Giuseppe Capograssi
Nella filosofia del diritto italiana del Novecento, Capograssi è figura di studioso singolarmente appartata. Intellettuale cattolico, erede della tradizione legata a Giambattista Vico (che egli fa dialogare con Agostino, Antonio Rosmini-Serbati e Karl Marx), Capograssi è un ‘provinciale’ aristocratico di cultura profondamente europea, che annovera fra i suoi allievi grandi giuristi come Antonio Pigliaru e Salvatore Satta. Distante dal dibattito tra Benedetto Croce e Giovanni Gentile, è fra quei pensatori ‘minori’ che già negli anni Venti, con l’emergere di una pluralità di ordinamenti giuridici, teorizza la crisi dell’autorità statale e ripensa il diritto come relazione vitale di esperienza giuridica individuale e verità.
Nato a Sulmona il 21 marzo 1889, Capograssi si laurea presso l’Università di Roma nel 1911, discutendo con Vittorio Emanuele Orlando una tesi in diritto costituzionale. Quindi esercita l’avvocatura e nel 1933, vinto il concorso a cattedra in filosofia del diritto, viene chiamato presso l’Università di Sassari. Successivamente insegna a Macerata, a Padova, a Napoli, e infine a Roma, presso la facoltà di scienze politiche. Nel 1955 viene nominato giudice della Corte costituzionale. Muore a Roma il 23 aprile 1956, nel giorno in cui la Corte inizia i suoi lavori.
L’interesse per la figura di Capograssi nasce dal fatto che egli è testimone acutissimo di un passaggio cruciale nella storia dello Stato del 20° sec. e della sua crisi, così che si potrebbe definirlo un ‘cartografo’ del diritto contemporaneo. Il segno che lo distingue per una certa ‘inattualità’ nel panorama novecentesco è quello di affermare l’esperienza giuridica come ricerca e espressione di verità, nello sforzo costante di pensare la scienza giuridica insieme alla vita e ai bisogni dell’individuo.
Il suo approccio filosofico è segnato dal nome di Vico, al quale lo lega «un rapporto singolarissimo che può essere definito di integrale simbiosi» (B. De Giovanni, Vico e Marx: due ‘autori’ di Capograssi, in Due convegni su Giuseppe Capograssi, 1990, p. 319). E l’esaltazione della solitudine di Vico dentro la filosofia moderna è una delle chiavi per comprendere Capograssi: questa infatti tendeva sì «a riportare la vita dentro il pensiero» (G. Capograssi, Riflessioni sull'autorità e la sua crisi, 1921, in Opere, 1° vol., 1959, p. 331), ma si trattava di un pensiero – à la Descartes – fatto di «quella esangue realtà che è la nuda esistenza del soggetto pensante»; Vico, invece, vuole ritrovare la mente umana «nella pienezza della sua natura dentro la vita storica» (p. 331).
Così, la prima cellula della filosofia di Capograssi ha l’impronta metafisica vichiana: è la volontà, definita come «la ragione che ha dominato le forze dello spirito e tende ai suoi fini» (p. 153). Ma affinché essa si sveli ragione – stante la difettività che la connota in quanto umana – è necessario un processo nel corso del quale la volontà si afferma come autorità. E la filosofia dell’autorità rappresenta il fulcro della speculazione di Capograssi. La vita degli individui, nel costruire le relazioni giuridiche all’interno delle quali realizzano se stessi, resta sempre sotto il segno dell’assoluto, di «una legge universale che si pone senza essere posta» (p. 178).
Questa legge è la prima autorità e ha la funzione di orientare tutta la trama del diritto, tutte le azioni e gli scopi degli individui nel loro faticoso sviluppo. Cosa dice questa legge? Che l’esistenza del diritto e delle relazioni giuridiche esprimono la continua ricerca di giustizia, di un senso che oltrepassi la singola azione ‘posta’. Infatti l’individuo è abitato da due opposte forze:
l’insopprimibile tendenza della natura umana di inerire alla verità […] e il perenne impedimento che questa tendenza trova in una oscura rovina che lo spirito ha subito e che ha disordinato e tolto vigore alle forze sue (p. 186).
Così, l’autorità non è davvero tale se da quella prima dimensione assoluta non si espande innervando tutta la realtà delle vite individuali. Dunque, la via verso la costituzione dell’autorità è lotta. In questa lotta la volontà si trasforma in autorità diventando intermediaria «tra la legge assoluta e l’immediatezza del concreto» (p. 186). Il lavoro dell’autorità sta nel sollevare tutta l’esperienza al dover essere ideale della legge, dunque portare «nella società la verità della società stessa». Senza questa tensione verso la verità l’autorità giuridica «è conservata di nome ma sparisce di fatto» (p. 189).
Come non ricordare quell’auctoritas pars rationis (l’autorità, parte della ragione) che campeggia, con forte accento antihobbesiano, nel capitolo LXXXIII del Diritto universale (1720-1722) vichiano? Il certo e il vero, secondo Vico, sono i due poli intorno ai quali si costruisce la società giuridica:
Il certo proviene dall’autorità, come il vero dalla ragione, ma l’autorità non può del tutto alla ragione contrastare, perché le leggi che alla ragione si opponessero, non sarebbero più leggi, ma legali mostruosità (De universi iuris uno principio et fine uno, 1721, poi in Opere giuridiche: il diritto universale, a cura di P. Cristofolini, 1974, p. 100).
Contro le filosofie della secolarizzazione – che sostengono l’estinguersi nel moderno del problema dell’assoluto – Capograssi pone la volontà come testimonianza del persistere del problema del senso e dunque del fine e dei valori che essa intende perseguire per avvicinarlo. La volontà, in quanto ragione, è concepita come l’intenzione di oltrepassare ogni apparenza empirica universalizzando l’esperienza concreta; «superare il relativo per attingere l’assoluto» (Riflessioni, cit., p. 155), pur tenendo presente però che il metron resta sempre l’azione individuale: solo così sarebbe possibile attingere la verità deposta nel diritto, come una spina dorsale che innerva tutto il tessuto della società e dello Stato:
Il riconoscere il diritto dell’individuo di fronte allo Stato è il primo passo che la scienza fa per procedere alla scoperta della realtà giuridica (La nuova democrazia diretta, 1922, in Opere, 1° vol., p. 415).
Alla scienza del diritto, diversamente da altre scienze deontologicamente separate dal proprio oggetto, il dato è affidato dalla vita stessa, così che, se essa è per essenza lavoro di conoscenza dei dati della realtà giuridica, «dove c’è la vita giuridica immediata ivi è la scienza» (Il problema della scienza del diritto, 1937, in Opere, 2° vol., 1959, p. 402).
Il legame fra scienza e vita pone Capograssi in relazione con un grande giurista del suo tempo, Santi Romano: il suo concetto di ordinamento giuridico, come struttura che riflette l’organizzazione della vita intuendola e costruendola attraverso il diritto, coglie la fertile ambivalenza della scienza del diritto come uno «stare dentro la vita; stare staccato dalla vita» (L’ultimo libro di Santi Romano, 1951, in Opere, 5° vol., p. 240). Tuttavia Capograssi critica il «radicale empirismo» romaniano, che rende «profondamente problematico» il suo concetto di diritto come fatto: in esso resta inevasa infatti la questione del senso. La realtà giuridica «non solo c’è, ma pretende di esserci» (p. 250), e questa pretesa spoglia il fatto della sua mera datità.
L’attenzione critica di Capograssi verso Romano diventa invece aperto rifiuto nel caso del normativismo di Hans Kelsen, che costruisce il diritto nella separazione radicale tra norma e fatto. La ‘purezza’ del metodo kelseniano scambia il meccanismo perfetto del modello normativo, «assunto come ipotesi di lavoro, con la effettiva realtà delle cose» (Impressioni su Kelsen tradotto, 1952, in Opere, 5° vol., p. 322). Così, tutta l’immensa ricchezza della vita del diritto è ristretta alla ‘pura’ norma coercitiva che, ignorando il problema della legittimità del potere, cela un vero e proprio «diritto naturale della forza» (p. 330).
Il nesso, continuamente ribadito, fra scienza giuridica e vita comporta la dipendenza della scienza dal proprio oggetto, il quale non è che l’attività pratica degli individui tesa a realizzare i fini della loro vita. La volontà si manifesta attraverso l’azione immediata, ma l’individuo «scopre sperimentalmente che il fine particolare non è tale, in quanto fa parte esso stesso di tutto un complesso di fini» (Studi sull’esperienza giuridica, 1932, in Opere, 2° vol., p. 270): dunque esiste una forza centripeta che raccoglie i fini individuali e si costituisce come «finalità unificatrice di tutti questi fini particolari» (p. 271). Perché il senso dell’attività del soggetto non può che essere pensato come unità:
L’azione non è dunque un semplice mezzo, [..] ha una sua natura irriducibile e necessaria. […] L’azione è proprio questa apparizione della vita profonda del soggetto (p. 271).
Se il contenuto del diritto, dunque, non è altro che l’azione individuale, l’individuo vi aggiunge la volontà, ovvero la consapevolezza che porre un fine particolare implica sempre tutta la realtà: volere ciò che si fa deve dunque essere «voluto in tutta la sua interezza», questo esprime l’age quod agis (porta a compimento la tua azione) che ritorna di continuo nelle pagine capograssiane (pp. 289-91). Il diritto duplica l’azione elevandola a norma.
Ciò implica un ritorno dell’azione su se stessa, un ripensarsi dell’azione come parte inderogabile di un ordinamento della vita, della vita come ordinamento. E il diritto compie questo ‘lavoro’ costringendo gli individui a riflettere sull’azione, «ad acquistare conoscenza pratica e concreta per cui l’azione impegna la vita stessa del soggetto» (p. 293), a cui deve seguire la consapevolezza del suo valore per l’esperienza nel suo complesso. Proprio nel perseguire con rigore la sua azione, volendola pienamente e in quanto obbedisce e non pone altri fini alla sua azione se non quelli che egli stesso vuole, proprio in questo momento l’individuo contribuisce a compiere la realtà sociale complessa (Il problema, cit., p. 424).
Qui ritorna l’idea vichiana dell’eterogenesi dei fini delle azioni individuali, l’idea che il nostro mondo è «uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi uomini si avevan proposti» (G. Vico, Principj di scienza nuova d'intorno alla comune natura delle nazioni, 1725, ed. 1744, p. 868).
Il diritto allora appare a Capograssi come «la vita stessa vissuta secondo il principio della consapevolezza dell’agire e di tutto quello che l’agire implica» (Studi, cit., p. 288), e nel far questo esso si oppone al Male, che abita, come un limite essenziale, la vita degli individui. Il Male, infatti, trasforma ogni fine particolare in fine assoluto, negando così il fine profondo dell’azione che per sua natura vuole ricongiungersi a tutti gli altri fini: «tutta la vita pratica dell’uomo si riassume in questo: tendenza della volontà all’Assoluto, insufficienza della volontà a pervenire all’Assoluto» (Riflessioni, cit., p. 159).
Il senso ultimo del diritto è teso a sciogliere questa contraddizione, è infatti volto a «salvare l’azione e l’esperienza; a difendere l’azione e l‘esperienza dal male». Salvare l’azione nella sua esemplarità, come un valore ideale che va realizzato, «costringendola ad andare fino in fondo a se stessa», significa porre l’esperienza pratica come esperienza giuridica. Il dover essere ideale della norma giuridica è un argine contro il deficere, il venir meno dell’azione individuale che si chiude nel proprio particulare.
Come nasce, allora, nella sintesi e nel caos delle azioni individuali, il momento analitico della scienza «con la sua costruzione di concetti e la sua produzione di teorie» (Il problema, cit., p. 523)? La scienza giuridica nasce perché fra le azioni individuali si genera la controversia, il contrasto fra interessi. E la controversia va presa sul serio in quanto è la pietra d’inciampo che provoca il sorgere della scienza: il «contrasto fra principi», il «dubbio» impedisce infatti il formarsi dell’esperienza giuridica.
Compito della scienza è ritrovare il principio, che è anche il suo proprio principio, dentro l’esperienza, cogliendo «la razionalità profonda dell’azione» (p. 533) e l’unità dell’esperienza giuridica. La controversia costringe la scienza giuridica, che manifesta il suo «potere autonomo sull’esperienza pratica» (p. 536), a un lavoro analitico sull’azione: e appare l’astrazione, il potere che la scienza ha di separarsi dalla realtà concreta al fine di conoscerla. Ma «l’astrazione è intrinseca al concreto» (p. 543), è il concreto in un suo momento e se si separa dal flusso incessante della vita è solo perché, diversamente, la scienza non potrebbe conoscere: l’astrazione non aggiunge nulla alla realtà dell’azione, solo la scompone nelle sue parti e a partire da queste la ricompone in sistema.
Questo lavoro della scienza «costituisce un complemento necessario dell’esperienza» (p. 534). In che senso? Nel continuum incessante dell’esperienza il lavoro della scienza individua, pone in relazione e dà un nome singolare a tutte le azioni che altrimenti resterebbero indistinguibili. Così inizia a costruirsi il sistema giuridico. Nel ‘lavoro’ di nominazione di tutta la «struttura molecolare del concreto», esse acquistano una dignità singolare: all’interno dell’ordinamento, perché vengono collocate in un ordine razionale, e all’esterno, distinguendo l’esperienza giuridica da quella economica e da quella morale. Nominandola, la scienza giuridica salva l’azione dalla sua immediatezza; dall’oblio con cui la volontà opera verso la totalità dell’esperienza, che lo fa non per egoismo. Anzi. La volontà individuale, proprio nel voler solo se stessa, nel dimenticare la totalità di cui pure fa parte,
dà vita a tutte le forme dell’esperienza. [Perfino] il delitto in fondo non è che la affermazione paradossale della indeclinabile autonomia della volontà particolare, del suo potere di perdersi nella propria concreta forma di vita (pp. 615-16).
L’istituzione giuridica, con la sua richiesta imperativa di obbedienza, si presenta sì come una richiesta di adesione solo esteriore a questa volontà particolare, chiedendole di perseguire tutti i suoi fini particolari solo nei confini della legalità. Ma il paradosso cui perviene Capograssi è che la «pretesa conformità esteriore alla legge» assume le fattezze della conformità interiore: «non c’è distinzione tra obbedienza e adesione» (p. 619). In una straordinaria eterogenesi dei fini, per cui le azioni individuali mettono capo a conseguenze del tutto impreviste dai soggetti agenti, l’obbedienza esteriore «si organizza e si consolida in tutto un mondo che ne nasce» (p. 618).
Perché infatti i fini particolari posti nelle azioni possano realizzarsi, gli individui scoprono che un ordine è necessario, che devono essere trovate le connessioni fra le azioni, così come i comandi che ne scaturiscono per gli individui. Non basta che gli ordini siano posti e imposti, «occorre che siano adattati all’azione che debbono regolare» (p. 420).
L’idea di ordine richiama tuttavia una delle caratteristiche fondanti del concetto di diritto, quella della coercizione come ratio dell’istituzione giuridica. Come giustificare razionalmente la coercizione contro la persona? Se, in quanto libertà razionale, l’autorità è il vertice della persona morale, sembra che autorità e forza debbano escludersi a vicenda. E ciò è vero se assumiamo la coercizione come una questione fisiologica, una necessità analoga a quella di una forza naturale soverchiante, un’imposizione unilaterale. Per pensare la forza dentro l’autorità occorre che la riflessione giuridica riparta dalla volontà individuale: solo in questa il pensiero «ripone la ragione e il valore dell’autorità» (p. 214).
L’obbligazione con la quale gli individui anche nel diritto romano si impegnavano contrattualmente, costituiva sì un vincolo, ma un vincolo liberamente assunto: fra imperium e negotium non c’è iato, la volontà giuridica è una (Riflessioni, cit., p. 216). Capograssi analizza criticamente la matrice individualistica della scuola del diritto naturale – Thomas Hobbes e Baruch Spinoza in primis – per la quale è l’individuo ex lege, mosso da metus, cupiditas e regolato dalla sua propria potenza, il ‘motore’ dell’azione giuridica. Come può quest’individuo, nel suo arbitrio, creare quell’istituzione che è lo Stato? Nella contrapposizione fra individuo e Leviatano l’autorità diventa inevitabilmente «forza violenza coazione durissima stritolamento delle volontà e degli interessi umani» (p. 318). Lo Stato assume la durezza del fatto. Invece, solo pensando l’imperium come 'scopo obiettivo' delle volontà è possibile trascendere le singole volizioni nella loro ambulatorietà.
La scienza giuridica dunque ricerca l’unità dell’esperienza giuridica, la ragione dell’obbligatorietà del volere, del principio alla base del comando. Trovato il quale la scienza lo trasforma in concetto, così che l’esperienza, dal suo disordine apparente, diventa sistema normativo. Scienza e esperienza sono due modi della stessa realtà : la scienza conosce la vita giuridica «perché è la stessa vita giuridica in quanto vive le idee umane i fini e i valori attorno ai quali la vita giuridica si forma» (Il problema, cit., p. 508). E dunque il fine che la volontà si propone non è un fine esterno, ma il compimento di quell’azione graduale con la quale essa concorre a costruire il mondo sociale. Così, solo alla volontà che non vuole se stessa l’autorità appare come nuda forza, mentre a quella che si pone come autorità essa appare come compimento di sé.
Capograssi – si diceva –, cartografo della crisi dello Stato fra le due guerre. Da dove nasce la crisi ? La fine dello Stato assoluto con l’Illuminismo impone il confronto della struttura statale con le forme sociali che avanzano imponenti sulla scena europea: la nazione, poi la classe operaia e infine la Chiesa, nel suo essere principio spirituale e ordinamento giuridico concorrente. L’azione di queste potenze sociali fa vacillare la legittimità del potere statale e scuote «le basi stesse su cui si regge il sistema rappresentativo» (La nuova democrazia, cit., p. 475).
Si profila un nuovo assetto costituzionale. D’ora innanzi lo Stato comprenderà «nelle sue categorie forze sociali, le quali tendono a acquistare qualità pubblica, e gruppi di interessati che assumono funzioni pubbliche» (p. 450). Ne consegue un mutamento di funzione della legge, che da prodotto esclusivo dell’attività parlamentare assume un «carattere pratico e sperimentale» – un provvedimento mirante a regolare «esigenze della realtà concreta» – e, inoltre, una dimensione ‘contrattata’, poichè «gli interessi sociali concreti sono diventati l’oggetto della legislazione», così che «l’azione dello stato si è avvicinata all’azione puramente sociale e per conseguenza la legge è costretta a perdere a poco a poco i suoi caratteri» di generalità e astrattezza (p. 491).
L’organo al centro della dialettica costituzionale non è più il Parlamento ma il governo, che assume sempre più su di sé l’onere dell’attività legislativa attraverso i decreti-legge, dipendendo dai bisogni espressi dalle forze sociali e sempre più vicino al corpo elettorale, dunque necessitato a fornire risposte normative immediate. Lo sviluppo economico prodigioso ha fatto sì che fra il singolo interesse privato e l’interesse generale «si [siano] insinuati grandi interessi collettivi» (p. 435), e il principio dell’eguaglianza giuridica alla base dello Stato di diritto ha legittimato la richiesta di soddisfare «tutta una serie di nuovi bisogni», anzi il dato epocale è che esso «ha posto veramente il bisogno e la soddisfazione di esso alla base dell’ordinamento sociale» segnandone la direzione in modo definitivo (pp. 434, 435).
Un nuovo modello economico privatistico si impone su quello pubblicistico: una volontà individuale che tuttavia proprio in questa natura individualistica «crea tutte le istituzioni e le forme del diritto pubblico» (p. 418). Le formazioni sociali finiscono per dettare allo Stato i confini dell’azione giuridica fino al «graduale assorbimento» nella società «dell’attività e delle finalità dello Stato» (p. 441), imponendo a quest’ultimo di entrare sul mercato e diventare soggetto economico fra i soggetti.
Questa è la nuova democrazia diretta di cui ci parla Capograssi già nel 1922. Pochi anni prima, nel 1906, anche Georg Jellinek aveva espresso un concetto analogo parlando della forza normativa del fattuale, così come, nel 1931, nella crisi della Germania weimariana, Carl Schmitt analizzando la nuova forma del politico considererà lo Stato come l’auto-organizzazione della società. La trasformazione dello Stato in società, «questa assoluta indistinzione tra stato e massa» (Riflessioni, cit., p. 319), segna il tramonto dell’autorità e prepara gli orrori del secondo conflitto mondiale: lì dove il numero e la massa diventano l’unica ragione della sovranità si dà «un vero e proprio regime di tirannia» e lo Stato, assorbito nella società, diventa onnivoro, «il dominatore, il giudice, l’amministratore di tutto» (p. 317).
Gli scritti di Giuseppe Capograssi sono stati pubblicati – tranne i Pensieri a Giulia, a cura di G. Lombardi, 4 voll., Milano 1978-1981 – in Opere, a cura di M. D'Addio, E. Vidal, F. Mercadante, 7 voll., Milano 1959. Tra essi vanno citati:
Saggio sullo Stato (Milano 1918), 1° vol., 1959, pp. 3-147.
Riflessioni sull’autorità e la sua crisi (Lanciano 1921), 1° vol., pp. 151-387.
La nuova democrazia diretta (Roma 1922) 1° vol., pp. 405-573.
Studi sull’esperienza giuridica (Roma 1932), 2° vol., 1959, pp. 211-373.
Note sulla molteplicità degli ordinamenti giuridici («Studi sassaresi», 1936, pp. 77-90, poi, con modifiche, «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 1939, 1-2, pp. 9-44), 4° vol., 1959, pp. 182-221.
Il problema della scienza del diritto (Roma 1937), 2° vol., pp. 377-627.
Il diritto dopo la catastrofe (in Scritti giuridici in onore di Francesco Carnelutti, Padova 1950, 1° vol., pp. 1-32), 5° vol., pp. 151-96.
L’ultimo libro di Santi Romano («Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1951, 1, pp. 46-79), 5° vol., pp. 221-54.
Impressioni su Kelsen tradotto («Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1952, 4, pp. 767-810), 5° vol., pp. 311-56.
Considerazioni sullo Stato (in Scritti giuridici in onore di Piero Calamandrei, Padova 1958, 1° vol., pp. 1-39), 3° vol., 1959, pp. 329-75.
A. Pigliaru, Scienza e filosofia del diritto nel pensiero di Giuseppe Capograssi, «Rivista internazionale di filosofia del diritto», Atti del III Congresso internazionale di filosofia del diritto (Catania 1-4 giugmo 1957), gennaio-aprile 1958, pp. 207-242.
S. Satta, Il giurista Capograssi, «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1960, parte prima, pp. 775-800, poi in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova 1968, pp. 363-75.
A. Pigliaru, La lezione di Capograssi, «Studi sassaresi», 1962, pp. 166-221.
P. Piovani, Introduzione a G. Capograssi, Il problema della scienza del diritto (1937), nuova ed. riveduta a cura di P. Piovani, Milano 1962, pp. III-XXXII.
V. Frosini, Capograssi Giuseppe, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 18° vol., Roma 1975, ad vocem.
Due convegni su Giuseppe Capograssi (Roma-Sulmona 1986): l'individuo, lo Stato, la storia; G. Capograssi nella storia religiosa e letteraria del Novecento, a cura di F. Mercadante, Milano 1990.
U. Pomarici, L’individuo oltre lo Stato. La filosofia del diritto di Giuseppe Capograssi, Napoli 1996.
A. Delogu, A.M. Morace, Esperienza e verità. Giuseppe Capograssi: un maestro oltre il suo tempo, Bologna 2009.