giurisdizione contenziosa, che i vescovi esercitano nelle rispettive diocesi deriva dalle varie concessioni de' Principi, e non già dalla natura del proprio carattere, poiché lo Spirito Santo gli ha destinati a pascere il proprio gregge co' soli mezzi della carità" (pp. 23-27). Altre disposizioni tendono illuministicamente a preparare parroci benefici e utili al progresso delle popolazioni rurali. Nel Regno di Napoli, il C. afferma, i nuovi libri di agricoltura "restano su le tavole de' letterati, gli applausi finiscono in una sala di accademici, ed i contadini sono sempre i medesimi". I soli ministri del santuario possono cominciare questa riforma e dolcemente col tempo eseguirla" (pp. 33 s., 36). I chierici dunque in seminario avrebbero dovuto prepararsi a essere istruttori dei contadini sui progressi delle tecniche agricole, in un quadro di educazione globale che comprendesse a livello religioso la lotta contro forme di religiosità che il C., con ottica di prelato colto, giudica storture dogmatiche e pratiche. I chierici stessi avrebbero dovuto convincersi che Cristo è l'unico mediatore e su tale fede regolare il proprio culto ai santi, praticare la comunione eucaristica con le specie consacrate infra missam, leggere come antitodo contro le superstizioni le opere di J.-B. Thiers, Bona, Mabillon, Martène, Chardon (pp. 31 s.).
Nel novembre 1789 fu inaugurata in seminario la cattedra di agricoltura. Primo professore fu il prete tarentino G. B. Gagliardi, distintosi poi nel '99 come oratore democratico.
Insistendo sui temi della religiosità popolare, con una lettera pastorale del 1º ag. 1789 (Napoli 1790) il C. vietò i panegirici alla Vergine e ai santi. In loro vece i parroci avrebbero dovuto tenere un'istruzione morale, senza omettere "una seria riflessione sugli abusi dominanti del paese". Disponeva, inoltre, che si adottassero due formule per le novene alla Vergine e ai santi, e cassava le altre "ancorché fussero approvate con rescritto da Roma" (Lett. past., p. 8; Auletta, p. 63).
Nell'autunno del 1789 rientrò a Taranto in compagnia del viaggiatore svizzero C. U. de Salis Marschling (Croce, p. 161). In meno di un triennio compì la visita pastorale e riuscì a risanare le finanze della mensa vescovile, pingui, ma povere di redditi sia per il deperimento dei censi, sia per cattiva amministrazione. I redditi, portati a 14.000 ducati attorno al 1790, furono dimezzati nel '91 dalle leggi relative alla proprietà feudale (relaz. ad limina, dicembre 1791). Soltanto dopo quattordici anni dall'insediamento, aderendo ai pressanti inviti del card. Borgia, il C. mandò la sua prima relazione alla Congregazione del Concilio. Come era da prevedere, presentava la propria attività in termini apologetici.
Alla Congregazione non piacque che il C. nella sua relazione ad limina avesse definito il papa princeps Ecclesiae: il termine equivaleva a "primo", assumendo un sapore febroniano, tamburiniano e pistoiese. Si trovò da sanare l'assegnazione delle rendite delle tre badie al seminario. D'altra parte alla richiesta di ridurre gli oneri di messe a causa della insufficienza dei proventi da pii legati, si diede il senso di un riconoscimento della dipendenza dalla S. Sede. Venne elaborata pertanto una risposta che abbondava in elogi, ma ìngiungeva al C. di eliminare l'abuso dei "giochi militari" e di riadottare in diocesi l'antica ufficiatura liturgica di s. Cataldo. Fidando nell'appoggio del card. Borgia il C. preferì entrare in trattative, quanto all'ufficiatura di s. Cataldo. In un Memoriale del 1796egli prospettava la revisione di tutti gli uffici liturgici dell'archidiocesi e la loro presentazione alla S. Sede, di cui prometteva che avrebbe "venerato e rispettato" il giudizio. Quanto poi ai giochi militari, il C. preferì non replicare. Nella brevissima seconda relazione ad limina (16 ag. 1794)informava che nella sua diocesi, ispirandosi alla propria opera giovanile Delle feste de' cristiani edita anche a Roma nel 1772 per interessamento di Clemente XIV, aveva dichiarato l'assistenza alla semplice messa privata insufficiente all'adempimento del precetto; inoltre affermava che in tempi ormai difficili il popolo tarentino dava prova di fedeltà alla religione e al governo.
Frattanto con una circolare al clero del 24 dic. 1793 aveva sollecitato il contributo finanziario degli enti ecclesiastici alle spese affrontate dal sovrano ormai in guerra: "le note vicende della nazione francese avendo disturbato tutto il sistema sociale" ed essendo i beni ecclesiastici "specialmente ipotegati a' pubblici bisogni" (Sgura, pp. 83 s.). Personalmente contribuiva con 2.000 ducati. Con bando del giugno 1796 offriva 30 carlini mensili a chi si arruolava volontariamente nelle truppe regie (ibid., p. 88). Sembrava che regnasse piena armonia tra le convinzioni del C. e le preoccupazioni del governo di Ferdinando IV.
Ma il 6 febbr. 1799 con la notizia che a Napoli era stata proclamata la Repubblica giunse a Taranto un fascio di stampe repubblicane con l'ordine al C. di collaborare alle prime fasi della democratizzazione. L'8 febbraio il C. riunì il governatore, il comandante del castello e i rappresentanti dei ceti cittadini: quindi, convocato il popolo davanti al palazzo vescovile, egli spiegò che "i governi sono in mano del Signore", che in provincia bisognava "seguire la norma della capitale"; si procedesse perciò con suffragio popolare alla elezione di un nuovo governo cittadino, disposti tuttavia, mutando gli eventi, a ritornare sudditi dell'"amabilissimo sovrano" (Relaz. della Giunta di Stato e Memoria del C., in Pieri, p. 167). Rifiutò la presidenza della nuova municipalità, asserendo che a lui spettava attendere alla cura delle anime; così in seguito non accettò l'elezione a membro del Corpo legislativo a Napoli. Il 9 febbraio davanti all'episcopio fu piantato l'albero della libertà e il popolo in corteo, preceduto dall'arcivescovo con coccarda tricolore, percorse le vie della marina. Ottemperando alle ingiunzioni del governo provvisorio il C. compose una lettera pastorale, in cui motivava l'adesione all'"ordine nuovo di governo", asserendo che "il cristiano rispetta quella forma di governo che domina nel paese in cui vive, qualora questa non si opponga alla fede professata" (Pieri, p. 170). Ne inviò la minuta a Napoli, ma dilazionò la pubblicazione nella diocesi, finché l'assodarsi delle insorgenze filoborboniche, l'avvicinarsi del card. Ruffo e la presenza di navi russo-turche lo indussero ad agevolare l'abbattimento dell'albero della libertà. La mattina del 9 marzo, ristabilito il vecchio governo, percorse nuovamente la città con la coccarda regia e predicò sulla piazza e sulla marina come aveva fatto un mese prima "per egualmente cospirare al buon ordine e alla pubblica quiete" (Memoria, in Pieri, p. 175).
Il 24 ott. 1799 l'arcivescovo fu arrestato a Taranto e tradotto in Castelnuovo a Napoli, dove fu rimesso in libertà solo il 17 febbr. 1901, in seguito all'indulto sovrano per delitti politici. I due grossi volumi contenenti "l'informativo fiscale" della Giunta di Stato furono inviati alla segreteria di Grazia e Giustizia; ma il 15 agosto fu dato ordine alla Giunta di riprendere in esame il caso.
Si giunse così ad una Relazione della Giunta letta il 27 dic. 1801 dal direttore della segreteria dell'Ecclesiastico, cav. Migliorini, davanti al principe ereditario (Pieri, p. 34). Sulla base di diciassette lettere scritte dal C. nei giorni della democratizzazione, gli si imputò di avere lasciato prospettare la graduale educazione democratica del popolo. Tali lettere perciò lasciavano nell'animo del lettore "una molesta impressione, quasi che egli fosse persuaso, contento e cooperatore al felice successo degl'invasori ed usurpatori della Monarchia" (Pieri, pp. 184 s.).
Il 26 giugno 1802 il C. fu sollecitato a rassegnare le proprie dimissioni al papa (Sgura, p. 50; Pieri, p. 186). Invitato dall'Acton a chiarire in qual modo si sarebbero dovuti comportare i vescovi in caso di cambiamento di governo, il C. avrebbe risposto ribadendo il perno della propria difesa: "Debbono i pastori della Chiesa rispettare il governo dominante, senza prender parte alcuna negli affari politici" (Sgura, p. 49).
In realtà l'ostentata indifferenza per la forma del governo poggia su una non sufficientemente chiarita teoria dello Stato e su una valutazione etico-politica degli eventi. Da un lato, infatti, il C. dimostra di avere dello Stato una concezione di fondo patrimoniale. Il Regno nel 1799 era stato conquistato dai Francesi, così come prima lo era stato da Carlo III di Borbone e in forza di tale titolo era passato ai suoi successori. I Francesi e i democratici non erano stati usurpatori, ma nuovi conquistatori. Lo stesso Ferdinando IV in un suo proclama del 1799 aveva parlato di "riconquista" (Sgura, pp. 44 s.). Il C. in fondo non si sente indissolubilmente legato né alla dinastia dei Borboni né ai Francesi. D'altra parte risulta prevalere in lui la concezione sociale e politica di Antonio Genovesi, protesa genericamente alla "felicità dei popoli", insieme all'esperienza teologica che nel Nuovo piano gli aveva fatto espungere le questioni che potevano creare divisioni nella comunità e diminuire, dal suo punto di vista, la carità fraterna, cioè la coesione socioreligiosa. Nel C. non sono operanti le teologie dell'assolutismo regio, nemmeno nella forma mitigata del potere devoluto in perpetuo dal popolo al sovrano. Ma neppure considerava il potere politico come scaturente dal popolo, e poiché di fatto non avvertiva nelle masse una coscienza democratica, egli, senza probabilmente valutarne il risvolto politico, si propose come finalità pastorale il benessere dei suoi diocesani e il minor danno durante il fluttuare di "governi dominanti".
La rinunzia del C. all'arcivescovato poteva essere una delle poste in gioco nelle trattative tra Roma e Napoli nell'intermezzo borbonico del primo '800, ma le difficoltà che si frapponevano, a una soluzione globale impedirono che si decidesse il caso isolato dell'arcivescovo di Taranto. Il C. nel frattempo aveva pubblicato una Memoria sull'apocino (Roma 1800; 2 ediz., ibid. 1803; 3 ediz., ibid. 1805; cfr. Vacca, p. 119), in cui illustrava esperimenti da lui eseguiti a Taranto nella coltivazione di vegetali utilizzabili per fibre tessili. Pubblicò anche un'Omelia diretta al clero ed al popolo di Taranto... per la morte di Maria Clementina arciduchessa di Austria e principessa ereditaria delle Due Sicilie (Napoli 1801).
Da Napoli seguiva la diocesi amministrata dal fido vicario generale Antonio Tanza. S'interessava della sistemazione ex novo di un cimitero e di quanto poteva giovare a migliorare le condizioni igieniche della città (lettere del C. al Tanza, 13 ag. 1803 e 4 apr. 1804, in Vacca, pp. 131, 164). Ma in genere guardava alla sua diocesi ormai disincantato e critico, forse amareggiato dalle accuse che contro di lui avevano mosso tra il 1799 e il 1801 vari ecclesiastici dimentichi dei suoi intenti pacificatori e della relativa tranquillità che aveva assicurato allora a Taranto.
Del vescovo di Castellana scriveva ch'era stato nei suoi confronti un "Iscariota" (a Tanza, 7 maggio 1800, in Vacca, p. 53). Ripetutamente sottolineava la classica mollezza attribuita ai tarentini, e con il predecessore Celestino Galiani esclamava: "Tarentum abundat magis bonis piscibus quam hominibus. Orrida e selvatica unione di bestie" (a Tanza, 5 apr. 1806, in Vacca, p. 212). Voleva i chierici nuovamente riuniti in seminario e deplorava le dilazioni, quasi che si volesse "sempre proteggere la mollezza di cotesto clero" (a Tanza, 13 ag. 1803, in Vacca, p. 131). Ma il seminario decadeva, privo ormai dei migliori professori (a Tanza, 19 luglio 1807, in Vacca, p. 268). Intimò più volte pene canoniche a preti, impenitenti inquieti o scostumati (Vacca, pp. 149 s., 181, 83, 198, 270). Né aveva fiducia nelle sacre missioni al popolo, così come aveva manifestato nelle relazioni ad limina: "Un regno missionato da tutte le parti forma il carattere della brutta nazione pronta sempre alla vendetta, alla calunnia, al zelo indiscreto, alla strana superstizione ed a tutto il resto dei vizi" (a Tanza, 16 apr. 1803, in Vacca, p. 112).
Forse tale amarezza fa da sfondo ad alcuni memoriali che scrisse tra il 1806 e il 1808, in qualità di membro del Consiglio di Stato istituito da Giuseppe Bonaparte. Contro Roederer, Girardin e Miot difese la clausura monacale e la vita comune dei religiosi, come tipi di presenza pastorale meno influenzata dall'ambiente, in appoggio o in alternativa al clero non regolare troppo esposto a una dequalificante vita "secolaresca" (cfr. il Piano su la riforma del clero e degli ordini regolari, in Sgura, pp. 109-126). Assentì peraltro alla regolamentazione del numero degli ecclesiastici in proporzione alla popolazione (Valente, p. 276; Vacca, pp. 273-275); e contribuì a un regolamento che prevedeva la restrizione del potere giurisdizionale di Roma sui vescovi locali (Rambaud, p. 510).
Da G. Murat fu confermato in carica, così come gli altri membri del Consiglio di Stato. Nell'agosto 1808 fu nominato ministro dell'Interno, carica che tenne finché gli subentrò Giuseppe Zurlo (5 nov. 1909).
Tra il settembre e il dicembre 1808 ebbe incarichi sia dal sovrano, sia dal Consiglio di Stato, sia da quello dei ministri: trasformazioni urbanistiche nella capitale e nelle città di provincia, ordinamento della pubblica istruzione con insegnamento elementare obbligatorio anche nei comuni più poveri, formazione di maestri e maestre, utilizzazione dei curati come maestri nei cosiddetti comuni di terza classe e come garanti dell'insegnamento nei comuni di classe inferiore (Valente, pp. 46, 318-324), riordinamento della disciplina ecclesiastica concernente in particolare una nuova ripartizione delle diocesi revisione dei benefici con cura d'anime, soppressione di vari enti con relativa nazionalizzazione dei beni (Valente, p. 275).
Ma per quanto fosse apprezzato come erudito, il C. dimostrava poco senso politico e scarsa efficienza. Né sembra che Murat lasciasse al C. l'iniziativa negli affari del ministero (Valente, p. 244). Ricorreva piuttosto a lui per piccole incombenze, come pareri su progetti architettonici e composizione di epigrafi (Valente, pp. 329 s.). Il C., inoltre, divenne l'accompagnatore colto e raffinato della regina Carolina, soprattutto nelle escursioni archeologiche. Quando lo si volle rimuovere dal ministero, si pensò a inviarlo come precettore del principe ereditario Achille a Parigi (W. Maturi, Il principe di Canosa, Firenze 1944, p. 353; Vacca, p. 283). Ma al C., ormai anziano, dispiaceva lasciare Napoli. Accettò perciò, la carica di primo elemosiniere della regina e di direttore del Museo reale delle arti (ottobre e novembre 1809). Legato da viva simpatia ai sovrani, donò al Murat il proprio medagliere (Valente, p. 245). Nel 1811 ricusò di recarsi al concilio nazionale di Parigi, nonostante l'invito esplicito di Napoleone e la prospettiva di fungere da presidente (testimonianza dello stesso C., in Savio, p. 246).
Ritornati i Borboni, fu invitato a rientrare nella diocesi ma, ormai più che settantenne e da oltre un quindicennio assente da Taranto, tergiversò. Avrebbe preferito dimettersi, recarsi a Roma e vivere in quella tranquillità che aveva sempre desiderato per sé e per gli altri, con la sicurezza di una buona pensione e la consolazione di qualche onorificenza. A concedere tutto ciò non erano però propensi né la corte di Roma né quella di Napoli. Infine, ottenuta una pensione di cento ducati mensili, il 28 marzo 1817 si dimise, contentandosi di rnantenere il titolo di "ancien archevêque de Tarente" (come scrisse a Tecla Ludolf, il 20 febbr. 1818; cfr. Auletta, p. 28), quasi imitando Henri Grégoire, a lui ben noto, che da tempo si fregiava del titolo di "ancien évêque de Blois". Agli antichi diocesani aveva inviato da Napoli in data 25 nov. 1816 una lettera pastorale che riassumeva l'attività svolta a Taranto, parafrasando qua e là la relazione ad limina del 1791 (il testo è in Sgura, pp. 68-78).
A Napoli, fuori dei quadri politici, il C. costituì ancora un'attrattiva per gli uomini di cultura di tutta Europa, e in chi lo frequentava lasciava il ricordo indelebile di raffinatezza di tratto, conversazione avvincente, versatilità di interessi culturali per nulla velata da preconcetti confessionali. Tra i suoi estimatori vi furono Caterina II, Leopoldo di Toscana, Gustavo III di Svezia, Luigi di Baviera, Goethe, Sismondi, Kotzebue, Federico Münter, madame de Staël, Lamartine, Barthélémy, Walter Scott, Alessandro Verri, Canova, Alessandro Volta, Xavier de Maistre, il conte Orlov (Candia, pp. 85-89; Croce, pp. 158 s., 163 s., 167 s.). Il nunzio a Napoli ancora l'8 ag. 1835 lo presentava come "nemico della S. Sede", con "in capo principi giansenistici", "assomigliato a mons. Grégoire", "sempre in società con uomini famosi o per lettere o per armi, siasi pure di qualsivoglia partito, benché la sua inclinazione è maggiore per gli uomini che hanno figurato nelle passate vicende rivoluzionarie" (Savio, p. 253).
Nel 1824 lasciò che il canonico penitenziere di Taranto, Angelo Sgura, pubblicasse un'apologetica Relazione della condotta dell'arcivescovo di Taranto monsignor Giuseppe Capace-Latro nelle famose vicende del Regno di Napoli nell'anno 1799, [Napoli] 1826, ma non permise l'inserimento di documenti che avrebbero potuto ferire la suscettibilità di qualcuno e conseguentemente turbare la quiete sua e altrui (Sgura, p. 107). Lasciò anche che i suoi principali scritti fossero ripubblicati in Francia o a Napoli dal suo segretario Nicola Candia in momenti di opportunità pastorale e politica. Invitato a mandare una "lettera di comunione", tramite Grégoire inviò nel settembre 1827 ai vescovi di Utrecht, Haarlem e Deventer una lettera in cui esortava a entrare in trattative con l'"ottimo comun padre de' cristiani Leone XII" e così ristabilire l'"esterna unione" "col centro della unità cattolica". Tra le ultime sue cure letterarie sono da ricordare il saggio De antiquitate et varia Capyciorum fortuna... (Neapoli 1830) e il Deperditum Scipionis Capycii carmen de nativitate Domini (Neapoli [1831]; 2 ediz., ibid. 1833).
Agl'inizi del 1835 il nunzio di Napoli per mezzo del Candia chiese al C. una "dichiarazione" su quanto nei suoi scritti suonava "sinistramente" (Candia, p. 99). Il C. mandò una lettera di chiarimento (Napoli, 12 sett. 1835); ma si voleva una ritrattazione, e come tale venne accolta una sua seconda lettera dei primi del 1836. Egli vi asseriva tra l'altro che "dopo tanti pubblici documenti" della propria "sana e incorrotta dottrina" non aveva difficoltà a riconoscere, come sempre aveva fatto, la "bolla Auctorem fidei dell'immortale Pio VI contro le massime contenute nel cosiddetto concilio di Pistoia" (ed. in Savio, pp. 248 s.). Ma che cosa "riconosceva" il Capecelatro? Che la bolla era "regola di fede" come sostenevano gli antigiansenisti di allora? A Roma ci si contentò che il C. avesse accettato anche l'enciclica Mirari vos (1832), che implicitamente condannava le pagine da lui scritte contro il celibato ecclesiastico. Non si volle più molestare il novantenne prelato, che venne a mancare a Napoli il 2 nov. 1836 e fu seppellito, a S. Pasquale in Chiaia senza grande pompa a causa dell'epidemia di colera (Savio, p. 254).
Fonti e Bibl.: Arch. Segr. Vat., Nunziatura Napoli, voll. 309, 310, 311, 384 C, 384 E, 406, 601; Nunziatura Napoli, Diocesi, mz. 50, Napoli; Ibid., Fondo Garampi, vol.164; Ibid., Processi Vescovi, 1778, ff. 265-273; Ibid., Arch. della S. Congr. del Concilio, Visit. ad limina,Tarentin., 1791-1797; Galatina (Lecce), Arch. privato Tanza (lettere del C. ad Ant. Tanza); Arch. di Stato di Napoli, Arch. Borbone, fascio 318; Ibid., Espedienti Ecclesiastico, fasc. 53, 75; Ibid., Ministero dell'Interno, specialmente fasc. 2167 e 2197; Napoli, Bibl. nazion., ms. XV. E. Q.; Napoli, Bibl. della Società napoletana di storia patria, Carte Ludolf; Parigi, Arch. nazion., AF IV, 1714, B (progetto di regolamento dei rapporti Roma-Napoli, sottoscritto: del Gallo, Pignatelli, C., principe di Sirignano, Napoli, 29 luglio 1807); Ibid., AP (Fondo Murat), cart. 18, doss. 205; cart. 21, doss. 367; Taranto, Arch. curia arciv., mz. S. Visita;Utrecht, Rijksarchief, fondo Amersfoort, P.-R., 4233 (lettera settembre 1827, in copia); H. Grégoire, Essai historique sur les libertés de l'Eglise gallicane, Paris 1820, p. 491; A. Sgura, Relazione della condotta dell'arcivescovo di Taranto mons. G.C. nelle famose vicende del Regno di Napoli nell'anno 1799, [Napoli] 1826; C. De Nicola, Diario napoletano, Napoli 1906, I-III, ad Ind.;N. Candia, Elogio storico dell'arciv. G.C., Napoli 1837; V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, a cura di N. Cortese, Firenze 1926, ad Indicem; I.Rinieri, Della rovina di una monarchia, Torino 1901, pp. 248 s., 323; R. De Cesare, Taranto nel 1799e mons. C., in Apulia, I (1910), pp. 225-239; J. Rambaud, Naples sous Joseph Bonaparte (1806-1808), Paris 1911, pp. 379 s., 503, 509 s.; B. Croce, L'arciv. di Taranto, in Uomini e cose della vecchia Italia, II, Bari 1927, pp. 158-181; A. Parente, La rinunzia di G.C. all'arcivescovato di Taranto e i suoi rapporti con la corte pontificia, in Arch. stor. per le provv. napoletane, LII (1927), pp. 390-395; A. C. Jemolo, Il giansenismo in Italia prima della rivoluz., Bari 1928, pp. 243, 386 s.; A. Lucarelli, La Puglia nel Risorgimento, II, Bari 1934, ad Indicem; P. Savio, Devozione di mgr. A. Turchi alla S. Sede, Roma 1938, ad Indicem; G. Auletta, Un giansenista napoletano del Settecento: mons. G.C. arciv. di Taranto, Napoli 1940; E. Viviani della Robbia, B.Tanucci ed il suo più importante carteggio, II, Firenze 1942, p. 502; G. M. De Giovanni, Il giansenismo a Napoli nel sec. XVIII, in Nuove ricerche stor. sul giansenismo, Roma 1954, pp. 202 s.; P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluz., Bari 1962, pp. 190, 225, 239; Id., La vendita dei beni dello Stato nel Regno di Napoli (1806-1818), Milano 1964, tav. X, n. 3; C. Caristia, Riflessi politici del giansenismo ital., Napoli 1965, pp. 275-281; A. Valente, G. Murat e l'Italia meridionale, Torino 1965, ad Indicem;D. Ambrasi, Il teologo contrizionista D. Nicola Cirillo, in Asprenas, XIII (1966), p. 102; P. Pieri, Taranto nel 1799 e mons. C., in Scritti vari, Torino 1966, pp. 163-187; N. Vacca, Terra d'Otranto. Fine Settecento inizio Ottocento (Spigolature da tre carteggi), Bari 1966, ad Indicem; N. Caserta, Dal giurisdizionalismo al liberalismo..., Napoli 1969, ad Indicem; P.Stella, Il giansenismo in Italia. Piccola antologia di fonti, Bari 1972, pp. 64-67; P. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica…, VI, Patavii 1958, p. 393