CESTARI (Cestaro), Giuseppe
Nacque a Napoli il 12 dic. 1751 primogenito di Serafina de' Sio e di Giacomo Cestaro (questa la forma con cui il C. firmava la corrispondenza privata, mentre tutte le sue opere a stampa sono firmate Cestari).
Avviato alla carriera ecclesiastica, studiò nel seminario di Napoli, ove subì l'influenza del rettore e professore di teologia dogmatica, G. Simioli, che lo avviò ad accogliere quelle forme tipiche che la dottrina di Giansenio aveva assunto nel contesto storico-politico della Napoli settecentesca. Così il C., inseritosi facilmente nell'ambiente napoletano più progressista, maturò presto idee di acceso regalismo e di violento anticurialismo.
Ordinato sacerdote nel 1775, si dedicò dapprima a studi filologici e linguistici: i suoi primi scritti eruditi, in cui affrontava problemi di esegesi biblica e questioni letterarie sull'origine del volgare e dei dialetti, gli procurarono una certa notorietà nei salotti culturali napoletani, di cui divenne frequentatore e ove strinse numerose amicizie. Membro dell'Accademia di scienze e lettere sorta a Napoli nel 1778, fu tra i primi, insieme con L. Serio, a scendere in campo nella polemica suscitata dalla pubblicazione di uno scritto di F. Galiani, Del dialetto napoletano (1779), che egli recensì burlescamente; e quando l'abate, irritato, lo attaccò nella seconda edizione del suo libro, il C. replicò con cautela, ma difese con sostanza di argomenti la sua posizione di lotta all'antiaccademia e all'uso del dialetto.
Contemporaneamente si era andato formando una solida preparazione storico-archivistica, come dimostra il lavoro di ampio rilievo che egli affrontò nel 1783, portando a compimento gli Annali del Regno di Napoli (I-X, Napoli 1781-1786) che, iniziati da F. A. Grimaldi, suo amico e confidente, erano rimasti interrotti al VI volume per la morte dell'autore.
Il C. condusse la narrazione dall'anno 872 fino al 1211, fornendo a questa parte dell'opera una impostazione nettamente regalista, che anticipa già in modo chiaro l'antivaticanismo che avrebbe caratterizzato la sua produzione maggiore. Netta è la condanna della politica temporalistica condotta dai pontefici, che raggiunge il suo culmine nel duro attacco mosso alla figura di Gregorio VII e alla sua dottrina accolta e canonizzata dalla Curia romana. L'opera, che si ispira alla tradizione giurisdizionalista e regalista degli scrittori del Regno, risente chiaramente dell'influenza di P. Giannone, al quale il C. attribuisce il merito di aver dissipato dalla mente degli scrittori molti pregiudizi e molti errori di valutazione storica e politica.
Nella ricca letteratura anticuriale di fine Settecento si distinsero, per la violenza del tono e per il clamore suscitato, le due opere più significative del C., nelle quali si manifestano in maniera diffusa le sue idee regaliste: l'Esame della pretesa donazione fatta da s. Arrigo imperatore allaS. Sede, (Napoli 1785), che provocò una risposta del cardinale Stefano Borgia, e soprattutto la Dimostrazione della falsitàdei titoli vantati dalla S. Sede sulle DueSicilie (Napoli 1789), rigoroso e dotto trattato di dottrina giurisdizionalista, scritto su comando della regina, e che gli valse "la nomina a prefettodegli archivi della R. Zecca e della R. Camera della Sommaria.
Quest'opera affronta i temi fondamentali della problematica politico-ecclesiastica che si agitava da anni in Napoli; attraverso il vaglio severo dei documenti il C. invalida i pretesi diritti feudali del papa sul Regno di Napoli e approda ad una dura condanna della S. Sede e della sua politica temporalistica, che egli giudica in contrasto con le prerogative spirituali volute da Cristo nell'istituzione della Chiesa. La religione - egli afferma - riceve grandissimo danno dall'ambizione e dall'avarizia dei pontefici, i quali hanno trasformato la cattedra di Pietro in una corte mondana, circondandosi di vescovi ignoranti che ne sostengono le assurde pretensioni. L'invettiva anticuriale e il richiamo alla purezza e povertà della chiesa primitiva assumono qui i toni comuni al rigorismo giansenistico.
Una copia dell'opera, perché giungesse nelle mani del granduca Pietro Leopoldo, fu spedita dal C. al vescovo di Pistoia S. de' Ricci, di cui era amico e corrispondente, e di cui condivideva molte idee, segnatamente la severa riprovazione della politica temporale dei papi espressa dal vescovo giansenista nella sua lettera pastorale del 5 sett. 1787. Certo il C., come buona parte del clero più colto napoletano, mostrò tendenze molto vicine al giansenismo, anche se dai suoi scritti non risulta alcun elemento che comprovi un'adesione alla originaria dottrina di Giansenio, nei suoi termini più strettamente teologici. Dei giansenisti italiani di fine Settecento condivideva l'ansia di riforma della Chiesa, lo spirito di contestazione verso l'autorità assoluta pontificia, il desiderio di un ritorno della Chiesa alla purezza delle origini. Nel 1788 aveva anche apertamente manifestato la sua ostilità alla devozione del Cuore di Gesù, molto diffusa Napoli, e avversata con tenacia dai giansenisti, che ne giudicavano indecorosa e riprovevole la pratica.
Tuttavia, benché avesse in comune coi giansenisti molte aspirazioni e programmi, il C. fu primariamente impegnato nella battaglia per la difesa delle prerogative regie contro le pretese di Roma; ed anche le questioni non schiettamente politico-religiose divennero per lui occasione alla lotta anticuriale. Così nel 1790, stimolato dal ritrovamento nel R. Archivio di alcuni documenti che riguardavano le vicende di un'antica miniera napoletana di allume, espresse in un suo scritto polemico una dura condanna del monopolio che Roma era riuscita ad instaurare sul commercio di quel minerale, facendo chiudere, in spregio ad ogni diritto del sovrano, la miniera di Agnano di Napoli. La storia della chiusura dell'industria napoletana gli apparve come un ulteriore anello della lunga catena di soprusi che la Curia romana aveva perpetrato nel Regno, la riprova degli scandalosi interessi economici e politici che si celavano dietro il preteso primato spirituale di Roma.
L'intensa attività svolta in difesa dei diritti sovrani valse al C., nel 1791, come ricompensa, la badia di S. Maria delle Grotte di Modugno. Ma già nel 1792 egli, abbandonando la vita degli studi e delle ricerche d'archivio, volle tradurre in un più diretto impegno politico gli ideali che era andato maturando: sempre più deluso infatti del tiepido riformismo borbonico, di cui sentiva il fallimento nello scontro con gli interessi delle classi dominanti e con la marea montante dei principî rivoluzionari, si discostò dalla linea regalista fino ad allora sostenuta nei suoi scritti, per sposare, come tanti altri patrioti napoletani, gli ideali della Rivoluzione francese.
Già da tempo faceva parte, con tutta la famiglia, della Società dei Liberi Muratori; ora volle essere tra i primi e più audaci affiliati alla "conversazione" in casa di D. Bisceglia, ove insieme con il Salfi, con il Giordano e con altri si preparò culturalmente alle idee rivoluzionarie, discorrendo di politica e religione, leggendo la pubblicistica francese, declamando in mezzo agli amici brani della Congiura dei Pazzi e del Bruto di Vittorio Alfieri. In questo primo nucleo dei futuri clubs giacobini, il C. riportava le notizie del Moniteur, letto segretamente in casa di E. de Fonseca Pimentel, e si esaltava all'idea di una trasformazione dell'Europa in repubblica universale, auspicando un governo in mano agli "uomini di lettere" come era avvenuto in Francia con i girondini. Insieme con il Salfi propagandava sul molo e nei teatri le sue idee antimonarchiche e antivaticane, nell'intento di suscitare un moto popolare e di "buggiarare" insieme il papa, Ferdinando IV, dipinto nelle sue orazioni come un imbecille, e Maria Carolina, ritenuta la causa prima della rovina economica del Regno.
Nel '92, all'arrivo della flotta del contrammiraglio francese Latouche-Tréville nel golfo di Napoli, per ottenere il riconoscimento della Repubblica francese, e del suo rappresentante, l'ambasciatore Mackau, il C. offrì un banchetto in onore dei francesi, durante il quale si lessero brani del Machiavelli e molti dei convitati indossarono entusiasticamente il cappello frigio; dopo pochi giorni, in occasione del genetliaco di Ferdinando IV, il Latouche restituì la cena a bordo della "Languedoc" e il C. fu l'oratore ufficiale della serata, beneagurando alle fortune francesi.
Pochi giorni dopo partecipò al convegno "in Margellinae ora" organizzato da C. Lauberg per definire il programma politico della Società patriottica.
Il sovrano ebbe così la conferma della adesione del C. alle idee rivoluzionarie; nei primi mesi del '93 lo fece quindi imprigionare in Castel Sant'Elmo, e, dopo lo svolgimento del processo, lo relegò nel convento dei Giurani a Caposele, al confine tra i principati di Salerno ed Avellino. Qui il C. rimase per tutto il '93, benché la madre e i fratelli premessero sull'Acton per ottenerne il trasferimento a Napoli; il suo comportamento nel convento, ove era tenuto sotto stretta sorveglianza e con divieto di trattare con chicchessia, meritò l'encomio del superiore per l'assiduità alle pratiche di pietà e per l'obbedienza dimostrata. In effetti il C. dedicò buona parte del suo tempo alla compilazione di uno scritto riguardante il culto delle immagini sacre, culto che egli definì "commendevole" ma non necessario al conseguimento della salvezza eterna.
Contemporaneamente lavorava al suo commento della Istoria civile del Regno di Napoli di P. Giannone, il cui primo volume, in sei libri, era già stato pubblicato nel '92, e il secondo, che si arrestò all'XI libro, vide la stampa nel '93.
Era questa la quarta edizione dell'opera giannoniana, realizzata in elegante veste editoriale e dedicata a Ferdinando IV. Il C. nell'introduzione dichiara di voler convincere gli "animi deboli" a liberarsi da ogni prevenzione nei confronti dell'Istoria, ove brilla "il pieno chiarore del divino lume della ragione";colle sue note egli si propone di curare "le intralasciate annotazioni" dell'abate Panzini, che aveva iniziato e poi presto abbandonato il commento dell'opera giannoniana, "supplire ove il Giannone abbia diversamente circostanziato i fatti, correggere i difetti cronologici, illustrare i principali punti del pubblico diritto e della grande economia del Regno". Le note del C., lunghe e frequenti, meritarono un giudizio molto positivo e l'ambiente intellettuale napoletano mostrò di apprezzare il suo lavoro, sollecitandolo in vari modi.
Tuttavia il C. interruppe il suo commento al II volume, probabilmente per il fatto che, nonostante fosse rimasto forzatamente estraneo alle vicende della congiura giacobina del '94 perché relegato a Caposele, fu coinvolto nei processi della prima e seconda giunta di Stato (1795), che, rimettendo in causa le sue precedenti compromissioni politiche lo condannò all'esilio.
Il C. si rifugiò, insieme con M. Pagano, V. Russo, G. Abbamonti, a Milano ove rimase, secondo alcuni, fino al '98. Tuttavia poiché nel '96 si stampava a Napoli un suo scritto, un'analisi storico-topografica delle isole napoletane, appare probabile, come sostengono altri, che egli fosse ritornato nel Regno. E poiché la Nota dei rei di Stato escarcerati con real decreto del 25 luglio1798 porta il nome del C., se ne può dedurre che il re l'avesse ancora una volta relegato a Caposele.
Il 4 febbraio del '99 entrarono in Napoli le armate dello Championnet e il C. riapparve sulla scena politica salutato sul Monitore dalla Fonseca Pimentel; nello stesso mese fu nominato commissario del cantone Masaniello (Mercato), e rappresentante della Nazione; nel marzo ebbe la nomina di presidente del Comitato dell'amministrazione interna.
Nella prima sessione del governo provvisorio, il 18 febbraio, assunse un atteggiamento di estremo radicalismo, contro le proposte moderate del Pagano, sulla questione della feudalità, proponendo l'abolizione del "vergognoso" giogo feudale ed escludendo qualsiasi indennizzo ai colpiti dal provvedimento: "Essi [i baroni] ci assordano ricordandoci il sacro nome di una proprietà inviolabile. Chiamerete proprietà legittima quella la quale altra origine non conosce salvo la forza, la violenza, la conquista, la frode, l'usurpazione, l'editto di un tiranno?... Le immense masse di proprietà non sono mai derivate dalla natura, ma dalla rapacità, dall'ingordigia, dall'orgoglio e dalla sete di dominare" (Fonseca Pimentel, p. 86). Come ministro dell'Interno elogiò il Catechismo repubblicano composto da O. Totaianni, ed ordinò la soppressione di parecchi monasteri napoletani, soppressione poi in parte sospesa, come insinua il De Nicola, dietro compenso di 100 ducati intascati dal Cestari.
Insieme con il Pagano e il Logoteta redasse un progetto di costituzione della Repubblica, che, mai attuato, venne stampato solo nel 1861.
Quando ai primi di aprile il governo provvisorio dello Championnet fu disciolto dal commissario Abrial, il C. chiese di deporre il suo ufficio; il gesto fu aspramente criticato dalla Fonseca Pimentel come atto di sfiducia nella Repubblica, ma egli si difese con veemenza ribadendo, la sua dedizione agli ideali repubblicani. Infatti, pur non entrando a far parte della nuova Commissione legislativa né di quella esecutiva, da cui rimase escluso non tanto per sua volontà ma perché giudicato "un buon uomo ma un pessimo governante", non abbandonò la vita politica. Nel maggio dello stesso anno firmò un proclama in cui si invitava il governo ad ordinare una requisizione militare di tutti gli argenti delle chiese e un'oblazione volontaria dei privati di denaro contante, oro e oggetti preziosi, per risollevare le sorti finanziarie, della Repubblica.
Il 3 giugno si insediò una nuova commissione per allestire l'estrema difesa contro le bande dei sanfedisti guidate su Napoli dal cardinale Ruffo, e il C., insieme con G. Poerio, obbligò i parroci e i capitani di ottina a recarsi in ogni casa per la coscrizione degli uomini atti alle armi. Dopo pochi giorni i sanfedisti, giunti alle porte della città, sferrarono il loro attacco sul ponte della Maddalena: fra i numerosi morti di quella tragica giornata, il 13 giugno 1799, probabilmente fu anche il Cestari.
Poiché la sua morte non fu a sufficienza provata, la giunta di Stato, il 15 gennaio 1800, nell'incertezza, lo considerò "reo assente" e gli comminò sentenza di bando perpetuo. Di lui non si parlò più né tra gli emigrati né durante gli avvenimenti posteriori. All'esilio furono condannati anche il fratello Andrea, che era stato durante la Repubblica membro aggiunto del Tribunale civile e municipalista del cantone di Montelibero (Montecalvario), e il fratello Nicola che aveva innalzato l'albero della libertà a Montesano.
Delle opere non citate si ricordano: Rassegna letteraria (Livorno 1780); Raccolta di lettere scientifiche ed erudite dell'ab. xxx a diversisuoi amici (Napoli 1780), che, oltre ad argomenti letterari e linguistici, contiene note sulla filosofia del Locke e una relazione sull'eruzione vesuviana del '79; Descrizione della topografia ed antichi edifici della città di Napoli (ibid. 1782), erroneamente attribuita al fratello Gennaro; Lettera a mons. Borgia nella quale gli si propongono alcuni dubbi su alcuni punti della sua breve istoria e Lunga risposta di 14 pagine alla Breve Storia di 558 pagine scritta da Mons. Borgia contro L'ab. C. (ibid. 1788), pubblicate con lo pseudonimo di Giuseppe Struggini; Anecdoti istorici sulle alumiere delli monti Leucogei (ibid. 1790; Dilucidazione teologica sopra l'uso delle Sagre Immagini (ibid. 1794); Descrizione storico-topografica-fisica delle isole del Regno di Napoli (ibid. 1796). Si ha notizia di una sola opera del C. non pubblicata per mancanza di mezzi: Storia delle Zecche del Regno sotto Carlo I d'Angiò.
Fonti e Bibl.: Alcune lettere del C., conservate nell'Arch. di Stato di Firenze, Carte Ricci, sono state pubbl. da D. Ambrasi, Note di carteggio tra G. C., S. de' Ricci e G. Gianni, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XIX (1965) pp. 477-497; E. de Fonseca Pimentel, Il Monitore repubblicano del 1799, a cura di B. Croce, Bari 1943, pp. 20, 83-87, 102 s., 153, 250 s.; V. Cuoco, Saggio stor. sulla rivol. napol. del '99, a c. di N. Cortese, Firenze 1926, pp. 161, 337 e passim; C. De Nicola, Diario napoletano, Napoli 1906, I, pp. 78, 81, 83 e passim; M. D'Ayala, Vita degliitaliani benem. della libertà e della patria morticombattendo, Firenze 1868, pp. 146-49; A. Sansone, Gli avvenimenti del 1799 nelleDue Sicilie, Palermo 1901, p. 360; A. Simioni, La congiura giacobina del 1794 a Napoli, in Arch. stor. delle prov. napol., XXXIX (1914), pp. 319 s.; Id., Le origini del Risorg. politico nell'Italia meridionale, Messina 1925, I, pp. 237-38, 527, 530 s.; B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, Bari 1926, p. 324; Id., La vita religiosa a Napoli nel Settecento, in Uomini e cose della vecchia Italia, Bari 1927, pp. 140 s., 149, 152-54;A. C. Jemolo, Il giansenismo in Italia prima della Rivoluzione, Bari 1928, p. 390;N. Nicolini, L'attività polit. dell'ab. C. nel 1792 e nel 1793, in Scritti storici, Napoli 1931, pp. 79-87;B. Croce, Le allumiere di Agnano nei secc. XV e XVI e la S. Sede, in Varietà di storia letteraria e civile, Bari 1935, pp. 35-41;N. Nicolini, Le origini del giacobinismo napoletano, in Riv. stor. ital., XVII (1939), pp. 3-41 passim; G. Natali, Il Settecento, Milano 1944, pp. 300, 405, 455;L. Marini, P. Giannone e il giannonismo a Napoli..., Bari 1950, pp. 114, 176;D. Ambrasi, Per una storia del giansen. napol., G. e Gennaro Cestari, Napoli 1954; Id., G. e Gennaro Cestari nella Rivol. del 1799, in Il Fuidoro, V (1958), pp. 23-26; G. De Crescenzo, Dizionario salernitano di storia e cultura, Salerno 1960, p. 102;P. Villani, Contributo alla storia dell'anticurialismo napoletano;l'opera di G. F. Conforti, in Mezzogiorno tra riforma e rivoluzione, Bari 1962 pp. 192, 226, 254;G. Galasso, La legge feudale napoletana del '99, in Riv. stor. ital., LXXVI (1964), pp. 519 s.;D. Ambrasi, Riformatori e ribelli a Napoli nella seconda metà del Settecento. Ricerche sul giansenismo napoletano, Napoli 1979, pp. 171, 231, 258-89; Diz. del Risorg. naz., II, pp. 663 s.; Encicl. catt., III, coll. 1362 s.