Giuseppe Chiovenda
La vicenda intellettuale di Chiovenda ha offerto solide fondazioni metodologiche alla scienza processual-civilistica italiana; soprattutto a lui si deve il passaggio dallo studio della procedura civile alla scienza del diritto processuale civile. Il suo magistero sembra dovere la propria fortuna a una declinazione programmatica del sapere giuridico; infatti il suo itinerario scientifico si qualifica per la saldatura del problema del metodo con un disegno riformistico per la giustizia civile dell’Italia tardo liberale.
Giuseppe Chiovenda nasce a Premosello (Novara) il 2 febbraio 1872, da Pietro e Leopolda Moglino. Dopo la laurea conseguita nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma il 5 luglio del 1893 con una tesi sul processo civile romano, esercita la professione di avvocato. È libero docente nella facoltà romana nell’anno accademico 1900-01; ottenuto un incarico a Modena nel maggio 1900, diviene professore straordinario di procedura civile e ordinamento giudiziario nell’Università di Parma per l’anno accademico 1901-02. Verrà però chiamato nella facoltà giuridica di Bologna già il 9 dicembre 1902.
Sono questi gli anni della fondazione dell’indirizzo scientifico che con continuità svolgerà per tutta la sua vita. Assumendo l’impostazione pandettistica di Vittorio Scialoja, studia la dottrina giuridica tedesca e svolge un innovativo ripensamento dell’ordinamento processuale. I primi rilevanti risultati sono costituiti dalla monografia La condanna nelle spese giudiziali (1901) e dalle prolusioni Le forme nella difesa giudiziale del diritto (Roma 1901), Romanesimo e germanesimo nel processo civile (Parma 1902), L’azione nel sistema dei diritti (Bologna 1903).
Nell’anno accademico 1905-06 si trasferisce nella facoltà giuridica di Napoli per la cattedra di cui era stato titolare, prima di passare in magistratura, Lodovico Mortara (suo grande antagonista nel campo scientifico). Nel dicembre del 1906 Chiovenda verrà poi chiamato per chiara fama alla cattedra di Roma (Tarello 1981 e 1989; Cipriani 1991 e 2006). Ormai divenuto punto di riferimento nel campo della procedura civile, pubblica nel 1906 il volume Principii di diritto processuale civile; vedono la luce anche numerosi saggi, poi raccolti nei due volumi Saggi di diritto processuale civile 1900-1930. Alla nuova disciplina processual civilistica, di cui è stato da subito riconosciuto il fondatore (Carnelutti 1939; Calamandrei 1985b; Satta 1968), ha fornito anche un luogo identitario con la «Rivista di diritto processuale civile», fondata insieme a Francesco Carnelutti nel 1924 (Denti, Taruffo 1987; Cipriani 2006).
Al di fuori del contesto accademico vanno ricordati l’impegno nella Commissione reale per il dopoguerra (1918), nella quale come presidente del gruppo di lavoro per la procedura civile ha messo a punto un Progetto di codice di procedura civile (Taruffo 1980). Il 3 giugno 1924 inoltre sarebbe stato nominato vicepresidente della Commissione reale per la riforma dei codici nella Sottocommissione C relativa al codice di procedura civile. Tale Commissione, presieduta da Mortara, non lasciò molto spazio alle sue proposte; come è noto i lavori finirono per approdare a un progetto elaborato da Carnelutti (Taruffo 1980; Tarello 1981 e 1989; Cipriani 1991). Sul piano politico, di Chiovenda va poi ricordata la presa di distanza dal regime fascista con l’adesione al manifesto degli intellettuali antifascisti proposto da Benedetto Croce nel maggio 1925 (Calamandrei 1985b; Cipriani 1991). La sua operosità sul piano scientifico proseguì coerentemente, secondo la linea tracciata negli anni precedenti (Grossi 2000), fino alla morte che l’avrebbe colpito a Premosello il 7 novembre 1937.
Alla base dell’opera di Chiovenda ci sono due radicate convinzioni: la prima riguarda la necessità di un ripensamento radicale della legislazione processuale vigente; la seconda, il ruolo della scienza giuridica. Si tratta di due dimensioni che, nella realtà giuridica di quel tempo fondata sul principio di legalità, sono strettamente interdipendenti. Si tratta però anche di un campo di tensione in cerca di un nuovo equilibrio (Grossi 2000; Meccarelli 2011).
Il Codice di procedura civile in vigore, frutto di «un lavoro paziente ed ammirevole», gli appare però «un prodotto artificioso» (Le riforme processuali e le correnti del pensiero moderno [1907], in Id., Saggi di diritto processuale civile, 1° vol., 1993, p. 380) che risente troppo della «legge francese» (pp. 381-82) e risulta per molti aspetti inadeguato. L’entità del problema interessa dunque la legislazione processuale nel suo complesso.
In una prima fase i suoi scritti si concentrano in una rilettura della legislazione esistente per «immettervi surrettiziamente il proprio modello di organizzazione processuale» (Tarello 1989, p. 172). L’intento è elaborare, a partire dal concetto di azione, un sistema reale in grado di perfezionare il diritto positivo (Taruffo 1986).
In una seconda fase, che grosso modo prende avvio con la pubblicazione dei Principii, la riflessione di Chiovenda sul dover essere dell’ordinamento processuale è invece più orientata de lege ferenda (Tarello 1989). Qui egli, soprattutto impiegando l’innovativo principio dell'oralità, svolge la sua proposta di un sistema ideale (Taruffo 1986) da realizzare. Si tratta di favorire un vero e proprio «radicale riordinamento del nostro organismo giudiziario» (La riforma del procedimento civile [1911], in Id., Saggi di diritto processuale civile, cit., 1° vol., p. 326), prendendo a modello la Zivilprozessordnung austriaca del 1898 (Tarello 1989; Taruffo 1980).
Tale opzione strategica derivava dalla persuasione che ogni intervento parziale, per quanto strutturale, fosse destinato a risultare inefficace; anche per questo egli esprimeva valutazioni molto critiche sulle principali riforme chiave adottate, come quella del processo sommario del 1901 e quella del giudice unico del 1912-13.
Per un nuovo ordinamento processuale occorreva però una nuova scienza giuridica. Essa era chiamata a svolgere un «lavoro preparatorio» della fase di legiferazione, consistente nello «studio razionale delle forme» processuali (Le forme nella difesa giudiziale del diritto [1901], in Id., Saggi di diritto processuale civile, cit., 1° vol., p. 357). Per questo essa doveva dotarsi di un metodo idoneo.
L’approccio esegetico attento alla ricostruzione della volontà del legislatore era già in crisi. Nel campo degli studi processualistici aveva iniziato a segnalarsi Lodovico Mortara con il suo originale ‘metodo critico’, orientato alla valorizzazione del fattore giurisprudenziale come momento dinamico del diritto.
Chiovenda, dal versante degli studi pandettistici, avrebbe messo a punto una proposta metodologica diversa, solida e di forte impatto costruttivo, fondata su un recupero del ‘puro’ diritto romano processuale, pur nel mantenimento di un orizzonte legalistico.
La definizione del ruolo della scienza veniva messo a fuoco guardando i recenti svolgimenti sul terreno della procedura civile della giurisprudenza dei concetti tedesca (Tarello 1989; Cipriani 2006). È del resto una tendenza che negli stessi anni si diffonde in altri campi (Grossi 2000); «un bagno di germanesimo per cui sono passate la più parte delle altre discipline giuridiche», osservava Chiovenda nel saggio Del sistema degli studi del processo civile (1908; ora in Saggi di diritto processuale civile, cit., 1° vol., p. 229).
La grande opportunità offerta dal metodo pandettistico consisteva nella possibile determinazione di un terreno specifico e per molti aspetti ‘chiuso’, su cui svolgere la riflessione giuridica. Nel caso della procedura civile ciò significava fornire a un settore metodologicamente incerto coordinate e obiettivi sicuri (Liebman 1974), elevando quel sapere giuridico al rango di scienza giuridica.
In particolare occorreva, spiega Chiovenda nel 1923, «effettuare una revisione storico-dogmatica delle dottrine processuali e la costruzione di un sistema» (Principii di diritto processuale, 1906, 19233, p. VIII). Qui non appariva rilevante tanto stabilire ragioni e modi della nascita di un istituto. Più semplicemente, partendo dal presupposto che il diritto moderno corrispondeva al diritto romano trasformato in dogmi, il problema era stabilire se le origini di un istituto fossero «romane o no» (Cipriani 2006, p. 231; Denti, Taruffo 1987). Si trattava di argomentare dogmaticamente a partire da «principi generali astrattamente elaborati e sovraimposti al dettato legislativo» (Tarello 1989, p. 147).
Accanto a quello dogmatico vanno evidenziati altri due profili nel metodo chiovendiano. Uno è quello che potremmo definire sistematico, in quanto lo svolgimento dello studio storico-dogmatico è funzionale a una descrizione dell’ordinamento processuale come sistema (Calamandrei 1985a; Grossi 2000). L’idea qui è svolta sia nel senso di individuare concetti dal diritto positivo – in modo da fornirne una esposizione ordinata e risolverne le lacune – sia nel senso di prendere in considerazione la «struttura profonda» della legge (Taruffo 1986, p. 1137). Da questo secondo versante l'individuazione delle categorie di incardinamento del sistema è soprattutto opera di vera e propria creazione concettuale, ricavata dallo studio storico-dogmatico, cioè da una piattaforma interamente dottrinale, piuttosto che dal diritto positivo (Taruffo 1986; Tarello 1989).
Accanto al profilo dogmatico e sistematico vi è poi anche quello teorico generale (Carnelutti 1939; Calamandrei 1985a); sotto tale aspetto il metodo permette di individuare, sempre secondo una dinamica logico-formalistica, principi di premessa teorica per lo svolgimento della costruzione sistematica. Dalle altezze della teoria generale diviene possibile anche acquisire un punto di osservazione unitario sul fenomeno processuale civile e penale insieme (Carnelutti 1939; Tarello 1989).
Tale opzione metodologica, costante in Chiovenda, ha costituito anche un punto di riferimento per i nuovi processual-civilisti, suoi allievi diretti e indiretti, che hanno svolto il proprio itinerario teorico impiegando un comune «alfabeto scientifico» (Calamandrei 1985a, p. 52), seppure interpretando in modi diversi quella impostazione e in certi casi anche discostandosi dal sistema chiovendiano.
Ciò è dovuto anche al fatto che Chiovenda ha fornito alla propria disciplina efficaci strumenti di formazione e di orientamento, attraverso opere di carattere generale (Carnelutti 1939) come i Principii, «un breviario scientifico d’ogni serio studioso di diritto processuale» (Calamandrei 1985a, p. 41), o i due volumi di Istituzioni di diritto processuale civile, che costituiscono il ripensamento definitivo del suo sistema.
Importante è poi ricordare la «Rivista di diritto processuale civile», strumento che pure evidenzia nella lezione chiovendiana il valore di una «operazione di egemonia culturale» (Denti, Taruffo 1987, p. 632). Si tratta di un foglio che costituisce uno spazio di confronto per la disciplina con lo scopo di favorire una sistemazione scientifica del diritto processuale, e in tal modo di fungere da punto di riferimento per la teoria e la pratica. Il metodo sistematico con la rivista rivela il suo potenziale panprocessualistico, capace di giustificare l’attrazione nella scienza del processo civile di materie (per es., l’azione, la prova, il fallimento, la cosa giudicata) fino a quel momento oggetto della speculazione di altre discipline.
Chiediamoci ora quale ordine processuale si andava con ciò a configurare. A tal proposito possiamo osservare che Chiovenda è uno dei grandi protagonisti, forse il principale, della ridefinizione del processo in chiave pubblicistica (Taruffo 1980).
A fondamento di essa c’è la constatazione della «importanza politico-sociale del processo» (Le riforme processuali e le correnti del pensiero moderno [1907], in Saggi di diritto processuale civile, cit., 1° vol., p. 380), ma in effetti il recupero della funzione pubblicistica, qui, va più nel senso dello Stato che della società. Il processo è anzitutto ed essenzialmente un luogo di attuazione della legge – e in ciò esaurisce il suo compito politico-sociale – essendo l'amministrazione della giustizia una «funzione della sovranità» (p. 385; v. Satta 1968; Liebman 1974; Taruffo 1986; Grossi 2000).
Sul piano costruttivo lo strumento principale per la configurazione pubblicistica è il concetto di azione inteso come «l'autonomo potere giuridico di realizzare per mezzo degli organi giurisdizionali l'attuazione della legge in proprio favore» (Principii di diritto processuale civile, cit., p. IX). L’azione viene in tal mondo collocata «nel tradizionale sistema dei diritti» (Cipriani 2006 p. 254) e concepita come un diritto soggettivo autonomo dal diritto sostanziale (Taruffo 1980; Tarello 1989), che rientra nella categoria del «diritto potestativo». Una concettualizzazione simile era stata svolta da Adolf Wach, ma nel senso di immaginare l’azione come un diritto verso lo Stato. Per Chiovenda l’azione è invece «un diritto contro l’avversario» (L’azione nel sistema dei diritti [1903], in Saggi di diritto processuale civile, cit., 1° vol., p. 14), anche se nel quadro di una concezione pubblicistica del processo (Capograssi 1959; Liebman 1974; Tarello 1989; Grossi 2000; Cipriani 2006).
Questa costruzione permette di individuare l’altro concetto chiave, quello di rapporto giuridico processuale (Satta 1968; Taruffo 1986), inteso come «fondamentale rapporto», in relazione al quale i singoli atti processuali acquisiscono «importanza giuridica» (Principii di diritto processuale civile, cit., p. 90), teso all’accertamento della volontà concreta della legge, che coinvolge paritariamente le parti e il giudice. Esso implica un ripensamento del rapporto tra i poteri del giudice e la volontà delle parti (Tarello 1989), che interessa direttamente il principio dispositivo, cioè il principio posto a fondamento del procedimento civile dal codice in vigore, determinandone il superamento.
De iure condendo Chiovenda individua anche dei principi ordinatori del processo su cui basare la riforma, «per rendere una giustizia intrinsecamente migliore» (La riforma del procedimento civile [1911], in Saggi di diritto processuale civile, cit., 1° vol., p. 315). Il principio chiave è rappresentato dalla oralità; è intesa come «rapporto immediato tra giudici e le persone, le cui dichiarazioni sono chiamati ad apprezzare; significa razionale contemperamento dello scritto e della parola come mezzi diversi di manifestazione del pensiero» (Riforma del processo civile [1911], in Saggi di diritto processuale civile, 3° vol., 1993, p. 296). Ci sono poi altri principi connessi come quello della identità del giudice per tutto il procedimento e quello della concentrazione delle diverse fasi processuali.
Rinunciando alle precisazioni tecniche possiamo dire che la nuova procedura tende a estendere i poteri del giudice nella gestione della causa (Liebman 1974; Taruffo 1980). La centralità della funzione del giudice è però concepita in una prospettiva legalistica e non rinvia a un compito equitativo, o comunque di adeguamento del diritto ai bisogni della società e del tempo (Taruffo 1986; Tarello 1989) . Non a caso Chiovenda svolge una lettura critica delle dottrine giusliberiste – che vede come un «irrequieto e indeterminato movimento» – tanto nelle versioni più radicali (per es., Eugen Ehrlich) che svolgono l’idea della giurisprudenza come Rechtsfindung, quanto in quelle più moderate, come quelle di Oskar Bülow, per una giurisprudenza evolutiva. Si ribadisce invece «che il processo è attuazione del diritto preesistente» e che l’attività del giudice è un'attività di attuazione della legge con la quale semmai si consacrano «le creazioni preparate dalla dottrina» (Del sistema degli studi del processo civile [1908], in Saggi di diritto processuale civile, cit., 1° vol., pp. 231, 230, 232). Non viene attribuito con ciò un potenziale nomopoietico al diritto giurisprudenziale, ma si resta in un orizzonte nomofilattico nel quale «la sentenza è la volontà di legge accertata nel caso singolo» (L’azione nel sistema dei diritti [1903], in Saggi di diritto processuale civile, cit., 1° vol., p. 17). La legge qui è «l’ordine immanente di una realtà che si tratta di accertare nel processo» (Satta 1968, p. 448; Capograssi 1959).
Seppure la caratterizzazione statalistica del processo sia evidente, sembra eccessivo dedurre che alla base della riflessione chiovendiana vi sia un disegno di superamento dell’ordine giuridico liberale per l’instaurazione di una «organizzazione statale autoritaria» (Tarello 1989 p. 212). Piuttosto sembra trattarsi di una declinazione dell'ideologia liberale svolta al crepuscolo dello Stato di diritto. La posizione di Chiovenda risulta «storicamente giustificata» in rapporto alla crisi della giustizia civile nella crisi di quel mondo giuridico (ma anche sociale e politico; cfr. Taruffo 1980, p. 191). Infatti la costruzione pubblicistica del processo, che rinvia all’azione dello Stato «non solo come giudice ma come potere» (Le riforme processuali e le correnti del pensiero moderno, cit., p. 385), si giustifica con una esigenza di sostegno di principi fondatori dell’ordine liberale come l’uguaglianza, la libertà individuale, la legalità.
È probabilmente tale premessa assiologica (prima che ideologica) che ha poi reso possibili riletture del suo sistema (Calamandrei 1985b; Ricci 1990) anche nel mutato scenario costituzionale e democratico del secondo Novecento.
La condanna nelle spese giudiziali, Torino 1901.
Saggi di diritto processuale civile, Bologna 1904.
Principii di diritto processuale, Napoli 1906, 19233.
Nuovi saggi di diritto processuale civile, Napoli 1912.
Saggi di diritto processuale civile (1900-1930), 2 voll., Roma, 1930-1931.
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P. Calamandrei, Gli Studi del diritto processuale in Italia nell'ultimo trentennio [1941], in Id, Studi sul processo civile, Padova 1947, pp. 113-28.
G. Capograssi, Intorno al processo (Ricordando Giuseppe Chiovenda) [1938], in Id., Opere, 4° vol., Milano 1959, pp. 131-69.
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E. Ricci, Calamandrei e la dottrina processualcivilistica del suo tempo, in Piero Calamandrei. Ventidue saggi su un grande maestro, a cura di P. Barile, Milano 1990, pp. 77-100.
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