CASTELLAZZI, Giuseppe
Figlio di Giulio e di Giovanna Costa, nacque a Verona il 10 ag. 1834. Completò la propria educazione frequentando l'università di Padova, dove conseguì la laurea in ingegneria nel 1856. L'anno seguente si trasferì a Venezia per perfezionare i suoi studi sull'architettura, seguendo gli insegnamenti del marchese P. Selvatico Estense, in quel periodo presidente dell'Accademia di Belle Arti e ivi titolare della cattedra di estetica, del quale il C. si considerò sempre discepolo e seguace. In quegli stessi anni veneziani, fondamentali peraltro per il completamento della sua formazione, si distinse in un concorso di architettura del 1860, in cui riportò il primo premio con medaglia d'oro. Poco tempo dopo, per sollecitudine del governo austriaco, fu inviato in Germania e poi in Francia per compiervi soggiorni di studio.
Nel 1862 vinse per concorso una pensione per studi di perfezionamento a Roma. In seguito, "per onore conferitogli dall'Accadernia veneta di Belle Arti", partendo da Trieste si recò per un anno in Grecia, in Turchia e in Egitto, soggiornando a lungo, ad Atene, a Istanbul e al Cairo, e facendo tappe nelle Cicladi, a Smime e a Beirut. Nel 1865 il C. faceva ritorno a Venezia.
Da studi e rilievi e da impressioni di viaggio in quei paesi trasse il volume Ricordi di Architettura orientale, che venne pubblicato in dispense a Venezia a partire dall'aprile del. 1871 fino al 1874; ad esso P. Selvatico Estense riservò particolare attenzione scrivendo il saggio Relazione... sui Ricordi di Architettura orientale del prof. G. C. (Venezia 1874).
Nei Ricordi, che sono una raccolta di cento tavole di disegni rielaborati su schizzi presi dal vero, che si alternano a sue ideazioni architettoniche ispirate a motivi bizantini e islamici, con un testo di accompagnamento, il C., invece di indirizzare la propria attenzione ai grandi monumenti, preferì occuparsi di architetture e arti minori, di arredi in legno e di soluzioni di interni.
In quegli stessi anni il C. intraprese a Venezia la propria attività professionale, dedicandosi a opere di restauro architettonico. A questo suo periodo veneziano risale infatti il ripristino del palazzo Contarini a S. Patemian, presso l'odierno campo Manin, e dell'annessa scala del Bovolo: l'intervento di restauro fu eseguito per conto della Società d'arte e beneficenza fondata da L. Torelli e compiuto nel 1872. Agli stessi anni risale anche una nuova costruzione annessa al palazzo Cavalli di S. Luca, sempre a Venezia (Ricordi di architettura, I[1878], 4, tav. III). Ad Este eseguì una scuderia alla "maniera russa" (ibid., 12, tav. II).
Il C. si trasferì a Firenze nel 1874, dopo aver vinto il concorso per la cattedra di geometria prospettiva e architettura presso la locale Accademia di Belle Arti, della quale nel 1877 fu nominato professore stabile e poi, nello stesso anno, direttore.
Nel breve saggio Dell'architetto. Prelezione di G. Castellazzi professore di architettura nel R. Istituto di Belle Arti di Firenze (anno scolastico 1874-75), Firenze 1875, il C., esponendo le proprie concezioni sulla figura dell'architetto e sull'insegnamento dell'architettura, affermava che "il vero architetto quale da noi vuolsi avere, deve... essere costituito di due... differenti esseri; i quali, sebbene uniti in una sola persona, ci debbano rappresentare l'architetto che immagina e l'architetto che costruisce" (pp. 11 s.); e ancora: "È quindi incontrastabile che il costruttore e l'artista debbano essere in una sola persona: che uno, istruito delle scienze positive della matematica, delle costruzioni e della pratica, sappia rispondere e domandare, uniformarsi od opporsi all'altro animato dalla propria immaginazione, e convinto della sua artistica istituzione" (p. 12).
Con l'impegnativa impresa del restauro della loggia del Bigallo, il C. iniziò i suoi discussi e ancor discutibili interventi su monumenti medievali fiorentini di particolare prestigio storico e grande valore artistico.
Il primo intervento di restauro che il Bigallo subì durante il corso del sec. XIX fu quello di Mariano Falcini, il quale nel 1865 aveva liberato le arcate angolari demolendo le pareti di mattoni che le rendevano cieche. Per la vicenda dell'intervento del C., seguendo quanto riportato da L'Illustrazione italiana del 30 maggio 1886 (La Loggia del Bigallo in Firenze e il suo restauro, p. 437), si apprende che "l'iniziativa del restauro... fu tutta dell'architetto G. Castellazzi". Nell'opera di restauro, condotta con discrezione, il C. si tenne lontano da improbabili reintegrazioni architettoniche, che fra l'altro il caso non suggeriva. Il ripristino invece dell'apparato pittorico murale esterno, contemplato nel suo progetto, fu affidato, sulle poche tracce esistenti, al pittore Gaetano Bianchi, che interpretò le non molto probabili indicazioni reintegrative sostenute dal Castellazzi. A fianco di questo fu presente con la sua opera l'ingegnere Giuseppe Fabbri, in rappresentanza della Pia Amministrazione dell'Orfanotrofio del Bigallo. Il restauro fu eseguito fra il 1880 e il 1882.
Il notevole successo riscosso presso l'opinione pubblica fiorentina dal restauro del Bigallo valse, di lì a poco, all'architetto veronese l'incarico di redigere un progetto di ripristino del palazzo di Orsanmichele, compito che gli venne affidato dal ministero della Pubblica Istruzione. Conscio dell'importanza dell'occasione, il C. pubblicò, dedicandola al Selvatico, la sua monografia Il palazzo detto di Or San Michele. I suoi tempi ed il progetto del suo restauro (Firenze-Roma 1883), nella quale chiariva la proposta di restauro dell'insigne monumento e i criteri da lui seguiti.
Per il piano terreno, dedicato al culto, proponeva, non potendosi riaprire tutte le arcate, "... la demolizione parziale... delle ostruzioni, cioè di tutte quelle parti le quali non appartenendo né al concetto architettonico né alla statica... della Loggia, deturpano di fatto l'ampia luce originale delle arcate..." (p. 63). Liberate le grandi trifore, il C. pensava di fornirle di vetrate. Veniva inoltre prevista la demolizione della scala medicea di accesso alla parte soprastante dell'edificio, eretta nel 1569, e la creazione di due bussole di legno per disimpegnare gli ingressi alla chiesa e ai piani superiori. Inoltre, avrebbe dovuto essere restaurato il tabernacolo dell'Orcagna; spostamenti di altari e l'eliminazione della sagrestia completavano il semiripristino della ex loggia del Grano. Il C. proponeva anche la riapertura della scala originale nel pilastro nordoccidentale dell'edificio, auspicando nel contempo il trasferimento ad altra sede dell'archivio notarile e la destinazione del primo piano a tribuna dantesca. Sul tetto si consigliava di ricostruire la "vedetta", torricella quadrangolare sul pilastro di nord-ovest.
Il progetto del C. per Orsamichele, situandosi a mezza strada fra un tentativo di ripristino del primo aspetto dell'edificio e una inevitabile accettazione delle mutate destinazioni d'uso, soprattutto del piano terreno e del primo piano, fu accolto con perplessità, suscitò polemiche e fece sollevare obiezioni.
Sulla sua concezione del restauro architettonico il C. aveva espresso alcune idee in Quattro lettere di Architettura al Direttore della Gazzetta di Venezia. Lettera prima: La demolizione della chiesa di San Moisè; lettera seconda: La loggia del Fontego dei Turchi e le sue vetriate; lettera terza: I ristauri dei palazzi Tiepolo, Loredan e Farsetti; lettera quarta: Di un progetto di ristauro delle Procuratie vecchie, pubblicato a Venezia nel 1877.
Con tono convinto il C. affermava che "Un ristauro dev'essere come una resurrezione, e le aggiunte, per quanto perfette esse sieno, mistificano sempre la vera interpretazione dell'originale" (Letteraprima, p. 17). Quanto alla proposta di restauro delle Procuratie Vecchie sulla piazza S. Marco nella Lettera quarta prospettava la necessità di una loro demolizione e ricostruzione successiva (p. 31).
Polemiche molto più accese di quelle per Orsanmichele doveva però sollevare l'ultimo e ancor più impegnativo progetto di totale ripristino di edificio medievale redatto e avviato a realizzazione dal C.: quello relativo all'insigne chiesa fiorentina di S. Trinita. Nel clima fiorentino della seconda metà dell'Ottocento, in cui erano estremamente diffusi pensieri e voti per i restauri dei monumenti medievali, la chiesa di S. Trinita, una delle più antiche della città, non poteva non attirare interesse per un suo ripristino, avendo subito nei secoli numerosi interventi e manomissioni.
Nel 1881 Giovacchino Bondi, converso vallombrosano, si fece promotore assieme a don Camillo Orsini di una iniziativa in cui si caldeggiava il restauro del tempio. Ne venne interessato Guido Carocci, ispettore ai monumenti della Toscana, che ottenne dal governo il beneplacito per l'opera di ripristino, il cui progetto fu affidato al Castellazzi. Questi presentò un progetto di massima che venne approvato a grandi linee; i lavori ebbero inizio a seguito della nota ministeriale dell'8 ag. 1884, sotto la direzione del C. e la sorveglianza della Commissione conservatrice dei monumenti della provincia di Firenze.
Ben presto però insorsero difficoltà di vario genere, che costrinsero il C. a modificare il progetto e portarono all'interruzione dei lavori. Fin dall'inizio si rivelarono notevolmente distanti le posizioni fra i suoi criteri e i pareri della Commissione, che pur aveva espresso una approvazione di massima. E. Marcucci, ispettore degli scavi di antichità e dei monumenti per il circondario di Firenze, opponendosi duramente al C. sosteneva che era ormai definitivamente tramontata l'epoca dei restauri "completi e generali": dello stesso avviso era la Commissione conservatrice.
Sostanzialmente, ciò che veniva criticato nel progetto di restauro e poi nei lavori intrapresi dal C. era la presunzione di riportare la chiesa all'ipotetico aspetto dei tempi della sua costruzione. Da ciò proveniva la posizione surrettiziamente sostenuta dal C. che bisognasse eliminare tutto ciò che la storia aveva depositato sulla struttura originaria, peraltro non storicamente testimoniabile. Il C. auspicava la rimozione anche dei due importanti interventi di Bernardo Buontalenti, cioè i gradini del presbiterio e la facciata.
Nel volume monografico che il C. pubblicò sulla chiesa fiorentina, La basilica di S. Trinita. I suoi tempi ed il progetto del suo restauro (Firenze 1887), per illustrare compiutamente il suo pensiero, gli interventi buontalentianì venivano giudicati alla stregua di una profanazione: lasciando ad altri di giudicare e di lodare l'arte del Buontalenti, affermava di non poter "ugualmente lodare il concetto di voler cambiare, mutilare, deformare con le linee stravaganti dell'arte di quei tempi, con quell'arte fiorita ovunque e perciò senza patria, quanto invece la purezza dell'arte toscana medioevale aveva saputo creare..." (p. 71). Secondo il C. la scala del presbiterio, che "con quelle linee indiavolate, incartocciate ed altrettanto bizzarre", urtava il restauratore, alterando la "severa semplice e caratteristica espressione... trecentista originale del Tempio" (ibid.), doveva essere portata altrove. Quanto alla facciata, la giudicava "non conveniente alla purezza dello stile incorrotto toscano del quale è ispirato tutto il pensiero architettonico del Tempio..." (p. 76).
Nei primi mesi del 1885 prese avvio sulle pagine di vari giornali fiorentini, in particolare su La Nazione, una vivace polemica suscitata dalle proteste del marchese Bartolinì Salimbeni, patrono di due cappelle gentilizie in S. Trinita, a cui, come ad altre famiglie, era affidata la spesa dei lavori intemi ad esse. La controversia insorse fra il Bartolini Salimbeni e la commissione conservatrice: quest'ultima accusava il patrono di aver preso troppe iniziative personali in ordine al restauro.
Il C. fu ampiamente coinvolto nella faccenda nella sua qualità di responsabile della direzione dei lavori: in una lettera apparsa su La Nazione del 9 apr. 1885 e nell'opuscolo da lui pubblicato Intorno al progetto di restauro della chiesa di Santa Trinita... (Firenze 1885) egli rendeva conto dei lavori che erano stati eseguiti e giustificava quindi il proprio operato.
I lavori più volte interrotti proseguirono a fatica con continue modifiche all'originario progetto del C.: dal luglio del 1887 essi ripresero regolarmente. Solamente nell'ottobre del 1890 furono riaperte al culto le tre navate e le cappelle. Intrapresi i Xestauri del transetto e delle parti rimanenti, passarono altri sette anni perché la difficile impresa potesse considerarsi compiuta.
Il C. si spense in Firenze il 20 dic. 1887.
Luigi Del Moro gli succedette nella direzione dei lavori in S. Trinita; collaborarono inoltre all'opera, specie nella fase conclusiva, funzionari e tecnici della Commissione conservatrice, fra cui G. Carocci, G. Poggi, G. Milanesi e, infine, gli architetti E. Cerpi e G. Castellucci: sotto la direzione di quest'ultimo fu terminato il restauro. A. Burchi, C. Conti, P. Pezzati e D. Chini curarono i restauri pittorici.
Il C. fu membro di varie accademie e società scientifiche, fu presente in numerose commissioni giudicatrici di concorsi nazionali di architettura, meritò la commenda dell'Ordine della Corona d'Italia e appartenne all'Ordine mauriziano. Negli anni della sua maggiore attività partecipò, anche assieme ad altri artisti, ad alcuni concorsi per monumenti celebrativi. Fra le gare cui prese parte si ricordano quelle per i monumenti a Vittorio Emanuele II a Torino, a Venezia e a Roma.
Nel 1879 al concorso di Torino presentò un progetto - che fu premiato - assieme ad A. Rivalta, che era professore di scultura presso l'Accademia di Firenze (Ricordi di architettura, III [1880], 7, tav. II); vinse però il progetto di P. Costa, la cui realizzazione fu compiuta nel 1899. Sempre col Rivalta disegnò il monumento per Venezia, che il C. prevedeva di erigere presso la base del campanile di S. Marco: tale collocazione incontrò forti resistenze e la giuria, dopo alcune incertezze, preferì il progetto di E. Ferrari, eseguito nel 1887 e posto sulla riva de li, Schiavoni (ibid., I [1878], 9, tav. III).
Il progetto del C. Per il concorso internazionale di Roma del 1880 guadagnò una medaglia d'argento. Scelta per Pubicazione l'area della piazza delle Terme, poi dell'Esedra e oggi della Repubblica, il C. approntò una scenografica soluzione urbanistica del luogo mediante un monumentale apparato semicircolare innestato sul perimetro dell'esedra romana delle terme di Diocleziano. Il monumento doveva consistere in un "emiciclo trionfale" con al centro un "arco-galleria" alto 32 metri di accesso alla via Nazionale. Di questo schema presentò anche varianti: in una, ai lati dell'emiciclo trovavano posto il Museo storico nazionale e l'Archivio storico nazionale. Al centro della piazza così sistemata sarebbe sorta la statua equestre del re grande due volte e mezzo il vero: come alternativa a quest'ultima il C. proponeva anche l'erezione di un mausoleo come tomba del sovrano. La grande esedra in travertino con colonne di granito rosso era risolta architettonicamente con un classicismo magniloquente ed eclettizzante, che, a detta del C., doveva essere uno stile "... Romano, per quanto riguarda alla grandiosità delle masse costruttive e decorative. Il tutto però manifestato possibilmente... col sentimento artistico predominante nel presente secolo XIX..." (Progetto presentato al concorso intern. per il monumento da erigersi in Roma al Re Vittorio Emanuele II di Savoia primo re d'Italia, Roma-Firenze 1881, p. 16). L'esedra del C. presentava inoltre notevoli affinità con la soluzione del francese Henri-Paul Nénot, vincitore del primo premio. Certo è che il C. dimostrò poca comprensione verso le tendenze innovatrici presenti nella cultura architettonica dell'epoca. Allorché A. Melani affermava di augurare agli Italiani di trovare nel ferro "l'ispirazione di una architettura nazionale indipendente da influenze classiche o medioeve", il C. ribatteva che quelle parole esprimevano un "ardito concetto, troppo ardito..., perché l'indole di quel materiale differisce da quello delle pietre colle quali, crude o cotte, si è fatto fino ad oggi l'architettura" (I manuali di A. Melani, in Arte e storia, III[1884], pp. 347 s.).
Nell'annosa disputa per la facciata di S. Maria del Fiore il C. fu sostenitore del coronamento basilicale. Fin dal 1879 fu tra gli autori del Dizionario tecnico dell'architetto e dell'ingegnere civile ed agronomo. Dalla sua posizione di docente propugnò vivacemente l'istituzione di speciali scuole di architettura presso le accademie di Belle Arti: a questo riguardo si ricorda che fu presidente della commissione incaricata di riferire sull'opportunità dell'introduzione in esse dell'insegnamento scientifico. Postumo fu pubblicato, del C., Il Monumento al re Vittorio Emanuele e il Palazzo Pitti, Firenze-Roma 1888.
Fonti e Bibl.: Per notizie biogr. e sull'attività del C. in generale, si veda: C. Caselli, Necrologia di G. C., in L'Ingegneria civile e le arti industriali, XIV (1888), 1, p. 15; D. Fadiga, Necrol. di G. C., in Atti dell'Accad. di Belle Arti.. di Venezia, 1888, pp. 47-51;Firenze, Arch. d. Accademia di Belle Arti, filza 1874, nn. 58, 133;filza 1875, n. 25; filza 1876, n. 30; filza 1877, nn. 38, so, 52;filza 1882, n. 12;E. Crociatelli, G. C., in Atti del Collegio degli archit. ed ingegneri in Firenze, gennaio-dicembre 1887, pp. 93 s.; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, VI, p. 145. Sul restauro del pal. Contarini e della scala del Bovolo a Venezia, vedi: G. Tassini, Curiosità venez. [1863], Venezia 1970, pp. 369 s., 744 n. 3;G. Romanelli, Venezia Ottoc., Roma 1977, pp. 312, 345. Per gli interv. di riprist. della loggia del Bigallo: Kunst-Chronik, XVI (1881), 33, pp. 539-540;O. Schulze, in L'Art, XXXVIII (1885), p. 41; G. Poggi, in Riv. d'arte, II (1904), pp. 189-202. Sulla proposta di restauro di Orsanmichele: I. Catrupo, in L'Abeille fiorentine, 1° dic. 1881;P. Faltoni, in Arte e storia, II (1883), pp. 397 s.; G. Poggi, ibid., pp. 347 s., 362-364, 388-390;G. Baccini, Botta e risposta, Firenze 1884; P. Franceschini, L'Orat. di S. Michele in Orto in Firenze, Firenze 1892, pp. 5, 59, 72, 97, 99, 103. Per la vicenda dei restauri di S. Trirrita: G. Carocci, in Arte e storia, III (1884), pp. 251 s.; E. Marcucci, ibid., IV (1885), pp. 57 s., 73-76;Id., Restauri di S. Trinita, Firenze 1885; P. Franceschini, in Il Nuovo Osserv. fiorentino, 15 marzo 1885; La Nazione, 26 marzo 1885; 9 apr. 1885 (lettera del C. al direttore del quotidiano, in data 29 marzo 1885); 10 apr. 1885; 19 apr. 1885; 24 apr. 1885; P. Franceschini, in Il NuovoOsservat. fiorentino, 6 dicembre 1885. Articoli sulla polemica dei primi mesi del 1885 sono inoltre contenuti in La Nazione, 10 febbr. 1885; Corriere ital., 11 febbr. 1885; La Nazione, 11 febbr. 1885; in Fieramosca, 12 febbr. 1885; e ancora su La Vedetta, L'Elettrico, L'Opinione nazionale, Il Resto al sigaro, Il Buon Giorno, e altri. Si veda inoltre sempre suS. Trinita: G. Carocci, in Arte e storia, V (1886), pp. 20 s.; VII (1888), pp. 50 s.; IX (1890), pp. 201 s.; F. Tarani, Cenni storici e artistici della chiesa di Santa Trinita e suo restauro, Firenze 1897, passim;P. Franceschini, Del restauro al tempio di Santa Trinita in Firenze, Firenze 1898, passim;C. Botto, Note e docc. sulla chiesa di S. Trinita in Firenze, in Riv. d'arte, XX (1938), pp. 1-22. Sul progetto del C. per il monumento a Vittorio Emanuele IIa Roma, vedi P. Quaglia, Cento schizzi intorno ai progetti pel monumento da erigersi in Roma al Re Vittorio Emanuele, Roma 1882, pp. 28, 110-117, tav. 77.