DE THOMASIS, Giuseppe
Nacque il 19 marzo 1767 a Montenerodomo, in provincia di Chieti, da Tommaso e da Orsola Pizzala.
Compiuti i primi studi nel paese natio, fu assai presto allievo dei canonici Bolognese e De Vincentis che in Chieti avevano fondato una scuola privata di lettere, frequentata a quel tempo anche dal giovanissimo Nicola Nicolini.
Appena sedicenne, venne a Napoli per completare, sotto la guida dell'abate Galiani, la propria formazione culturale ed essere avviato agli studi giuridici. Laureatosi in leggi all'università di Napoli, intraprese subito quella professione forense che già "pel corso di due secoli i suoi antenati avevano esercitato" (Grilli, 1900). Ben presto non trovando - come scrisse il Colletta - "pari a se la curia, i Curiali, i codici, sdegnoso del bugiardo mestiere, ne fuggì".
Il D. infatti, formatosi nel periodo più fecondo dell'illuminismo meridionale, non tardò ad accorgersi - frequentando le aule della R. Camera della Sommaria - che la sua preparazione giuridica altro non era se non "favola e riso dei brigadori" (Colletta).
Tuttavia l'abbandono della professione forense da parte del D., pur trovando l'occasionepiù immediata nelle incertezze e negli arbitri della giurisprudenza dei grandi tribunali e nel groviglio legislativo del sistema del diritto comune, traeva le sue più profonde motivazioni nell'esistenza semplificatrice delle materie giuridiche, diffuse dal razionalismo cartesiano. Il legame con l'illuminismo riformista è infatti evidente già nei primi lavori del De Thomasis. Appartengono per l'appunto a questo periodo, non solo le traduzioni del Maometto e della Zaira di Voltaire - date alle fiamme dal padre dell'autore al tempo delle perquisizioni del 1799 - ma, anche, gli studi sull'agricoltura e sul sistema feudale del Regno, rimasti inediti e raccolti in un volume dal titolo: Cagioni che ritardano il progresso nelle province napoletane che - secondo le notizie fornite dal Grilli (1900) - sembrano potersi inserire nel più generale dibattito antifeudale aperto dal Filangieri, il quale aveva come obbiettivo non più la sola correzione degli abusi, ma la vera e propria eversione del sistema.
Nel 1799 il D. aderiva alla Repubblica Partenopea, senza però ricoprirvi alcuna carica pubblica. Ciononostante, alla sua caduta, fu costretto a rifugiarsi per qualche tempo nelle campagne del paese natio. Ritornato a Napoli dopo la pace di Firenze (1801), riprese gli studi d'economia consolidando i contatti con quegli intellettuali che, più sensibili alle correnti di pensiero ed alle novità istituzionali d'Oltralpe, saranno di là a qualche anno gli artefici delle nuove forme amministrative: Pasquale Borrelli, Melchiorre Delfico, Luigi Dragonetti, Pasquale Liberatore, Giuseppe Poerio e Francesco Ricciardi.
Sotto i napoleonidi entrò quindi nell'amministrazione con la carica di sottointendente di Sulmona (27 ott. 1806). In realtà si trattava di un incarico che andava ben al di là dei compiti e dei poteri di un sottointendente, per la necessità di reprimere i sempre più frequenti episodi di ribellione e di brigantaggio che dalla Marsica minacciavano di dilagare in tutto l'Abruzzo. In effetti a Sulmona nei due mesi precedenti c'erano già state due nomine così che "solo l'opportunità politica di non creare una carica nuova e straniera alla costituzione del Regno" (Civile) fece sì che il titolo ufficiale per l'esordio del D. nell'amministrazione provinciale fosse quello di sottointendente.
L'elevato impegno posto dal D. nell'assolvimento delle sue funzioni è testimoniato soprattutto dalla riapertura del canale di bonifica di Corfino, rimasto chiuso e abbandonato per due millenni, e che, una volta ripristinato, restituì "24.000 moggi di terreni aridi e malsani" (Grilli, 1900) all'agricoltura. Al D. non sfuggivano infatti i profili sociali ed economici del brigantaggio di quelle province: non solo considerava la "economia pubblica estremamente legata alla morale del popolo" ma riteneva anche che il miglioramento dell'agricoltura rappresentasse "il mezzo più sicuro per preservare dal brigantaggio" (Arch. di Stato dell'Aquila, rapporto all'intendente dell'Aquila, 15 luglio 1807).
Per sollecitare, quindi, i possidenti ad aderire al progetto di bonifica, si recò personalmente nei centri più importanti della provincia e costituì una specie di consorzio che successivamente provvide ad esigere, sia dai proprietari sia dai Comuni, i sussidi necessari alla realizzazione dell'opera.
Il 17 luglio 1807, per le ottime prove fornite in relazione ai gravi problemi dell'ordine pubblico, veniva nominato intendente di Calabria Ultra, regione che per la vicinanza della corte borbonica e la frequenza delle ribellioni viveva in continuo stato di assedio. In questa regione, però, l'opera riformatrice del D. incontrò poca fortuna. Nel reprimere "le vergognose costumanze feudali" suscitò, infatti, anche tra i nuovi "possidenti" calabresi, diffusi malumori e non poche resistenze. Difficoltà tutte che riuscì a superare solo quando Murat, rifiutando di accogliere le sue dimissioni, gli accordò pubblica ed incondizionata fiducia.
Comunque, proprio la profonda competenza in materia feudale doveva riportare il D. ben presto in Abruzzo. Infatti il 22 ott. 1809 gli veniva comunicata la nomina a commissario ripartitore dei beni demaniali e feudali nei tre Abruzzi. Il D. ritornava così in quei luoghi, le cui questioni feudali aveva già mostrato di conoscere a fondo sia in quel breve lavoro Sulla terra di Montenerodomo in Abruzzo scritto poco prima del 1799 - e che il Croce fece stampare dall'Accademia Pontaniana nel 1919 -, sia in quei due capitoli rimasti inediti Sulla proprietà feudale - di cui dà notizia il Grilli (1900) - scritti quando era a Sulmona, per commentare la legge sulla eversione della feudalità.
Con questo incarico, in effetti, venivano offerti al D. ampi poteri per favorire lo sviluppo della economia agricola abruzzese la cui arretratezza - prima "cagione" del "brigantaggio" - egli appunto attribuì "alla strana combinazione dei diritti di proprietà sulle terre, alla assurda distribuzione di queste, allo stato servile della classe più utile" (Arch. di Stato dell'Aquila, proclama da Chieti, 22 maggio 1810). E difatti il compito immediatamente operativo al quale era stato chiamato fu inteso dal D. organicamente legato al consolidamento della nuova forma di Stato fondato sul principio della legge uguale per tutti e sull'affermazione della proprietà privata. "Ogni cittadino" - scrisse appunto nel proclama emanato da Chieti il 22 maggio 1810 - "sicuro di avere per sé esclusivamente un pezzo di terra, avrà interesse a rispettare le leggi, a difendere gli ordini generali dello stato e sentirà di amare la Patria, il Principe, il lavoro".
Di qui anche la rapidità con la quale portò a termine le operazioni di ripartizione. La vastissima materia, raccolta in diciotto volumi, fu, infatti, sottoposta al ministro dell'Interno G. Zurlo già nel febbraio del 1812. Essa riguardava la risoluzione di tutto il contenzioso con la creazione di ben 30.000 nuovi proprietari, nonché la fondazione, con i 600 coloni degli ex feudi di Roccapizzo e Carceri, di un nuovo Comune presso le più fertili ma spopolate terre della valle del fiume Sangro, a cui fu dato il nome di Ateleta, per sottolineare nella denominazione l'esenzione fiscale di cui avrebbe goduto la nuova Comunità; nelle operazioni per la fondazione di Ateleta, il D. si avvalse della collaborazione del fratello Giacinto. Tanto lavoro, svolto peraltro in così breve tempo, non sortì l'effetto sperato dal D. nella considerazione del ministro Zurlo, che solo dopo qualche mese dal suo ritorno a Napoli lo nominò intendente di Calabria Citra; carica che il D. rifiutò adducendo motivi di salute, ma che in realtà ricusò perché contrario ai sistemi esclusivamente repressivi adottati dal generale Ch.-A. Manhès per eliminare il brigantaggio in quelle province.
Accettò invece la nomina a consigliere della Gran Corte di cassazione (25 apr. 1813), conferitagli dal ministro F. Ricciardi. Tuttavia esercitò tale incarico solo per alcuni mesi; il 10 febbr. 1814 fu nominato commissario di Benevento con il compito di curare l'adeguamento delle istituzioni civili del soppresso principato da poco occupato militarmente. Il 2 ott. dell'anno precedente era stato nominato - sempre dal Ricciardi, che lo aveva in grande considerazione - procuratore generale della Gran Corte dei conti, carica che ricoprì ininterrottamente fino a quando non ne fu destituito il 20 luglio 1821.
La Restaurazione infatti, pur cogliendo il D. presso l'intendenza di Capua, dove era stato inviato dal governo murattiano nell'aprile del 1815 per assicurare il controllo di quelle popolazioni, non lo sollevò dalla carica presso la Corte dei conti. Anzi il D., nella qualità di procuratore generale, venne a svolgere - durante il quinquennio - un ruolo senz'altro più rilevante di quello assolto nel precedente decennio. Difatti con la Restaurazione vennero attribuiti alla prima camera della Corte dei conti sia i compiti giurisdizionali del soppresso Consiglio di Stato, sia la competenza per i giudicati dell'abolita Commissione feudale. In tal modo il D. svolse in questi anni, nell'ambito delle istituzioni del restaurato Regno borbonico, un ruolo centrale per la difesa delle riforme del decennio.
Sempre durante il quinquennio il D. fondò e diresse con Giustino Fortunato e Pietro D'Urso il Giornale delle decisioni della Gran Corte dei conti e di altri provvedimenti relativi all'applicazione dei principi di pubblica amministrazione, nel quale via via raccolse tutta la giurisprudenza di tale magistratura, i rescritti regi, i regolamenti e le ordinanze dei ministri. In appendice a questa rivista - che sola nel Regno assolse l'importante funzione di dare alle stampe le decisioni sul contenzioso amministrativo - il D. pubblicò negli anni 1818-19 alcuni articoli che avrebbero dovuto rendere il Quadro storico dell'antico e attuale regime de' domini del Regno delle Due Sicilie al di qua del Faro (in Giornale della Gran Corte dei conti, 1818-19, Appendice), ma che invece si interruppero con la descrizione "delle forme politiche e del diritto pubblico" del ducato di Napoli.
Nell'aprile del 1820, infatti, pur essendo stato apertamente contrario al concordato con la S. Sede del 1818, per quell'idea "etico-giuridico-politica dello Stato" (Cortese) che guidava tutta la sua azione di amministratore, veniva distratto dagli studi storici ed inviato a Palermo quale organizzatore generale di tutte le istituzioni civili, giudiziarie e finanziarie in Sicilia.
Il D. giunse a Palermo insieme al generale D. Naselli, che sostituiva il duca di Calabria, come luogotenente del re, il 17 giugno 1820, forse nel momento meno opportuno per rendere finalmente operante l'abolizione dell'autonomia amministrativa della Sicilia, imposta dal governo con i decreti dell'8 e 11 dic. 1816. Invero vi giungeva non solo quando il malcontento era generale, "perché la città privata della prerogativa di capitale aveva visto interrompersi molte attività economiche e amministrative" (Candeloro), ma per di più appena tredici giorni prima che i carbonari della vendita di Noia dessero inizio al moto costituzionale. In questa situazione il D. - che per la sua origine borghese e per il suo passato murattiano era già tutt'altro che ben accetto a quell'aristocrazia siciliana che si ostinava nel rifiutare l'ordinamento giuridico del decennio, per opporsi al predominio conseguito nel continente dalle nuove forze della borghesia intellettuale e terriera - divenne oltremodo impopolare. Ed a nulla valse la nomina, da lui suggerita, di una giunta provvisoria di governo composta di uomini moderati che avevano avuto parte nei governi costituzionali del 1812-14. Quando, infatti, nei giorni del 15 e 16 luglio giunse a Palermo la notizia della vittoria della rivoluzione napoletana, i gravi tumulti che scoppiarono nelle strade della città ebbero immediatamente un'impronta separatista di grande violenza. Vi furono stragi e saccheggi e il D. e la moglie Lucia Gomez y Paloma, dopo essere stati assaliti nella propria abitazione, riuscirono a malapena ad imbarcarsi per Napoli su di una "speronara", sulla quale salì anche il generale Naselli.
Rientrati a Napoli il 19 luglio, mentre il Naselli veniva sottoposto a processo, il D. era subito riconosciuto esente da ogni imputazione e di lì a poco, il 4 ag. 1820 - avendo i carbonari rimesso la direzione del moto al gruppo murattiano -, entrava a far parte del nuovo governo costituzionale come ministro della Marina. Quale rappresentante dell'esecutivo, il D. ebbe parte notevole sopratutto nell'elaborazione dei messaggi regi dell'8 e del 10 dicembre 1820.
Dalle tre lettere pubblicate dal Grilli ed indirizzate al D. dal principe vicario Francesco risulta infatti evidente l'opera di mediazione da questo svolta tra il Parlamento ed il sovrano, per la redazione di quella dichiarazione esplicita a sostegno della costituzione che consentì al re di partire per il congresso di Lubiana. Tuttavia la diffusione accordata da Mormile duca di Campochiaro e dallo Zurlo al precedente messaggio regio del 7, che aveva provocato le violente proteste del Parlamento per l'intenzione chiaramente manifestata dal re di aderire al deliberato di Troppau e di modificare la costituzione di Spagna, costrinse l'intero gabinetto a dimettersi.
Il D. ritornava così alle cure della Corte dei conti, ma per breve tempo. Difatti, il 20 febbr. 1821 - quando ormai l'esperienza costituzionale era al suo epilogo - veniva richiamato al governo dal reggente, che gli affidava il ministero degli Interni e degli Affari ecclesiastici.
Poco dopo, con la sconfitta della rivoluzione, il suo operato veniva sottoposto alla giunta di scrutinio che lo esonerava sia dalla carica di procuratore generale sia da tutti gli incarichi ricoperti nelle molte commissioni di cui faceva parte. Il D. ai primi del 1822 prendeva così la via di Firenze, dove insieme alla moglie diveniva assiduo del gabinetto letterario del Vieusseux. Ammalatosi però pochi mesi dopo e sperando in una rapida guarigione "nel clima di Napoli" (Grilli, 1900) vi faceva rientro nel febbraio del 1823.
Da questo momento e sino al 1830 il D. si dedicò segretamente all'Introduzione allo studio del diritto pubblico e privato del Regno delle Due Sicilie, che verrà pubblicata postuma a Napoli nel 1831.
Con quest'opera che rimase incompiuta il D. si rivolgeva alle "generazioni future" per trasmettere "l'istoria della legislazione del Regno". Per il D. l'insegnamento storico del diritto pubblico e privato era reso urgente dall'allontanamento dei funzionari napoleonici che sino al Venti erano stati i fedeli interpreti delle riforme del Decennio.
Al vecchio illuminista, che nel silenzio del suo studio si vedeva costretto, dopo sostanziali mutamenti istituzionali, ad affrontare nuovamente "l'incertezza, la vacillazione e la volubilità dei giudici e dei giudizi", appariva come fondamentale la formazione giuridica di coloro che di lì a qualche anno avrebbero rivestito un ruolo di protagonisti nella vicenda istituzionale del Regno.
Di certo, la polemica antiromanistica che affiora a più riprese nell'Introduzione affonda ancora le sue radici nel terreno illuministico, tuttavia - ed è qui la novità dell'opera - è finalizzata a rimuovere i "nuovi inconvenienti" cioè le deviazioni giurisprudenziali del sistema civilistico e pubblicistico della Restaurazione. Questa impostazione decisamente esegetica ebbe, in effetti, larga fortuna soprattutto tra i pubblicisti ed influenzò non poco gli studi di diritto amministrativo negli anni tra il 1830 ed il 1848, quando questi vennero ad essere considerati come l'unico mezzo per salvaguardare la realtà giuridica da quella politica, che ormai non le corrispondeva più.
Sempre in questi anni il D. scrisse un saggio, apparso poi anch'esso postumo nel primo numero della rivista Il Progresso nel 1832, intitolato Della Gran Corte di cassazione ultimamente denominata Suprema Corte di giustizia. In questo scritto avvertiva che la funzione della corte non era quella di emettere una decisione di merito di terzo grado, ma solo di esaminare se i giudici nel "valutare le pruove de' fatti, o la sincerità de' titoli o la probità de' testimoni, abbiano o meno violata la legge", facendo così risaltare il rapporto che i magistrati dovevano stabilire con la legislazione vigente e non con l'astratto diritto.
Un indirizzo metodologico che risente molto dell'influenza della scuola dell'esegesi. Non a caso appartengono al D. sia la Prefazione che le note dell'edizione italiana, curata da Francesco Paolo Del Re e pubblicata a Napoli nel 1830, del Droit civil français suivant l'ordre du Code civil di C. B. Toullier, che fu tra le figure più importanti della scuola esegetica francese. Le annotazioni del D. sono, pertanto, una fonte preziosa per individuare gli ambiti di diffusione del metodo e della tecnica di ragionamento squisitamente anticoncettualistica nel Regno meridionale.
Il D. morì a Napoli il 10 sett. 1830. Pochi giorni prima aveva completato un volumetto a cui aveva dato il titolo di Istruzioni richieste a presentare a Sua Altezza Reale Ferdinando duca di Calabria - purtroppo rimasto inedito -, con cui suggeriva al principe ereditario, a dire del Grilli, un programma completo di riforme.
Fonti e Bibl.: Un elenco completo delle molte opere inedite del D., corredato da brevi notizie critiche sul loro contenuto, si trova nei due lavori di E. Grilli, G. D., la vita e le opere, in Riv. politica e letteraria (Roma), maggio 1900, pp. 3-36, e G. D., Casalbordino 1934 (che costituisce una sintesi del lavoro precedente); Archivio di Stato dell'Aquila, Circondario di Sulmona, Atti demaniali. Necrol. in IlProgresso delle scienze, delle lettere e delle arti, X (1832), p. 312; P. Liberatore, Introduzione allo studio della legislazione del Regno delle due Sicilie ad uso della scuola privata, Napoli 1832, pp. 49, 63 ss.; N. Nicolini, Questioni di diritto, I, Napoli 1835, p. 300; P. Colletta-N. Tommaseo, Alla memoria di G. D., Parigi 1837 (contiene di P. Colletta, Elogio di G. D., e di N. Tommaseo [poi ripubbl. in Opere inedite e rare, Napoli 1861, II, 117-30] D'un opera postuma di G. D.; C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1844, p. 350; A. Ranieri, Lucia De Thomasis, in Arch. stor. ital., IX (1859), I, pp. 188-193; C. Minieri Riccio, Biblioteca storico topografica degli Abbruzzi composta sulla propria collezione, Napoli 1862, p. 404; C. Colletta, Diario del Parlamento nazionale delle Due Sicilie negli anni 1820-1821, Napoli 1864, pp. 49 ss.; A. Ranieri, Scritti varii, Napoli 1879, pp 119-132; D. Santoro, Il salotto di donna Lucia De Thomasis a Napoli, Chieti 1906; F. Nicolini, Nicola Nicolini e gli studi giuridici nella prima metà del secolo XIX, Napoli 1907, pp. XIX s.; B. Costantini, Il fondatore di Ateleta: G. D., in Rivista abbruzzese, XXXII (1917), pp. 400-404; B. Croce, Montenerodomo. Storia di un paese e di due famiglie, Bari 1919, ripubblicato in Storia del Regno Napoli, Napoli 1924, pp. 315 ss.; E. Grilli, Statisti abruzzesi: G. D., in L'Abruzzo, I (1920), pp. 348-355, 397-406; L. R[ivera], Rassegna bibliografica: uno scritto inedito di G. D., in Boll. della R. Deput. abruzzese di storia patria, s. 3, XI-XIII (1920-1922), p. 415; E. Grilli, D. G., in Enc. Ital., XII, Roma 1931, p. 694; N. Cortese, La condanna e l'esilio di Pietro Colletta, Roma 1938, pp. 36 , 44, 91, 226, 335, 384, 420, 443; Id., La prima rivoluzione separatista siciliana (1820-21), Napoli 1951, pp. 19-22; R. Aurini, Diz. bibl. di gente d'Abruzzo, I, Teramo 1952, pp. 326-36; G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, II, Milano 1958, p. 78; P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, a cura di N. Cortese, Napoli 1969, II, p. 431; III, pp. 12, 29, 119, 148, 173-176, 217 s., 225, 242, 251, 254, 280, 364, 371 s.; G. Cingari, Mezzogiorno e Risorgimento. La Restaurazione a Napoli dal 1821al 1830, Bari 1970, p. 252; G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari 1973, pp. 59, 85; R. Feola, Dall'Illuminismo alla Restaurazione. Donato Tommasi e la legislazione delle Sicilie, Napoli 1977, pp. 181, 217, 251, 274, 281 s., 284, 293; G. Civile, Appunti per una ricerca sull'amministrazione civile nelle province napoletane, in Quaderni storici, XXXVII (1978), pp. 236, 239, 259, 261; L. Martone, La scienza amministrativa nel Regno delle Due Sicilie (1815-1848), in Rivista trimestrale di diritto pubblico, XXX (1980), 3, pp. 805-812; R. Feola, La monarchia amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Napoli 1984, pp. 203-24; A. De Martino, La nascita delle intendenze. Problemi dell'amministrazione periferica nel Regno di Napoli 1806-1815, Napoli 1984, pp. 143 ss., 389 ss.