Giuseppe Capograssi
Quella di Giuseppe Capograssi è una delle forme più originali e autonome della filosofia contemporanea italiana, e non solo italiana, elaborata con desta partecipazione ai grandi problemi della società europea del Novecento, in contatto diretto con le dominanti esperienze di pensiero di quel mondo, dall’idealismo hegeliano, gentiliano e crociano, all’esistenzialismo, dalla filosofia cristiana nelle sue forme più alte, dall’agostinismo al tomismo, da Dante Alighieri a Blaise Pascal, a Maurice Blondel e al modernismo.
Tracciare un profilo di Giuseppe Capograssi (nato a Sulmona il 21 marzo 1889, morto a Roma il 23 aprile 1956) è, più che mai, difficile. La stessa narrazione della sua biografia è facile e difficile. È facile se ci si ferma ai puri dati cronologici della vita sociale che fu quella, sobria e discreta, di uno studioso riservato, che pur non rifiutò di assumere pubbliche responsabilità. Laureato in giurisprudenza a Roma nel 1911 con una tesi dal titolo Lo Stato e la storia. Saggio sul realismo del diritto pubblico, seguendo l’insegnamento di Vittorio Emanuele Orlando, dopo un lungo impegno nell’attività forense, fu dal 1933 professore ordinario nelle Università di Sassari, Macerata – dove fu preside di facoltà e rettore –, Padova, Napoli, Roma. Infine, per qualche mese, giudice costituzionale per nomina presidenziale, non appena la suprema magistratura venne istituita.
E tuttavia è difficile questo racconto se lo si guarda sul piano sostanziale dell’intima struttura comportamentale, attraversata da significative singolarità, al di là dell’apparente ordinarietà. Capograssi insegnò a Padova non pochi anni ma non si recò mai a Venezia, che visitò tanti anni dopo una sola volta. Docente a Napoli a lungo, non si recò però mai a Salerno, da dove proveniva la sua antichissima famiglia, alcuni esponenti della quale furono al servizio dei Normanni e degli Svevi, e che si trasferì a Sulmona, nel 14° sec., al seguito di Andrea Capograssi, nominato vescovo di quella città. Di questa distinta ‘civiltà’ familiare (che poteva vantare un papa, Innocenzo VII, eletto nel 1404) e di cui pure Capograssi aveva forte il senso della partecipazione, mai recò vanto, in fedeltà a uno stile umile e quasi dimesso.
La facilità e le difficoltà della narrazione possono consentire un duplice metro di trattazione della vita di quest’uomo singolare. Uno è quello suggerito da Pietro Piovani, che di Capograssi fu tra gli allievi maggiori e più amati:
È il racconto di una vita da scrivere, quando serenamente sarà possibile, con analisi attenta a non lasciarsi sfuggire nessuna apparente minuzia, perché sono i dettagli che hanno valore nelle vite come queste, povere di eventi esteriori e ricche di intimità […]. Se è vero, secondo l’espressione manzoniana, che ‘la vita è il paragone delle parole’, poche parole di un uomo e di un’opera sono riuscite a paragonarsi ad una vita così degna, facendo testimonianza della propria verità, della verità dello spirito in cui sono state concepite e vissute (P. Piovani, Itinerario di Giuseppe Capograssi [1956], in Id., Indagini di storia della filosofia. Incontri e confronti, a cura di G. Giannini, 2006, p. 295).
Come si vede, un racconto quasi inestricabile nelle sue motivazioni rivolto a inseguire la spiritualità che si mostra e si mescola nei gesti e nelle parole di una riflessione immediata. Un racconto, forse, irrealizzabile oggi, scomparsi tutti quanti a Capograssi sono stati più vicini. L’altro modo è quello testé realizzato da Mario D’Addio (2011), nell’intento di coniugare esperienze esistenziali e dimensione intellettuale in un impasto rispettoso e critico altresì. Ma difficile egualmente è, al di là della biografia, un’esposizione concisa del pensiero di Giuseppe Capograssi. È difficile anche per il fatto che egli insegnò in facoltà di Giurisprudenza e di Scienze politiche, Filosofia del diritto e Dottrina dello Stato, discipline che, almeno in Italia, hanno difeso una loro autonomia rispetto all’ambito degli studi filosofici, in qualche modo deliberatamente ponendosi ai margini di questi, come se altro fosse il compito e la destinazione di queste discipline, che o sono filosofiche o non sono, anche quando rivolte alla ‘provincia pedagogica’ del diritto e dello Stato. Capograssi, che pur avvertì come pochi la filosoficità della dottrina del diritto e dello Stato, per altro procurando un antiveggente modello del rapporto tra filosofia e scienza, nulla fece, tuttavia, per vincere l’‘elegante’ marginalizzazione, come, al contrario, fu fatto dal suo maggiore allievo Pietro Piovani.
Quale era il destino e l’esito del mondo moderno è il problema che non poteva non apparire dominante a un pensatore cristiano che, fino in fondo, voleva fare i conti con ciò che esso aveva rappresentato per il cristianesimo, specie quello di professione cattolica, tanto più quando riguardato nel mezzo delle prime e più travagliose cesure di esso, gli anni intorno alla Prima guerra mondiale. I primi lavori organici di Capograssi (Saggio sullo Stato, 1918; Riflessioni sull’autorità e la sua crisi, 1921; La nuova democrazia diretta, 1922) sono una prima analisi fenomenologica delle forme organizzate della vita sociale, che già pongono innanzi – anche per i classici assunti a referenti (Thomas Hobbes e Giambattista Vico, Jean-Jacques Rousseau, Georg Wilhelm Friedrich Hegel e l’idealismo, per dir solo dei maggiori) – i problemi del mondo moderno visti nell’ottica privilegiata della filosofia dell’azione con ciò che essa, secondo Capograssi, ha a centro: «è certo che la filosofia non ha altro dato che la vita e il suo nobile scopo è di spiegare la vita, di rendere alla vita una chiara coscienza di sé» (Opere, 1959 [d’ora in poi Opere], 2° vol., p. 5). Programma che attesta subito la sua scelta di fondo, che non è quella di respingere, come una deviazione, il mondo moderno, ma al contrario farvi centro e capirlo e spiegarlo, senza alcun anatema e ideale di ritorno.
Per Capograssi «vita significa l’esperienza immediata, la coscienza pratica e attiva del soggetto» (p. 8). Capire la vita si può solo portando l’attenzione sull’esperienza, che è esperienza di individui concreti. In questa analisi sapeva, seguendo Agostino e Blaise Pascal, di poter verificare tutte le possibilità offerte all’uomo dall’esperienza angosciosa e lacerante della colpa d’origine. Per Capograssi il Dio con il quale l’uomo moderno si confronta non è il provvidenziale dispensatore di vita e beni, garante del continuo svolgersi dell’esperienza secondo le linee di un preordinato disegno nascosto, che aiuta l’uomo in quanto lo spossessa della sua volontà, ma, al contrario, è quello che, con una frase di sapore vichiano di Pascal, fa «possedere una nozione della felicità», che pure ci è «impossibile attingere», fa sentire «una immagine della verità» mentre «non tocchiamo che la menzogna». Dunque un Dio che è, con Vico, vis veri nell’uomo e dell’uomo, il quale, a sua volta, è nulla rispetto all’infinito e tutto al cospetto del nulla. La condizione dell’essere dell’uomo, di conseguenza, non è confinata nel nichilismo, destino del moderno in quanto età della scoperta della libertà e della responsabilità dell’uomo. Al contrario, proprio in quanto collocato nella tensione tra il nulla e il tutto, tra il finito e l’infinito, l’uomo è già, di necessità, aperto alla ricerca, all’azione in cui si risolve, nella storia, pur condizionante di Dio stesso, che è anch’egli azione. Non a caso, per Capograssi come per Pascal, il Cristo, incarnazione e rivelazione del divino nell’uomo, segna il momento nevralgico della fede cristiana, della rivoluzione da cui nasce, come ineludibile evento, il mondo moderno. Il quale, dunque, non è negazione e non può essere respinto senza rifiutare il valore stesso della creazione, della risoluzione mondana del cristianesimo. Al tempo stesso, Capograssi avverte i rischi della tentazione di una volontarizzazione dell’azione, di Dio e dell’uomo, e scorge qui il problema che il pensiero moderno deve affrontare e non negare, perché se lo facesse negherebbe se stesso, il proprio mondo e il cristianesimo che lo ha scoperto, giacché Dio ha voluto l’uomo e lo ha voluto responsabile, non sapendo che farsene di un uomo che sia soltanto servo, oggetto e non soggetto.
Per tal via non può darsi al filosofo e all’uomo di fede intonare alcun vade retro. Si tratta, al contrario, di accettare il moderno, che è lo spazio della responsabilità della persona, e di indagare come e perché sia andato in crisi e perché l’uomo moderno vivesse incertamente, proprio quando aveva portato al trionfo l’uso della sua responsabilità. Per Capograssi queste progressive determinazioni della dimensione del problema sono altrettante ragioni per andare al fondo della condizione e della logica del mondo moderno per scorgerne non già la patologia che condanna alla fine, quanto piuttosto le possibilità forse trascurate o incomprese dell’individuo responsabile. Si trattava di seguire i percorsi orgogliosi del moderno per dare alla vita la chiara comprensione di sé. Secondo Capograssi lungo questo percorso si scopre come
per tutta la speculazione moderna la vita è comunque o ragione universale o attività universale e il carattere di questa attività è di contenere l’individuo, di avere in sé l’individuo come momento provvisorio, di risolvere in sé l’individualità (Opere, 2° vol., p. 6).
Vale a dire che il rischioso processo del pensiero moderno e dell’azione da esso governata hanno compreso e utilizzato l’individuo portandolo al livello stesso dell’assoluto, facendolo assoluto per realizzarlo in pieno, e giungendo, per logica consequenzialità, alla latente o esplicita negazione dell’individuo, esaltato ma invero rifiutato in quanto assorbito nel tutto che ne contesta la particolarità esistenziale, e cioè la libertà. Ciò che va investigato è se quella che Capograssi chiama la conclusione più coerente del pensiero moderno, l’idealismo, sia, allora, la sola possibile oppure se altre vie e soluzioni, pur lasciate al margine, minoritarie, il pensiero moderno possegga per capire se stesso. In sostanza il problema di Capograssi non è la critica negatrice del moderno ma l’esame della crisi critica del moderno, affinché di esso si scoprano tutte le possibilità, tutta la ricchezza, specie quando sono andati in crisi, per un processo di implosione collegato al suo stesso sviluppo portentoso, l’affermazione e il trionfo del suo protagonista: l’individuo responsabile e la sua azione che ha fagocitato il suo stesso oggetto.
La filosofia di Capograssi quale «analisi dell’esperienza comune», come suona il titolo di uno dei suoi libri più significativi del 1930, giunge a individuare in Hegel il filosofo che è «al culmine del pensiero moderno» perché ha capito, come pochi altri, sia gli aspetti positivi e trionfanti sia quelli negativi e decadenti del moderno.
Hegel, sviluppando il principio posto da Immanuel Kant «timidamente» dell’«essere come persona», lo ha svolto in termini rigorosamente metafisici fino a comporre una «cosmogonia e psicogonia continua» dell’essere come pensiero. Infatti, «risolta tutta la realtà esistente» nel movimento dell’idea intesa quale «necessaria presenza», ha tentato «di costruire tutto l’esistente esplicando e collocando nel gigantesco sistema tutti gli elementi, tutti i momenti dell’universo». Per Hegel la filosofia, la sola «degna di questo nome», deve essere «non la negazione ma la giustificazione della creazione in Dio e di Dio nella creazione» (Opere, 1° vol., pp. 365-66). È «una lunga meditazione sopra il mistero di Dio», risolto nello spirito che si rivela nel mondo, che fa il mondo, consentendogli pure le sue brutture ma sapendo che queste non prevarranno, giacché sono una specie di prova, terribile, della forza della ragione nel suo analizzare esplicando. Che significa questa orgogliosa affermazione del pensiero moderno come creazione del mondo, anche e soprattutto del mondo moderno? Significa adeguare la vita del mondo alla vita di Dio, conciliare l’autonomia e il movimento, molteplice e infinito, del reale con l’immobilità eterna del panteismo. Che cosa di più grandioso che conciliare ciò che appare inconciliabile? Che cosa di più rassicurante se la crisi è riassorbita nell’essenza stessa del moderno? Tutto è conciliato, risolto, nella sola realtà effettivamente reale, la realtà dello spirito che è unità, l’unità del finito e dell’infinito. In tal modo si dà ragione di tutto il contenuto della conoscenza, di tutte le forme dell’esperienza, di tutto il mondo, di tutti i mondi della coscienza, della natura, della società, della storia, dell’assoluto. Hegel ha costruito la storia e la logica di tutta la creazione. La condizione e la conseguenza di tutto questo è che nulla può essere oscuro. Nulla può sfuggire all’occhio radiante del concetto. L’etica di questo pensiero, che è l’essere, è un’etica assoluta, non è qualcosa di empirico né di soggettivo, è tutta oggettiva e perciò per Capograssi senza «speranza», perché nulla può essere affidato, con sicurezza, a ciò-che-ancora-non-è. Tutto dev’essere trasportato dal passato e dal futuro al presente, che è eterno; il tempo stesso scompare nell’eterno, si eternizza. Ma allora che ne è del moderno se il centro del moderno è l’individuo e la sua esperienza comune, se si vuole lo «spirito individuale» «visto e ridotto al suo atto essenziale di pensiero» (Opere, 1° vol., p. 371), domanda Capograssi?
A differenza di Hegel, Friedrich Wilhelm Joseph Schelling ha dato la risposta al problema posto da Hegel, all’entusiasmo di Hegel per l’assoluto. Ed è una risposta «terribile». Schelling, nel System des transcendentalen Idealismus (1800), ha scoperto le carte e ha dichiarato la determinazione dell’io, per la quale siamo individui empirici e concreti, circoscritti a una determinata sfera della rappresentazione, il «lato incompatibile e inesplicabile della filosofia». Ha ragione Capograssi a definire «terribile» la risposta di Schelling, che è la risposta necessaria dell’idealismo perché sottopone la vita della mente umana a una specie di fatale necessità, alla fissità di una storia naturale, per cui questa intelligenza assoluta, che in quanto tale non è nemmeno intelligenza perché inconscia di sé, sarebbe fatalmente condannata a vivere al di fuori della sintesi assoluta. Per tal via davvero non v’è alternativa a quello che l’idealismo considera l’inesplicabile limitazione dell’io, salvo riconoscere la realtà dell’individuo finito, destinato a non essere assorbito, pur se questo può significare la perdita dell’assolutezza, dell’incondizionatezza della conoscenza umana. E allora bisogna lasciare l’idealismo, senza dimenticarlo, e imboccare la strada alternativa, illuminata dalla risposta «terribile» di Schelling.
Rispetto alla scoperta idealistica dell’elemento divino della conoscenza, che farebbe di tutto il pensiero moderno una «lunga meditazione sul mistero di Dio», il filosofo cristiano, che vive la modernità, sceglie l’eresia, l’eresia delle eresie, la ribellione dell’individuo alla radiosa scoperta del mistero di Dio. Capograssi è di quelli che scorgono la pericolosità dell’assolutizzazione dell’io, dell’io che contrappone a se stesso il non-io e lo crea, preparando la via al più radicale solipsismo teorico e pratico, quello che racchiude nel non-io tutti gli altri io, «quasi le cose fossero originariamente affette dalla negazione dell’io», afferma citando il realista Johann Friedrich Herbart contro l’idealismo. Capograssi individua nella sintesi dialettica dell’idealismo una «dialettica senza termini», ossia quella che non ha altro positivo se non il termine medio assoluto. Il quale dissolve in sé come insussistenti l’io nella sua immediatezza individuale e la negazione di questo provvisorio positivo, insomma la negazione della negazione, che non può che giustificare l’esito nichilistico dell’idealismo.
Vedere, tuttavia, nella diagnosi di Capograssi la presa d’atto di una radicale crisi del pensiero moderno concluso con l’idealismo e dall’idealismo significherebbe risolvere l’«analisi dell’esperienza comune» in uno dei tanti esempi di antimodernismo del cristianesimo cattolico; significherebbe assimilare la storicità dell’«analisi dell’esperienza comune» a una delle tante estenuate, restauratrici ontologie fenomenologiche che la filosofia contemporanea ha conosciuto e conosce, terrorizzata dal possibile esito del nichilismo. Capograssi è spirito troppo profondamente cristiano per sfuggire i rischi, le paure, le brutture dell’individuo ma anche per temere la nuova forza dell’individuo, scoperta ineludibile del moderno. Se egli sa che l’idealismo è la conclusione del pensiero moderno, sa anche che, dentro il moderno, fermenta un’altra dimensione del pensiero, che è quella delle insopprimibili eresie, l’eresia del pensiero agostiniano di Francesco Petrarca, di Martino Lutero e di Pascal, l’eresia della conoscenza storica di Vico, l’eresia dell’antropologia kantiana, l’eresia del Karl Marx della Kritik des Hegelschen Staatsrechts (1843, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico), l’eresia della filosofia del lavoro di Pierre-Joseph Proudhon, l’eresia dello storicismo, di cui egli stesso finisce per costruirsi una dimensione originale, lo storicismo cristiano ragionato con Vico e con Alessandro Manzoni.
Il punto di partenza della nuova tappa della riflessione capograssiana comincia con una lucida interpretazione di un elemento centrale dell’idealismo: l’affermazione dell’assolutezza dell’individuo risolta nella negazione dell’individuo concreto ed empirico, fatto tutt’uno con il pensiero che lo pensa e lo conosce in quanto fatto assoluto. Per uscire da questa condizione senza dichiarare inutile lo stesso processo, l’idealismo – e specialmente Hegel – ha affidato all’individuo il mondo della pratica visto come esplicazione e realizzazione dell’esperienza diretta al fine assoluto. Anche qui l’assoluto è ciò che domina e però par non stritolare «senza riparo individuo, male, Dio», realizzandoli nello spirito assoluto di cui la storia, in quanto necessario passaggio dal bene al meglio, è la manifestazione indispensabile per capire che essa è «la conoscenza di sé».
Orbene, «con l’occhio che era più limpido e profondo di quello di Hegel», anche Vico si fermava sull’attività pratica e lo faceva, in pieno cartesianesimo, per riportare la vita dentro il pensiero e per riempirlo del suo vero contenuto, e cioè la vita del concreto. Quello di Vico è un capovolgimento anticipato dell’idealismo criticato nelle astrattezze del cartesianesimo: Vico contrappone alla ragione assoluta, al pensiero che pensa se stesso, «l’analisi veramente divina dei pensieri umani» che «ci guida sottilmente fil filo dentro i ciechi labirinti del cuore dell’uomo». Anche con Vico il ritorno dell’individuo concreto si realizza nella dialettica tra finito e infinito, però questa è il processo possibile, non necessario, dell’esperienza, la quale è conoscenza effettiva in quanto è creata dall’uomo e non semplice adeguazione della mente al suo contenuto. Anche in Vico c’è una «metafisica della mente», ma questa è qualcosa che rimane al di sopra o al di sotto dell’attività dell’uomo, è la ragione dell’azione scoperta nella sua finalità. Insomma, la forza di Vico è la conservazione del dualismo, tipico del moderno, come luogo delle particolarità individuali con la loro costitutiva alterità. La sua novità sta nell’avere guardato, senza etica ripugnanza, il mondo della pratica non come strumentale rispetto al mondo del pensiero, ma come una realtà che ha la propria ragione conforme ai bisogni dell’uomo. Nell’azione interessata, che nasce dall’utilità contro l’utilità, l’uomo è in grado di superare l’azione malvagia, scoprendo anch’essa le sue ragioni da vincere. Per tal via, secondo la vita, senza negarla, l’uomo scopre i concreti movimenti etici che non gli sono dati, ma sono da lui stesso creati secondo i principi del mondo umano: «dominio, libertà, tutela», definiti quali «fondamenti della mentalità vivente nell’atto e nel momento dell’azione, e cioè nell’atto della vita stessa concreta e storica» (Opere, 4° vol., p. 188).
Vico apre dunque un’altra strada del moderno, che si fonda su una diversa idea di dialettica. Non dialettica «senza termini» ma in cui i «termini» conservano la loro entità nel senso che sono soggetti all’oggettivazione con operazione possibile solo e se l’individuo non cava da sé il «non io», bensì scopre nell’«altro io» (il tu) la condizione del proprio io, e, al tempo stesso, conserva, resa consapevole di sé nella relazione con l’altro, la propria immediatezza. È chiaro che in questo Vico – letto con scrupolosa aderenza ai testi – Capograssi ragiona la sua stessa filosofia come «analisi dell’esperienza comune», che ha senso e significato solo se i suoi termini (l’azione, l’esperienza, l’individuo) non perdono la loro identità nell’assoluto che assume in sé la vita, tutta la vita.
Che cos’è l’azione, da dove nasce? L’azione è l’individuo, dipende dall’individuo, che a sua volta ne dipende. Certo la centralità dell’azione corre il rischio di cadere nell’attivismo, e per questo il pensiero moderno, nella tradizione conclusa dall’idealismo, mira a limitare l’azione includendola nell’infinitezza dell’assoluto perché non cerchi la propria falsa infinità. Per Capograssi, seguendo la tradizione di Vico, che era quella stessa dell’intimismo agostiniano e pascaliano portato a contatto dell’esperienza concreta del rapporto con l’altro, bisogna, ostinatamente, far centro sull’individuo e sulla sua azione senza uscirvi. La «limitazione», anziché «terribile», va cercata ed è trovata nella comunicazione dell’individuo (che acquista coscienza della propria azione) a contatto con gli altri individui e con le cose in mezzo a cui egli vive, scorgendo che sono diversi e distanti da lui. La comunicazione avviene attraverso la parola ma anche attraverso l’espressione articolata dell’intersoggettività, il nesso io-altri, che consente di acquistare «certezza dell’altra realtà per la via stessa della realtà», in tal modo confermata in sé, non risolta in altro da sé.
Dice Capograssi che, in questo «sistema di conoscenze» che è il «sistema della vita», l’individuo ha trovato se stesso come volontà e gli altri individui nella loro volontà. Li ha trovati come fatti. Ossia nella limitazione dell’azione che è la vita definita nel risultato dell’azione. Però l’individuo non può fermarsi a questa situazione ed esce nel campo aperto della realtà e della vita a fare esperienza di tutte le cose che ha intorno. Il fatto è prodotto dal farsi ed è condizione del farsi. Di fronte alla soluzione radicale dell’assolutizzazione dell’individuo, il pensiero vichiano porta l’esperienza oltre la volontà singola di fronte all’azione realizzantesi dell’altro soggetto, degli altri soggetti, tuttavia mai risolti in questo processo che li negherebbe per affermare se stesso anche a costo di rimanere ‘senza termini’, come nella dialettica hegeliana.
Come nella parola il pensiero dell’altro diventa pensiero del soggetto e il pensiero del soggetto diventa pensiero dell’altro, con una comprensione che è vera e matura penetrazione; così nell’azione la vita dell’altro diventa elemento della vita del soggetto e la vita del soggetto elemento della vita dell’altro (Opere, 2° vol., p. 42).
L’esperienza comune sfida la logica dell’idealismo impedendo l’esito solipsistico e attivistico. Vivere è un convivere e quest’è l’esperienza, la ragione e il fine dell’esperienza.
Capograssi si domanda ora se nel pensiero moderno, oltre il genio isolato di Vico, non vi siano altre posizioni interessate a rispondere al problema della fondazione dell’individuo. È Kant, a suo giudizio, a rivelare all’attività dell’individuo la trama «fissa e imprescindibile del tempo e dello spazio» che comporta la presa d’atto della «realtà del mondo esterno». Da siffatta «terribile situazione del finito vivente» deriva l’antagonismo che l’individuo deve risolvere, ossia «la lotta della vita» che vuole «il bene», la «legge morale», che «viene ad assicurare veramente il compimento dell’azione la quale in tanto realizza la sua finale esigenza in quanto riesce a trasformarsi in vita» (Opere, 2° vol., p. 179). Dunque anche Kant è un rappresentante importante dell’alta tradizione del mondo moderno che può fornire ancora altri contributi, individuati da Capograssi con originali avvicinamenti che rivelano la sua distanza dall’antimodernismo imboccato dalla Chiesa nella quale egli credeva.
Secondo Capograssi il problema di Vico, ripreso da Kant, può trovare sussidio nel pensatore moderno che «ha avuto l’idea più chiara e profonda dell’eticità del lavoro», ossia Proudhon, il quale, nel De la justice dans la révolution et dans l’Église (1858), aveva sostenuto che l’idea «naît de l’action et doit revenir à l’action», ricavandone la convinzione che ogni conoscenza detta a priori, inclusa la metafisica, «est sortie du travail et doit servir d’instrument au travail». Proudhon, teorico delle idee che nascono dall’azione e ritornano all’azione, rimprovera a Hegel di essere l’artefice di una dialettica positiva, chiusa nel suo circolo che non parte dall’azione per tornare all’azione attraverso le idee, ma fa il percorso opposto, dall’idea torna all’idea attraverso l’azione. Il logismo è assoluto e, paradossalmente, non esce nella storia, non fonda la storia ma un pacificato solipsismo, per definizione senza storia perché privo dell’idea di alterità. Proudhon, traducendo Vico e Kant nell’azione umanissima del lavoro, consente di individuare meglio il soggetto dell’azione, l’individuo costitutivamente intersoggettivo, che paga vivendo il rapporto delle proprie idee con quelle proprie degli altri soggetti. Ciò significa anche che la vita non è una necessità ma una possibilità che continuamente si prova e progressivamente capisce che per essere veramente se stessa ha bisogno della vita degli altri. Col che si chiarisce altresì l’indispensabilità del «tempo», che è lo svolgersi dell’azione nella pluralistica connessione dei vari momenti in ciascuna azione mia e degli altri, realizzante «l’esperienza comune» che è la vita e la comprensione della vita.
Il «tempo» – che Capograssi intende in termini non diversi da quelli storicistici, secondo cui il tempo è ciò che non è in quanto esso stesso eviene – implica anche la scoperta della «parcellizzazione» dell’azione nei suoi vari momenti dove l’individuo è sempre davanti alla scelta: agire o non agire, e, una volta optato per l’agire, scegliere tra portare a compimento l’azione o tradirla, non portandola al suo compimento, che è il realizzarsi delle finalità dell’azione e dell’agente. Con il tempo eveniente si mette in gioco la libertà, il gran tema del pensiero moderno che mostra, qui, tutta la sua complessità occultata dalla semplificazione dell’idealismo. La dialettica dell’azione, anziché «senza termini», ne ha e di poderosi: la parte e il tutto, il tempo e la storia, la passività e la libertà. L’azione, con il proprio soggetto e con il proprio oggetto, ha senso qualora configuri il «sistema» attuoso della vita che, a sua volta, significa la definizione delle ragioni della vita, affidata al farsi concreto nelle connessioni (il sistema) dei soggetti e degli oggetti. Nel che Capograssi trova il significato più profondo della storia, che definisce
il continuo tentativo che fa la volontà, il soggetto stesso in cerca del suo destino, di ricondurre nei termini della propria umanità concreta cioè della propria legge e del proprio fine, della propria idea, tutto il mondo delle cose, esso stesso il soggetto nella sua corposa e sensibile individualità (Opere, 2° vol., p. 82).
Di fronte a ciò il male è l’azione deficiente, l’azione non eseguita fino in fondo nel suo essere comunicazione di vita con vita. Il male è, detto altrimenti, la negazione della vita come realtà, della coesistenza di vite; è l’assolutizzazione volontaristica della mia vita, la quale presume di poter sussistere senza la comunità con la vita degli altri. L’azione comune non è l’uguale e contrario del logismo identificante essere e pensiero, perché si tratta della chiarificazione delle ragioni dell’azione che, in nome dell’alterità costitutiva dell’agente e dell’oggettività originaria dell’azione, rifiuta ogni enfatizzazione di uno dei due termini i quali, al contrario, si richiamano e si definiscono solo nel nesso di ragione e azione.
A questo proposito Capograssi incontra un altro interlocutore della sua rinnovata fondazione dell’azione: Marx filosofo della comunità, la cui filosofia viene dichiarata, nelle Riflessioni sull’autorità e la sua crisi, «la mirabile intuizione della realtà profonda della società contemporanea». È il Marx della Kritik des Hegelschen Staatsrechts, che ha saputo definire la filosofia hegeliana come un misticismo in quanto «scrive la storia dell’idea e dell’idea astratta, e non della vita», «la cosa della logica e non la logica della cosa». Capograssi dà un’interpretazione acutamente paradossale della marxiana lotta di classe, vista, ricordando Vico, come «la reazione del volere non contro la mancanza dei beni materiali» (com’è nel materialismo volgare) ma «contro lo stato di astrazione nel quale l’uomo vive rispetto al proprio lavoro» (Opere, 1° vol., p. 383). Per Capograssi la lotta di classe è «una mirabile novità morale» in un mondo malato di sensismo, perché tende a rintracciare l’«autorità vichiana», vale a dire l’affermazione e la tutela dell’ordine obiettivo che tutte le situazioni umane, considerate concretamente come alterità, hanno in sé. Dunque, non uno strumento di oppressione dell’uomo sull’uomo, di una classe sull’altra ma, in origine, l’agonistica difesa dell’individualità di ognuno e di tutti in una dimensione plurale che impone a tutti gli individui di vivere la propria vita fino in fondo, senza arrestarsi nella realtà relativistica del fatto e senza sfuggire la relatività relazionistica dell’azione quale dimensione costitutiva, agonistica della socialità. Nella parabola idealistica del marxismo, però, ancora una volta l’individuo è stritolato in un collettivismo dell’azione che è tutt’altra cosa dell’oggettivazione della vita attraverso l’oggettivazione dell’individuo concreto.
Attraverso questi incontri importanti, tutti originalmente rintracciati in situazioni diverse da quelle dell’affermazione dell’assoluto (del soggetto o dell’oggetto), Capograssi reputa di avere definita e salvata l’azione. E però gli resta il dubbio che non egualmente riuscita sia la salvezza dell’agente. Egli ritiene che la salvaguardia sia conseguita se si riesce a costruire il sistema dell’azione come scienza pratica della vita del soggetto, dei soggetti secondo le ragioni della vita. E però non viene meno il dubbio e la critica del dubbio. Questo sistema corre il rischio, come nel marxismo, di ripristinare l’assoluto sia pure per altre vie di quelle idealistiche. Capograssi tenta allora di scansare il pericolo capovolgendo il sistema dello spirito oggettivo di Hegel nel senso di riassumere tutta la vita di relazione nel momento del diritto che, in quanto esperienza giuridica, non può che essere il sistema delle azioni: il diritto è per definizione il mondo dei particolari, del singolare specificato nella fattispecie concreta dell’azione, da riportare al principio generale e astratto della norma, la quale, tuttavia, deve calarsi nel caso singolo e coglierne le ragioni. Attraverso il diritto Capograssi compie la sottile distinzione dell’astrattezza (il superamento del concreto) dall’astrazione intesa come processo di oggettivazione dell’azione singola che va superata affidandola a un’idea che non è un assoluto, ma l’idea di sé dell’azione, ossia l’idea umana di Vico, pensiero sì ma pensiero umano, pensiero della vita da cui nasce la scienza.
Secondo la fine interpretazione di Piovani, Capograssi, fatalmente, in tal modo riporta tutte le azioni nel sistema dell’esperienza a condizione però di ridurre tutte le azioni particolari all’idea dell’azione, che è il principio che regge il sistema. In tal modo, anche in Capograssi, tutto il processo delle plurime esperienze si risolve nella singolarizzazione dell’azione quale ragione dell’azione. Il che è certamente una tentazione e un rischio di Capograssi, il quale, avvicinatosi a tante dimensioni storicistiche dell’esperienza, non intende affidarsi completamente allo storicismo negatore di ogni forma di metafisica e di assoluto, come, infine, non aveva voluto fare neppure il suo Vico.
È lo stesso Capograssi tuttavia a suggerire l’antidoto antiassolutistico alla sua ricostruzione, con il ricorso a un ripensamento del significato della scienza del diritto. Ciò segna il passaggio del percorso aperto dall’Analisi dell’esperienza comune a Il problema della scienza del diritto (1937), preceduto dagli Studi sull’esperienza giuridica (1932). Nel libro del 1937 Capograssi si affida a una dettagliata analisi dell’idea di scienza, con particolare attenzione alla scienza del diritto perché era convinto che il diritto soprattutto non potesse prescindere dall’esigenza dell’ordine sotto il premere incalzante delle azioni concretissime degli individui disposti persino alla lesione pur di realizzare la propria azione a danno di quella degli altri. Il richiamo specifico alla Scuola storica del diritto (Friedrich Karl von Savigny) serve a sottolineare che la riflessione della scienza è un mezzo per garantire lo sviluppo dell’ordinamento giuridico senza l’immobilizzazione derivante dal processo di codificazione, nel quale può scorgersi qualcosa di analogo all’assolutizzazione dell’esperienza particolare compiuta dall’idealismo. Il diritto non si dà senza i casi particolari delle azioni dei soggetti mossi dai loro propri interessi. Questi, per essere soddisfatti, hanno bisogno di armonizzarsi con i bisogni degli altri soggetti, di superare e vincere il conflitto con altri interessi di altri soggetti. Ciò significa che gli interessi come gli individui devono coesistere per esistere effettivamente e coesistere senza intaccare la dinamicità della vita. Il che può essere compiuto dalla scienza del diritto nel senso di essere il sistema della giurisprudenza che non esce dalla vita pratica, senza cedere a un ordinamento precostituito, generale e astratto. Come era stato visto dalla Scuola storica quando polemizzava con la codificazione, temendo che questa fosse destinata a segnare il passaggio dalla dinamicità della giurisprudenza (il diritto dei casi concreti) al sistema della norma resa immobile nella formalizzazione della legge scritta.
Certo, anche qui può individuarsi un ritorno all’assolutizzazione idealistica, ma non si tratta più di un’opzione teoretica, bensì di una fine esegesi storiografica, nel senso che Capograssi intende ciò che può avvicinare la Scuola storica del diritto allo hegelismo dei Grundlinien der Philosophie des Rechts (1820, Lineamenti di filosofia del diritto), ossia quello sensibile alle ‘determinatezze’ dell’esperienza giuridica da oggettivare (lo spirito oggettivo) ma non assolutizzare. Il richiamo alla Scuola storica indica la sottile intuizione che questa deve costruire il «sistema del diritto» come ciò che riconosce e ordina la vita secondo una razionalità intrinseca delle cose della vita. Si tratta di stabilire che le azioni hanno una storicità intrinsecamente esistenziale nel senso della Natur der Sache. È questo il significato della scienza come scienza storica secondo la riflessione della Scuola storica nella quale Capograssi cerca di individuare il configurarsi dell’analisi dell’esperienza comune, sensibile alla fenomenologica connessione strutturale e indissolubile dell’azione e dell’agente, senza sacrificare l’individuo concreto (l’agente) all’azione.
La preoccupazione (e la diagnosi) è che il prevalere delle dimensioni volontaristiche da un lato e collettivistiche dall’altro, nella comune enfatizzazione dell’azione trasportata nell’assoluto, possa provocare l’attenuazione della funzione delle «idee umane» (il «pensare umano» di Vico). In tal senso, il prevalere dell’oggetto sul soggetto ha trasformato l’idea della lotta di classe – in origine difesa dell’individuo non solipsistico contro quanti miravano a ridurlo a un ingranaggio del mondo della produzione – e l’ha fatta diventare (per il Capograssi che scrive nel 1937) un assoluto e meccanico egualitarismo che cancella con l’originalità dell’individualità umana l’originalità e la ricchezza delle forme concrete e autonome dell’esperienza. Le forme alle quali, al contrario, il diritto (non a caso sempre più contestato dai sistemi totalitari) fornisce il «concetto» secondo cui «la coscienza comune» «non è un concetto astratto ma un’idea umana nel senso vichiano: che fa corpo con tutto l’agire del soggetto». Il diritto è «una delle forme della vita che deve evitare che la trasformazione in norma» configuri l’affermazione dell’astrattezza piuttosto che l’astrazione, che è «il prodotto per così dire di una funzione o attività astraente dello spirito, la quale dà origine alle norme non solo in quanto poste ma in quanto attuate».
E, significativamente, qui, Capograssi cita il Rudolf von Jhering di Der Zweck im Recht (1877-1883) e di Der Kampf ums Recht (1872), che invita a distinguere l’astrazione della norma dall’astrattezza (la norma come imperativo astratto, capace di assumere, regolandoli, i diversi contenuti concreti delle azioni). Di fronte alla «realtà che è molto più profonda e più razionale di quello che sembra», la scienza del diritto «è una forma di vita», in quanto è ciò che «contribuisce a fare l’esperienza» nel senso di una «concezione che nasce dalla vita», «implicita nella posizione stessa della scienza» che le garantisce la certezza di sé, anziché perderla come accade nelle crisi della società contemporanea. La lotta di Jhering contro il formalismo si rivolge contro l’indifferenza pratica che paralizza alle radici la spinta dell’amore della scienza, un tema assai sottile di Jhering, un tema storicistico che Capograssi mette in rilievo. Da qui la definizione dello scopo come un mezzo tecnico per tenere congiunti il lavoro sistematico della scienza e l’originaria spinta asistematica della scienza della vita come volontà. Grazie a questo sinolo nello sforzo della scienza, la volontà singola diviene «obbligazione» in quanto perde la libertà nel senso originario di arbitrio acquistando consapevolezza della realtà nella sua complessità e multiparticolarità. Attraverso tale via l’«obbligo» diventa «responsabilità» libera perché voluta, ovverosia ciò che la scienza ragiona con lo scopo di stabilire la connessione connaturale – e perciò necessaria – tra la volontà oggettiva della legge e la volontà singola dell’azione:
il valore della legge in quanto volontà e volontà avente un contenuto concreto e un concreto oggetto, non è altro che il valore della volontà del singolo in quanto riesce a diventare ricca di quella razionalità che la legge esprime (Opere, 2° vol., p. 496).
Ha ragione, dunque, Piovani quando sostiene che per Capograssi, sempre rivolto alla scoperta della verità dell’azione, l’esperienza storica del diritto è l’esperienza storica dell’uomo in quanto esperienza dell’unità, dell’universale natura umana. Il che mantiene il filosofo dentro lo «storicismo letteralmente neovichiano», che «rinnova l’incontro, o la collaborazione, tra storia universale e Diritto universale». Tuttavia questa conclusione, se assolutizzata, come certo anche Capograssi può suggerire, finisce per essere involontariamente riduttiva della criticità della concezione che, in Capograssi, è collegata con l’esigenza della salvezza (dell’azione e dell’agente). Tale esigenza lo porta verso la rivendicazione di una teodicea della salvezza (non conciliabile con lo storicismo rigoroso e radicale, antimetafisico e antiontologico) accanto alla teodicea della sofferenza (che consente la costruzione di uno ‘storicismo cristiano’), la quale è l’antidoto da opporre al «torbido popolo dei fantasmi» che diventano gli «individui» se inseriti «dentro la spettrale repubblica senza movimenti e senza storia che la Scuola del diritto naturale ha costruito» (Opere, 1° vol., p. 10). Quest’affermazione non è quella di uno storicista incallito, bensì quella di un cristiano convinto filosofo originale.
Capograssi, una volta arrivato a chiarire il «problema» della scienza, avrebbe a lungo riflettuto sulle «esigenze», sui «compiti» dell’«individuo contemporaneo» dopo la «catastrofe» anche del diritto successiva alla Seconda guerra mondiale e alla connessa espropriazione dell’individuo dalla sua azione: l’individuo anonimo, statistico, spettrale soggetto di un mondo che ha risolto l’essere nell’apparire e ha tolto all’uomo anche il dolore del sacrificio, che costa l’azione buona non meno di quella malvagia.
Contro tutto ciò, l’ultimo Capograssi ritornò, con rinnovata tensione teorica, a cercare la significazione della «vita etica», seguendo un percorso che, non negando l’ontologia della storia, questa affidava ancora una volta alla vis veri vichiana, inducendolo a delineare una forma rigorosa e originale di storicismo cristiano. Ma questo è altro discorso, qui impossibile pur solo accennare, e, tuttavia, costruibile soltanto una volta inteso, come qui s’è tentato di fare, il senso ‘modernistico’ del pensiero moderno secondo Capograssi.
Le Opere, a cura di M. D’Addio ed E. Pidal, sono state pubblicate in due riprese: i primi sei volumi (Milano 1959) raccolgono le monografie principali e i saggi pubblicati in vita con alcuni inediti; il settimo volume, a cura di F. Mercadante (Milano 1990), comprende pochi scritti giuridici minori sfuggiti alla prima raccolta, una serie di recensioni e note in varie riviste, alcuni importanti manifesti di carattere etico-politico cui Capograssi collaborò, e i testi delle esercitazioni degli studenti di filosofia del diritto dirette da Capograssi nell’Università di Roma tra il 1923 e il 1932.
Alcune delle opere principali sono state pubblicate in volumi autonomi:
Il problema della scienza del diritto, a cura di P. Piovani, Milano 1962 (ed. originale Roma 1937).
Analisi dell’esperienza comune, a cura di P. Piovani, Milano 1975 (ed. originale Roma 1930).
Riflessioni sull’autorità e la sua crisi, in appendice la tesi di laurea, a cura di M. D’Addio, Milano 1977 (ed. originale Lanciano 1921).
Introduzione alla vita etica, a cura di C. Vasale, Roma 1976 (ed. originale Torino 1953).
La vita etica, a cura di F. Mercadante, Milano 2008, raccoglie insieme alla ristampa dell’Analisi dell’esperienza comune (a cura di A. Delogu), dell’Introduzione alla vita etica (a cura di G. Riconda) e della Nuova democrazia diretta (a cura di M. D’Addio), una corposa serie di saggi a cura di F. Tessitore, A. Punzi.
I Pensieri a Giulia, l’amatissima moglie, hanno ricevuto due edizioni, la prima in tre volumi a cura di G. Lombardi (Milano 1978-1981), la seconda (Milano 2007) con l’aggiunta di un’ampia Prefazione di G. Savarese.
Una corposa bibliografia fino al 1990 a cura di M.G. Esposito è pubblicata in Opere, 7° vol., Milano 1990, pp. 517-62. Di questa vanno visti gli scritti di E. Opocher, P. Piovani, F. Tessitore, M. D’Addio, V. Zaccaria, A. Zanfarino, insieme a:
La filosofia dell’esperienza comune di Giuseppe Capograssi, a cura di P. Piovani, Napoli 1976 (con scritti di G. Acocella, F. Bianco, G. Calabrò, V. Frosini, G. Marini, P. Piovani, F. Tessitore).
Due convegni su Giuseppe Capograssi (Roma-Sulmona, 1986). L’individuo, lo Stato, la storia. G. Capograssi nella storia religiosa e letteraria del Novecento, a cura di F. Mercadante, Milano 1990.
Infine si veda:
V. Frosini, Capograssi Giuseppe, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 18° vol., Roma 1975, ad vocem.
M. D’Addio, Giuseppe Capograssi (1889-1956). Lineamenti di una biografia, con un’appendice di scritti rari e documenti inediti, Milano 2011.