DE FABRIS, Giuseppe
Figlio di Gioacchino, bassanese, e di Domenica Moretti, trevigiana, nacque alle Nove (Vicenza) il 19 ag. 1790. Il padre, che era allora direttore della fabbrica di terraglie e porcellane Antonibon, ravvisò presto nel figlio, che fin da fanciullo si dedicava spesso a modellare in creta, la buona inclinazione all'arte.
L'ambiente delle fabbriche ceramiste novesi fu la prima scuola di plastica per il giovinetto. Quando, nel 1806, la famiglia, per ragioni di lavoro, si trasferì a Vicenza, fu messo a scuola di disegno presso Giacomo Ciesa.
Nel 1808 la famiglia si trasferì a Milano, dove Gioacchino svolgeva un'attivita commerciale. Il D. venne allora affidato allo scultore Gaetano Monti, che lavorava in proprio, fuori dell'ambito dell'accademia di Brera. L'esperienza presso il Monti fu fondamentale per la formazione del giovane, che trovò nella scultura il mezzo espressivo più rispondente alle sue aspirazioni e in quest'arte fece rapidamente grandi progressi.
Per poter approfondire gli amati studi ed esercitarsi a lavorare il marmo, egli decise di rimanere a Milano quando il padre, dopo un breve periodo, volle ritornare in patria. Il D. dovette lavorare per vivere. L'apprendistato presso il Monti non durò a lungo: infatti, partita da poco la sua famiglia, lasciò il maestro - avendo questi cercato di fargli eseguire sculture che poi firmava coi suo nome - e poté frequentare l'accademia di Brera, con l'appoggio del conte Giacomo Mellerio.
A Brera si mise subito in luce ottenendo lusinghieri successi: un suo Coriolano (di cui si ignora l'attuale ubicazione) fu premiato dal governatore di Milano.
La prima commissione vera e propria venne dalla Fabbrica dei duomo: la statua in marmo dì S. Napoleone (1811) da porre sulla seconda guglia nel fianco destro del tempio. Subito dopo l'artista esegui i busti in cera della viceregina d'Italia Augusta Amalia di Baviera, delle di lei figlie, dei cappellano generale militare Castillon. Nei grandi concorsi di Brera del 1813 vinse il primo premio di scultura con il gruppo Sansone ed il leone (terracotta, ora nella Galleria civica d'arte moderna di Milano; cfr. catal. di L. Caramel-C. Pirovano, Milano 1975, p. 315, tav. 838) e quello per il nudo in plastica (Accademia reale di belle arti, Estratto dei giudizi delle commissioni,.. pei... concorsi dell'anno 1813, Milano, 11 ag. 1813, pp. 1 s.); dello stesso anno è un Cristo morto per il conte Giacomo Mellerio il suo "amorevole protettore" (come il D. lo chiamava nel suo testamento, pubblicato a Bassano nel 1876), dal quale ricevette appoggio quando nel 1814, con una pensione dell'accademia, egli decise di trasferirsi a Roma.
Prima di partire, in quello stesso 1814 si era sposato con la milanese Camilla Piantanida, che morì il 21 luglio 1846 (Bassano, Museo civico, lettera del D. a jacopo Ferrazzi dell'11 sett. 1847). A Roma egli arrivava già con un certo nome e con buone referenze, grazie ai successi milanesi. e non dovette essere difficile per lui farsi strada in un ambiente dove trionfava da più di vent'anni Antonio Canova, cosi generoso di protezioni e di aiuti verso i conterranei, e dove fioriva una vera e propria "colonia" bassanese di artisti, desiderosi di perfezionarsi, fin dai tempi dell'incisore Giovanni Volpato. Nella città che fu culla dei neoclassicismo, il D. trovò la sua nuova patria e in essa mieté successì, fino alla morte.
Artista ormai formato, non si aggregò alla scuola del Canova anche se nelle sue opere dimostra di esserne influenzato pur nel diverso configurarsi dello stile e delle possibilità creative.Tra i primi lavori romani è un Nettuno premiato nel 1815 nel concorso dell'"Anonimo" fondato dal Canova. Nel 1817 gli fu commissionato il busto di Gian Giorgio Trissino per la serie dei busti di personaggi illustri destinata al Pantheon secondo il programma canoviano e poi (1820) passati in Campidoglio a formare la Protomoteca. Altri busti della serie eseguiti più tardi dal D. sono quello di Antonio Canova (1823), ordinato da Leone XII alla morte dei maestro, e quello del filologo veronese padre Antonio Cesari (1831; cfr. Hubert, 1964, pp. 177, 417). Nella Protomoteca capitolina si trova anche il monumento al Canova (1828) commissionato al D. sempre da Leone XII.
La produzione fino al 1820 rivela maggiormente la ispirazione canoviana: del 1818 è il grande vaso di marmo con il bassorilievo raffigurante Le nozze di Alessandro e Rossane (dall'affresco del Sodoma alla Farnesina), che fu tra.i doni dell'Accademia di Venezia all'imperatore Francesco I in occasione del suo matrimonio con Maria Carolina di Baviera; del 1820 alcuni gruppi mitologici tra cui un Amore e Psiche per il principe Esterhazy. Il 27 ag. 1820 diventava membro di merito dell'Accademia di S. Luca, di cui fu eletto presidente nel 1846.
Manifestamente ispirato all'Ercole e Lica del Canova è il modello in gesso del Milone Crotoniate (1820).
Nonostante le grandi lodi espresse anche in versi per questo gruppo (vedi, ad esempio, Diario di Roma del 29 ag. 1821 e Rime di vari autori intorno al Milone Crotoniate..., Roma 1842), il D. non ebbe mai la commissione di tradurlo in marmo: nel testamento del 3 ag. 1854 (Testamento..., 1876) risuona tutta l'amarezza e, quasi, la frustrazione dell'artista. Si trattava di un colosso alto sette metri e Pio VIII, che avrebbe voluto il marmo in piazza del Popolo, fu scoraggiato dal timore di una spesa troppa alta.
Non avendo avuto alcuna offerta di prezzo, il D. nello stesso 1854 decise di donarlo allo zar, che lo fece trasportare a Pietroburgo: nel primo codicillo al testamento, del 1° giugno 1857, lo scultore si propone di andare in Russia "per assistere alla sua collocazione"; e di fatto vi si recò, come risulta da una lettera a I. Ferrazzi del 1° marzo 1858 (Museo civico di Bassano), nella quale scrive di essere ritornato a Roma "dopo un'assenza di sei mesi cinque de' quali in permanenza a Pietroburgo.", pienamente soddisfatto della sistemazione data all'opera "prediletta". Di essa non si conosce l'attuale ubicazione e nemmeno dei rame che il D. nel primo codicillo del testamento si proponeva di portare in dono allo zar; il bozzetto è custodito a palazzo della Cancelleria.
Echi canoviani si risentono nell'Addio di Ettore ad Andromaca (1823) eseguito per la villa del conte Mellerio al Gemetto in Brianza, dove ancora si trova (nella chiesetta è anche il monumento sepolcrale al Mellerio eseguito nel 1825).
Il gesso fu donato per testamento alla città di Bassano, nel cui Museo è ora esposto; da esso nel 1960, nel centenario della morte dell'artista, fu tratta una fusione in bronzo, posta nella piazza De Fabris alle Nove.
I molti lavori condotti al tempo del Milone ci dicono della notorietà del D. a Roma: si collocano tra il 1821 e il 1824 i monumenti sepolcrali di monsignor Ugolino Mannelli Galilei a S. Giovanni dei Fiorentini, del barnabita Card. Fontana a S. Carlo ai Catinari e della Contessa di Robilant a S. Andrea della Valle.
Anche in altre chiese romane sono ospitati mausolei scolpiti dal D. in varie epoche: quello del Card. Litta (1827) ai SS. Giovanni e Paolo, di Giuseppe Vitelli (1830 c.) a S. Rocco, di Mons. Vincenzo Niccolai (1833) a S. Lucia del Gonfalone, del Card. Zurla (1935) a S. Gregorio al Celio, di papa Leone XII (1836) in S. Pietro, commessogli da Gregorio XVI per gratitudine al predecessore che lo aveva nominato cardinale, di Mons. Traversi (1843; disegni nell'archivio dell'istituto d'arte alle Nove) a S. Maria Maggiore, commissionato da Gregorio XVI.
Fuori di Roma, tra le creazioni che gli procurarono maggior celebrità è il Genio nel monumento a Canova nella chiesa dei Frari a Venezia (1823-1827).
Nel 1829 il D. aveva iniziato il monumento a Torquato Tasso con offerte di ammiratori del poeta, ma poté tradurlo in marmo solo molto più tardi. Dal codicillo del 1857 si sa che questo era stato finalmente ultimato e collocato in S. Onofrio per intervento del papa Pio IX. L'opera è importante perché vi sono presenti, nelle diverse parti, oltre alla componente canoviana, anche quella purista e addirittura interessi veristi. Tocchi realistici si notano nella gigantesca statua di S. Pietro posta ai piedi della gradinata della basilica vaticana, appaiata al S. Paolo di Adamo Tadolini.
I due colossi furono li trasportati nel 1857 per ordine di Pio IX, dopo aver fatto mostra di sé, per una quindicina d'anni, alla basilica Ostiense, per la quale erano stati creati.Il suo studio fu più volte visitato anche dai papi: per esempio, da Pio VIII nel luglio 1829, che si compiacque della somiglianza del proprio busto (ora disperso; cfr. lettera dell'8 luglio 1829, del cardinale Albani al conte Lutzow, Nove, Archivio parrocchiale), ma soprattutto dal corregionale Gregorio XVI, il bellunese Mauro Cappellari, di cui il D. fu il ritrattista preferito (busti di lui si trovano a S. Gregorio al Celio, del 1840; al Museo Vaticano Etrusco; nel duomo di Belluno; una statua nel convento di S. Lazzaro degli Armeni a Venezia).
Per quanto riguarda poi le testimonianze ufficiali di stima, bastano gli innumerevoli diplomi (tutti conservati alle Nove, nell'Archivio parr. e in quello dell'istituto d'arte De Fabris) di nomina a socio onorario di numerose e importanti accademie: della già menzionata S. Luca (1820); di Milano (1822); di Venezia (1823) per il busto del Canova nella Protomoteca capitolina; dell'Arcadia (1823, assumendo il nome di Mirone Smirneo); de' Virtuosi al Pantheon (1823); di Bologna (1824); di Perugia (1824); di Firenze (1829); dell'Olimpica di Roma (1833); di Ravenna (1834); della Tiberina Toscana (1834); de la Societé des naufrages di Parigi (1835); di Vienna (1836); des Beaux-Arts di Parigi (1846); dell'Ateneo di Bassano (1847); dell'Istituto di corrispondenza archeologica di Roma (1850); della Valdarnese di Montevarchi (1852); della Pitiglianese (1852); di Parma (1853), di Russia (1854); dì Prussia (1859).
I ritratti che di luì possediamo, quello da giovane, dipinto da V. Carnuccini (Roma, Acc. di S. Luca), e quello inciso dal Balestra nel 1851 (due esemplari sono nell'Arch. parr. delle Nove), presentano l'immagine d'un uomo bello nella persona e compreso della sua dignità e del suo ruolo.
Importantissima e infaticabile fu la partecipazione del D. alla vita culturale di Roma: fu nominato nel 1831 reggente perpetuo dell'insigne Pontificia Congregazione de' Virtuosi al Pantheon, carica ch'era stata del Canova. Sotto la sua zelante reggenza, fu ritrovata (14 sett. 1833) la sepoltura di Raffaello, e il D. ne eseguì il Busto bronzeo che sta di fianco alla tomba.
Nel 1832 fu eletto coadiutore alla direzione dei Musei e Gallerie pontificie (di cui diventerà direttore generale nel 1837, succedendo ad Antonio d'Este, carica che conserverà fino alla morte, tolta la breve parentesi della Repubblica Romana del 1849): in questo ruolo curò la sistemazione del Museo Gregoriano Etrusco e l'allestimento delle sale delle opere d'imitazione nel Gregoriano Egizio, ricevendone dal papa una medaglia d'oro da usare come decorazione appesa al collo (Faccioli, 1978, p. 19).
Nel Diario di Roma del tempo si dà notizia dell'istituzione, da parte del D., di concorsi artistico-religiosi, bimestrali e biennali; della promozione di aiuti a vecchi artisti caduti in miseria; della richiesta ai Virtuosi di progetti annuali per abbellire Roma. Come consigliere (nominato nel 1832) della Commissione generale consultiva di antichità e belle arti, diresse nel 1840, su incarico dei papa, la liberazione totale della solenne doppia fronte di porta Maggiore dalle costruzioni cresciute su di essa attraverso il tempo. Come "deputato provvisore e fabbricere" sovrintese ai restauri di S. Maria dell'Anima (chiesa nazionale tedesca), opera che gli procurò l'Ordine della Corona di ferro (1850) da parte di Francesco Giuseppe. Precedentemente (circa 1844-45) aveva restaurato il grande stilobate della colonna Antonina nei Musei vaticani (alcuni disegni si trovano nell'archivio dell'istituto d'arte De Fabris delle Nove; cfr., del D., Il piedistallo della colonna…, Roma 1846). Fu soprattutto nella qualità di direttore generale dei Musei e Gallerie pontificie che il D. ebbe relazione con personafità della cultura, principi e sovrani, che si recavano in visita alle opere d'arte: nell'Archivio parrocchiale delle Nove si conservano molte lettere di ringraziamento per l'ospitalità ricevuta, e in esse sono anche indicati i doni consistenti in scatole, tabacchiere d'oro, anelli di brillanti.
Nel testamento del 1854, per altre due sue opere, oltre il Milone e il Tasso, il D. esprime le sue preoccupazioni: un Amore e Psiche (ora disperso), marmo eseguito verso il 1830, di proprietà del conte Gian Giorgio Trissino di Vicenza, che egli prega venga finalmente ritirato; e una Deposizione dalla Croce (d'ignota ubicazione), bassorilievo del 1845 (ordinato da Maria Cristina di Napoli, regina vedova di Sardegna, ed ereditato dal duca di Genova) per il quale, a dieci anni dall'esecuzione, era, scrive il D., "tuttora pendente la retribuzione delle mie fatiche". Quest'opera (un bel disegno è nell'istituto d'arte De Fabris delle Nove) fu lodatissima dai contemporanei come viene testimoniato da vari opuscoli (pubbl. tutti a Roma nel 1845) in versi e in prosa di G. D'Este, E. Visconti [in L'Album], E. Marini, A. Spinetti, M. C. Gazola (in Diario di Roma, 19 luglio).
L'ultima tra le più note creazioni del D. è la Tomba di Andrea Palladio nel cimitero monumentale di Vicenza, del 1845, realizzata col munifico lascito del conte Girolamo Egidio di Velo.
Intorno ad essa si accese una grande polemica, soprattutto fra il padovano Pietro Selvatico (in Giornale Euganeo di scienze lettere ed arti [Padova], II [1845], pp. 623-632), nutrito di umori romantici, e l'abate romano Giuseppe Defendi, che dalle pagine del Giornale arcadico (CVI [1846], pp. 351-84; CIX [1846], pp. 339-85) ribatteva esaltando i valori accademici e puristi del monumento. All'inaugurazione del mausoleo non poté presenziare lo scultore, che pure nell'autunno del 1844 era ritornato alle Nove dopo venticinque anni d'assenza, perché l'opera arrivò a Vicenza solo nel novembre 1844, quando il D. eira già dovuto ritornare a Roma.
Nel paese natio, dove fu accolto trionfalmente (Berti, 1845, annotazione d), era venuto anche per offrire due piccoli monumenti funebri nella nuova chiesa parrocchiale ai genitori e al parroco E. Contri (cfr. Ricci, 1844), opere che felicemente sintetizzano il gusto eclettico dell'artista.
Egli aveva tenuto saldi legami con Bassano, città natale del padre, dove la sua fama era chiaramente conosciuta (fu nominato nel 1847 membro dell'Ateneo bassanese di scienze, lettere ed arti): a lui si pensava quando si voleva ottenere qualche favore a Roma (cfr., ad esempio, due lettere del D. a J. Ferrazzi del 1853, Bassano, Museo civico) e per fare eseguire un busto di un personaggio famoso come quello di G. B. Brocchi (datato 1831), il grande naturalista, grazie al cui lascito era sorto nel 1828 il Museo di Bassano. Egli rispondeva sempre con sollecitudine, dimostrando di essere molto interessato alla vita culturale bassanese. Della città si ricorda nel testamento lasciandole, oltre al gesso dell'Ettore e Andromaca, trasposto in marmo per il Mellerio come sopra si è detto, i cinque grandi volumi Monuments de Ninive (Paris 1849), conservati anch'essi nel Museo civico.
Le Nove, sua patria, egli nomina eredeuniversale, tolti i legati in favore della seconda moglie, Camilla Piantanida, nipote ed omonima della prima, e della sorella Caterina, che da qualche tempo viveva presso di lui nella bella casa nella attuale via Sistina (Faccioli, 1978, p. 17).
Nel testamento del 1854 e nei due codicilli, rispettivamente del 1° giugno 1857 e del 16 ag. 1860, il D. è molto preciso nell'indicare le proprie volontà.
Minuziose sono anche le disposizioni che egli dà all'esecutore testamentario, il cardinale Pietro De' Silvestri, sulla suatomba: in un primo tempo (1854) voleva essere sepolto nel piccolo cimitero di S. Maria in Camposanto, presso la basilica vaticana, accanto alla sua prima moglie; in seguito (1857) stabilì la sua sepoltura e quella della seconda moglie e della sorella a S. Onofrio, di fianco al mausoleo di Torquato Tasso. Egli stesso eseguì un "monumentino" da porre in sito dopo la sua morte. L'eredità lasciata dal D. era cospicua perché, oltre ai beni mobili e immobili, come la casa di Roma, comprendeva anche liquidi: perfino i doni preziosi avuti in qualità di direttore dei Musei pontifici erano stati venduti dal D., "realizzati in contanti per aumentare il patrimonio" (Testamento di G. D., 1876, p. 30). Con questo lascito nacque alle Nove l'Opera pia G. De Fabris (che ancora sussiste, se pure languente): con una parte delle risorse finanziarie fu costruito l'edificio dove trovò sede una scuola di disegno, molto più tardi trasformata nell'attuale istituto d'arte "De Fabris", statale.
Morì a Roma il 22 ag. 1960.
Tra gli scritti del D., oltre a quelli citati all'interno della voce, si ricordano: Intorno a un bassorilievo... Arianna abbandonata da Teseo (letto il 4 dic. 1845 nella Pontif. Acc. di archeol.), Roma 1845; Ragionamento pronunciato il 12 marzo 1846 nell'aula massima capitolina nell'occasione che... solennizzava la premiazione del III grande concorso biennale Gregoriano, Roma 1846; Descriz. del progetto di un monum. alla Gran Madre Maria..., Roma 1854.
Fonti e Bibl.: Non esiste un lavoro monografico sul D., a cui darebbero un importante contributo gli epistolari o i carteggi che devono pur esistere in vari archivi, date le molte relazioni avute dal D., grazie alle sue alte cariche, con i protagonisti della cultura e della politica di mezza Europa: per esempio, si sono rivelate utili ad illuminamela figura le sei lettere indirizzate all'abate bassanese Jacopo Ferrazzi, conservate a Bassano nel Museo civico (Ep. in corso, XV; 13.4523 e Ep. Ferrazzi, IV. 19. 1218-1222), e le numerose lettere ufficiali al D., che si trovano conservate nell'Archivio parrocchiale delle Nove. La bibliografia edita è vastissima per la risonanza che ebbero nella stampa contemporanea (giomali ed opuscoli) la sua attività e le sue opere, specialmente alcune. Nei vari interventi sul D. (le voci nei dizionari e nelle enciclopedie), il giudizio critico sulla sua arte è sommario e riduttivo: quasi sempre egli viene ritenuto un freddo imitatore degli schemi neoclassici, mentre ben altri sarebbero gli aspetti da rilevare.
Per ricostruire la vita e la fisionomia dell'artista sono di una certa validità gli scritti, anche se piuttosto agiografici, di p. Roberto da Nove, 1910 e di G. D. Pigato, 1960. Una buona sintesi sul periodo romano, nonostante qualche inesattezza, è l'articolo del Faccioli, 1978. Per la bibl., oltre a quella in U. Thieme-F. Becker, cfr: F. De Romanis, Delle opere plastiche e delle sculture del cav. G. Fabris da Vicenza, in Effemeridi letterarie, X (1823), pp. 87-100; G. G. De Rossi, Ilmonumento sepolcrale della famiglia Mellerio, Roma 1824; G. Servi, Prefazione allo Statuto della Congreg. de' Virtuosi al Pantheon, Roma 1839; A. M. Ricci, Su due monumenti scolpiti dal cav. G. Fabris, Roma 1844 (estratto da l'Album); P. Mazio, Sopra il monumento di A. Palladio... di G. D., in Il Saggiatore, IV (1845), pp. 47-55, 82-92; G. B. Berti, Sul mon. a Palladio eretto... nel Cimitero com. di Vicenza, Vicenza 1845; A. M. Ricci, Elegia pel mon. sepolcrale scolpitò da G. D. alla consorte C. Piantanida, Roma 1847; F. Orioli, Di un mon. ideato ed eseguito in modello da G. D. per... la solenne dichiarazione del dogma dell'Immacolata Concezione, Roma 1855; A. M. Ricci, Stanze per l'inaugurazione del monum. a T. Tasso scolp. dal cav. G. D., Roma 1857, estr. dall'Album; Testamento e codicilli del comm. G. D., Bassano 1876; O. Brentari, Storia di Bassano, Bassano 1884, pp. 723 s.; Roberto da Nove, Commemoraz. di G. D., Bassano 1910; E. Lavagnino, L'Arte moderna…, Torino 1956, p. 597; G. B. Pigato, G. D., Vicenza 1960; G. Hubert, La scuipture dans l'Italie napoléonienne, Paris 1964, ad Indicem; F. Barbieri, Illuministi e neoclassici a Vicenza, Vicenza 1972, pp. 177, 179 s.; B. Passamani, Il Museo civico di Bassano, Bassano 1975, pp. 32, 71, 81; C. Faccioli, Il mezzo secolo romano di G. D., in L'Urbe, 1978, 3, pp. 15-23; G.Moroni, Diz. di erudizione storico ecclesiastica, ad Indicem; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, XI, pp. 169 s. (s. v. Fabris, Giuseppe de); Enc. Ital., XII, p. 478.