DI VITTORIO, Giuseppe
Nacque a Cerignola (Foggia) il 12 ag. 1892 da Michele e da Rosa Enrico, secondogenito dopo la sorella Stella.
Il padre era "curatolo" (bracciante specializzato con compiti di fiducia) presso una azienda agricola. Apparteneva a una di quelle piccole comunità evangeliche, non insolite in Puglia, promosse da emigrati negli Stati Uniti (Arfè, 1978, p. 45). Morì nell'inverno 1899, per la febbre contratta nel tentativo di salvare il bestiame affidatogli durante una alluvione.
Il D. seguiva allora con profitto la seconda elementare; non poté iscriversi l'anno successivo per la necessità di integrare il misero reddito che la madre traeva dall'attività di lavandaia. Divenne così bracciante all'età di otto anni.
Le vicende della sua infanzia e adolescenza, riferite da lui stesso o da altri, sono già tutte cariche di significati univoci, perché precoce è la leggenda che segnerà per tutta la vita la sua figura di militante sindacale e politico, e che si forma in quell'angolo di Tavoliere tra Cerignola, Canosa e Minervino Murge. Il D. partecipò alle agitazioni della sua lega bracciantile a 10 anni. Nel 1904 durante uno sciopero generale gli morì accanto il coetaneo e amico Ambrogio, falciato dal fuoco della truppa. Nel 1907 fondò a Cerignola il Circolo giovanile socialista e l'anno seguente entrò nel direttivo della lega che aveva Antonio Mineo per capo; nel 1911 era segretario della Camera del lavoro di Minervino Murge.
In questa precocissima parabola si compiva la prima formazione propriamente sindacale del D., i cui connotati essenziali erano la lega, lo sciopero, il contratto, l'orario e la tariffa, secondo la elementare grammatica del sindacalismo bracciantile pugliese. Tra il 1907 e il 1909 la lega bracciantile di Cerignola riuscì ad imporre l'orario di nove ore, a cui seguirà la rivendicazione della mezz'ora pagata per il ritorno dal fondo a casa, la tariffa fissa giornaliera, la contrattazione del vitto fornito dal datore di lavoro sul fondo. Far rispettare gli accordi da tutti gli agrari rimaneva l'impegno più difficile che si intersecava con il problema della manodopera reclutata in altri centri limitrofi e richiedeva un allargamento oltre i confini municipali dell'influenza sindacale. Le iniziative bracciantili si sviluppavano, poi, in un quadro di violenza, illegalità, mancanza di comportamenti affidabili da parte delle autorità tutorie e della magistratura regia, segnati da brutali repressioni, eccidi, condanne politiche, che rendevano sempre aspra, spesso drammatica, ogni forma di confronto. In questa durezza di rapporti sociali e civili la cultura socialista che penetrava negli instabili ingranaggi delle organizzazioni dei salariati agricoli restava necessariamente elementare, segnata dalla povertà del contesto contadino in cui si muoveva, dove stentavano le informazioni ed era difficile dare continuità alle iniziative.
Più tardi. ritornando su queste vicende, il D. definirà gli anni tra il 1911 e il 1914 come "periodo normale" per il sindacalismo pugliese, confrontati con il 1919-21, come "periodo rivoluzionario", e il 1921-24, come "periodo reazionario" (l'Unità, 10 ott. 1924). L'elemento di normalità fu in effetti la costituzione di un'organizzazione sindacale stabile, diffusa sul territorio e legata da vincoli di solidarietà, capace di ottenere e far rispettare una serie crescente di "patti" collettivi e di finalizzare ad essi l'azione conflittuale. Ma questa "normalità" fu il risultato di una profonda rivoluzione civile, prima ancora che sociale, la lenta e costante conquista della "cittadinanza" da parte del proletariato agricolo pugliese, assai più netta di quanto non avvenisse per altre popolazioni meridionali. Questo grande processo corale, di cui sono protagonisti una pluralità di militanti, in un continuo cangiare di forme organizzative e di avvenimenti, era solo per una parte l'effetto indotto dagli esempi che provenivano dal movimento sindacale e socialista, sviluppatosi da più di un quindicennio nella Valle Padana, la cui cultura, come si è visto, era un cemento essenziale, che tuttavia filtrava in modo elementare, mediato prima ancora che da esponenti dei ceti medi, che costituivano per lo più il crogiuolo caratteristico del nascente socialismo nel Mezzogiorno, da giovani contadini, protagonisti naturali di quelle lotte.
Così nacque quella che possiamo chiamare la "leggenda" del D., perché egli fu un'incarnazione emblematica di questa storia. Il fanciullo che al lume di candela consumava le ore notturne nella lettura, protetto dalla figura paterna del maestro Pedrecca, che nella masseria durante il riposo raccontava agli anziani le storie fosche ed epiche della loro terra e, fattosi adolescente, ottenne dal sindaco la scuola serale gratuita dove conseguì il suo unico diploma scolastico, quello della terza elementare, che fece smettere alla sua gente di portare il tabarró, quale simbolo di una inferiorità sociale, che si costruì una professionalità di bracciante sempre più specializzato, mentre era instancabile agitatore, beffava l'amministrazione francese del latifondo dei La Rochefoucauld e i suoi mazzieri, non conobbe intimazioni e dette esempio di coraggio.
Storie certamente vere, e che tuttavia conservano un sapore agiografico proprio perché appartengono insieme a una vicenda collettiva. Fioriranno intorno ad essa molte versioni in forma di canzone e di versi. I più conosciuti sono quelli del "piccolo poema" di G. Angione, coetaneo e compagno di lotte del D., che non a caso ricordava all'inizio che "gli episodi sono tanti / mai terminerà la storia / sono assai e chissà quanti" (D. l'uomo, il dirigente, I, p. 43).
Ma precoce, e per certi versi istintiva, era anche la formazione propriamente politica del Di Vittorio. Più che la sua militanza sindacale ci aiuta a ricostruirla quella di segretario del Circolo giovanile socialista di Cerignola, anche se il movimento delle leghe e delle Camere del lavoro era quello che propriamente venne ad affermarsi come organizzazione di massa.
Il Circolo nacque del resto come interstizio tra la lega e il partito e questo, più o meno in tutta la Puglia, ebbe un ruolo scarsamente propulsivo; la sua vita era stentata, attraversata in modo asfittico dai grandi contrasti ideologico-politici che lo contraddistinguevano sulla scena nazionale. Anche l'organizzazione confederale e la Federterra ebbero un ruolo marginale nello sviluppo del sindacalismo pugliese; quest'ultima dovrà attendere il suo V congresso, nel 1914, per avere un'adesione appena significativa di organizzazioni meridionali. Erano di ostacolo a una più organica integrazione nazionale quelle che erano le caratteristiche proprie dell'azione del bracciantato agricolo pugliese, legate ad un quotidiano confronto con la classe agraria e con gli organi tutori dello Stato, nonché alla necessaria frammentarietà territoriale delle iniziative, a cui presiedeva l'istantaneità dell'azione piuttosto che la riflessa politicità dell'iniziativa organizzativa e politica.
Rievocando il primo incontro con Granisci il D. tornerà a riflettere su questo punto: "per la prima volta ho sentito questa osservazione: perché il movimento sindacalista si era sviluppato di più nei centri del proletariato agricolo e precisamente in Puglia ed in Emilia? Perché le masse del bracciantato agricolo... erano portate naturalmente ad essere insofferenti della disciplina burocratica che il riformismo della Confederazione generale del lavoro voleva imporre alle leghe e ai sindacati" (Chilanti, p. 93).
Il localismo, l'autonomismo, per certi versi lo spontaneismo, erano in effetti comportamenti intrinseci delle organizzazioni sindacali pugliesi e che precedevano la loro diffusa adesione al sindacalismo rivoluzionario. Pesava su ciò il vuoto di direzione politica della Confederazione generale del lavoro e del Partito socialista italiano, che era qualcosa di più di una mancanza di politica meridionalistica, era un rifiuto profondo ad assumere il problema in tutte le sue valenze, donde un'incomprensione dei fenomeni che portava a descrivere, ad esempio nel 1907, gli scioperi pugliesi come "preistoria del sindacalismo" (Avanti!, 22 sett.), mentre essi costituivano invece proprio l'ingresso di questo nella storia di quelle terre. Donde la pertinenza. per questi aspetti, della polemica salveminiana, pur nella infondatezza delle soluzioni proposte, che collimava con i tentativi, reiterati da più parti, di costituire ambiti organizzativi "meridionali", com'era il caso della Federazione meridionale di G. Alfani ed E. Trematore che concludeva la sua parabola nel congresso di Napoli del 1910, mentre sempre più fitte si facevano le occasioni di raccordi a livello regionale.
Questi aspetti troviamo riflessi anche nella vicenda della organizzazione giovanile socialista; la cronaca del suo Il congresso regionale di Adria, su Avanguardia (2 ott. 1910), vedeva protagonista anche il D., in rappresentanza del circolo di Cerignola: è significativo che egli fosse relatore sul tema della "Costituzione di una federazione dei giovani socialisti pugliesi", si dichiarasse per una campagna per l'allargamento del suffragio, fosse fermamente antimilitarista, non si associasse al plauso per la dirigenza giovanile nazionale di osservanza riformista.
Questi e altri spunti ci danno una prima impressione di quale fosse l'universo di idee e inclinazioni nel quale si muoveva la sua formazione, forse ancora poco coerente, ma strettamente legata alla sua concreta esperienza. La sua diffidenza verso le prassi politiche e il suo netto antiriformismo erano il rifiuto di un metodo che gli pareva incapace di incidere sulla realtà sociale in cui egli operava.
Nel 1911 il D. farà la sua prima sortita a Firenze per portare l'adesione del suo circolo alla federazione dei giovani sindacalisti di Parma, che si era costituita in contrapposizione con quella aderente al PSI (Arfè, 1957), e conoscerà per la prima volta i maggiori capi sindacalisti, Corridoni, De Ambris, Rossoni. Di quella corrente divenne attivo propagandista; già dall'anno precedente collaborava al quindicinale dell'organizzazione Gioventù socialista, con cronache da Cerignola. Ma è caratteristico il fatto che, pur avendo compiuto una netta scelta di campo sul piano nazionale, non volle rompere con l'organizzazione giovanile pugliese, che inclinava a maggioranza per l'altro orientamento.
L'adesione del D. al sindacalismo rivoluzionario manterrà sempre del resto questo impasto di autonomismo pugliese, nel segno di una comune origine scaturita da premesse non propriamente ideologiche, ma piuttosto da quotidiane esperienze proletarie. Così mentre propugnava una certa intransigenza astensionistica, nel 1910 patrocinava la candidatura nel suo collegio elettorale di C. Altobelli e nel 1913 avrebbe sostenuto quella di Salvemini nei collegi di Molfetta e Bitonto.
Ma il maggiore impegno il D. lo dava nell'attività sindacale. Arrestato durante una manifestazione bracciantile a Cerignola nel maggio del 1912, passò alcuni mesi nel carcere di Lucera. Non partecipò così al congresso costitutivo dell'Unione sindacale italiana (USI), che si tenne nel novembre a Modena, a cui aveva aderito la Camera del lavoro di Cerignola, pur venendo eletto nel Comitato centrale della costituita organizzazione.
La sua figura di sindacalista era ormai consacrata. Gioventù socialista (15 maggio 1912) in una corrispondenza dal titolo, Nella Puglia rossa. La Parma del Mezzogiorno, parlava del "nostro pensoso Di Vittorio, il padre dei giovani sindacalisti, un padre appena ventenne". Proprio l'adesione della Camera del lavoro di Cerignola fu causa di primi scontri interni tra riformisti e sindacalisti rivoluzionari. È significativa una nota del D. sull'Internazionale del 29 genn. 1913, in cui egli giustificava la mancata rottura da parte della componente sindacalista, secondo il principio di non avere in nessun Comune due camere del lavoro o leghe contrapposte tra loro, principio che avrebbe sempre cercato di far prevalere, anche in seguito, nelle organizzazioni pugliesi.
Verso la metà del 1913 il D. estese la sua attività nella provincia barese e nella stessa città di Bari. In un articolo su L'Internazionale (22 nov. 1913), dal titolo Socialismo e sindacalismo, tracciò un primo bilancio, venato di significativi rilievi polemici, contro i "riformisti" che legavano "i lavoratori al carro del politicantismo", cosicché nelle zone da loro dirette, come ad Andria, "tutti gli eccidi sono successi in periodo elettorale", mentre "nelle zone sindacaliste, ove i lavoratori ... esplicano l'azione rivoluzionaria, ch'è innata in loro, direttamente contro i padroni e lo Stato, intaccano in modo evidente il profitto capitalistico a vantaggio del proletariato". Entrato nel direttivo provinciale della Camera del lavoro di Bari nel maggio del '14, guidò lo sciopero degli edili per la giornata di otto ore. Da un'altra sua corrispondenza a L'Internazionale (6 giugno 1914), a proposito di quest'ultimo, emergono i connotati di un sindacalismo il cui contesto sociale e civile non garantisce alcuna forma articolata di mediazione e quindi rimane legato ai principî dell'azione diretta e all'uso più elementare dello strumento contrattuale.
Seguirono di lì a poco gli avvenimenti della settimana rossa che lo costrinsero a riparare a Lugano, dove incontrerà altri dirigenti sindacali sfuggiti all'arresto. Durante i dieci mesi di quel primo esilio gli sarà di guida, in un'intensa serie di letture, G. De Falco, sindacalista rivoluzionario, già segretario della Camera del lavoro di Bari, legato al De Ambris, più tardi capo redattore della rivista fascista Utopia.
Nel 1913, su La Gioventù socialista di Parma e su La Scintilla di Ferrara, il D. aveva scritto un appello ai soldati, in linea con le sue posizioni antimilitariste, che gli era valso una condanna alla reclusione mentre era in Svizzera. Tornato in Puglia, a seguito dell'amnistia del gennaio 1915, dinnanzi al mutare di atteggiamento dei sindacalisti rivoluzionari sul tema dell'intervento, il D. mostrò alcune prime perplessità in una lettera su L'Internazionale (24 apr. 1915), poi abbracciò la tesi interventista in un articolo su Il Popolo d'Italia del 18 giugno 1915.
Ma sarà presto un'amara delusione. Arruolato, gli vennero contestati i suoi scritti antimilitaristi e venne assegnato al 1º reggimento bersaglieri: durante l'offensiva del 1916, sull'altipiano dei Sette Comuni, alle pendici del monte Zebio, venne gravemente ferito e dichiarato inabile alle fatiche di guerra. Rimase sotto le armi come sorvegliato speciale, prima a Roma, poi in Sardegna, nella compagnia di disciplina della Maddalena e, dopo una breve licenza, a Palermo, infine nel fortino di Porto Badia, ultimo presidio italiano della Cirenaica, dove strinse amicizia con V. Bibolotti, anch'egli lì internato, e dove vennero raggiunti dalle prime notizie della rivoluzione d'ottobre.
Quando il D. riprese il suo posto come segretario della Camera del lavoro di Cerignola nell'inverno del 1919 la vita sociale e politica pugliese si era, col dopoguerra, profondamente modificata.
Il problema della disoccupazione era divenuto più grave, come pure nuove erano le agitazioni per il caroviveri, tipiche di quegli anni, ma pressoché sconosciute in un contesto prevalentemente agricolo. Il problema della "socializzazione" delle terre si proponeva poi in termini ambigui, ma più concreti che per il passato. Esso anzi si presentava come potenziale fattore di divisione tra gli ex combattenti e gli altri contadini, di cui l'Unione ex combattenti costituiva un pericoloso punto di aggregazione. Le forme di lotta acquistavano così altre valenze rivendicative ed organizzative. Si ebbero le prime occupazioni dei latifondi e la pratica del lavoro "arbitrario", una sorta di imponibile di manodopera imposto dalle leghe agli agrari. Si organizzarono leghe proletarie, "dei soli soldati, prive di ufficiali" (Pistillo, I, p. 181), lavoro nel quale il D. si impegnerà in modo particolare, fino al convegno (gennaio 1920) di San Severo delle sezioni e dei gruppi della Lega nazionale proletaria mutilati e reduci di guerra.
La dimensione dei problemi acquistava lineamenti nuovi di "politicità". L'azione sindacale infatti non poteva più dirsi semplicemente "diretta", poiché doveva darsi obbiettivi politici, riguardo all'occupazione, concernenti opere pubbliche, interventi a sostegno di determinate culture, e riguardo alla socializzazione delle terre, rivolti necessariamente oltre il crinale dell'iniziativa legale, preconizzando livelli di scontro più ampi di quelli sindacali.
Rispetto a questi problemi il tema dell'"unità" delle organizzazioni proletarie, così come venne ponendoselo il D. in quegli anni, era una condizione necessaria, anche se non sufficiente. Nel III congresso dell'Unione sindacale italiana del dicembre 1919 il D. fu correlatore insieme con C. Bonazzi sul tema Situazione proletaria e unità (in Guerra di classe, 7 genn. 1920). A differenza di quest'ultimo, si pose chiaramente l'interrogativo "se questa lotta contro l'iniqua politica dei riformisti non si possa condurre anche dentro le masse confederate che sono migliori dei loro dirigenti" e propose un o.d.g., che il congresso respinse a maggioranza, in cui si suggeriva che venissero costituiti "dei comitati locali, raccogliendo tutti i lavoratori nella direttiva della lotta di classe, facendo capo tutti questi comitati ad un ente nazionale". Per quanto inadeguata, era una prima ipotesi per uscire dalla frammentazione delle iniziative e degli sforzi organizzativi, anche se soprattutto i fattori politico-ideologici venivano sottovalutati e la "direttiva della lotta di classe", pur non essendo più solo una discriminante sociostorica, perché ormai anche per il D. proiettata nella scia della rivoluzione russa (nel '19 fu organizzatore delle manifestazioni di solidarietà con la nuova Repubblica dei Soviet), mancava ancora di un'idea propriamente politica.
Anche per le lotte agrarie in Puglia, il 1920 fu l'anno cruciale in cui allo sviluppo massimo del movimento contadino si accompagnò l'aggregazione dei fattori che dettero luogo alla svolta reazionaria. Tra la seconda metà del 1920 e i primi mesi del '21 il movimento fascista si organizzò su vasta scala, si strutturò in gruppi e formazioni armate, si dette degli organi direttivi. Già tra l'ottobre e il novembre del 1920 esso fu costituito in una serie di centri importanti della Puglia. Nel frattempo l'azione sindacale su tutto l'arco dei suoi temi, dai patti agrari all'occupazione e al carovita, aveva la sua massima estensione, pur conseguendo pochi concreti risultati. Proprio nell'ottobre le elezioni amministrative avevano consacrato questo sviluppo del movimento contadino: solo nel Foggiano il partito socialista aveva prevalso in 30 amministrazioni su 54.
Quello che doveva segnare definitivamente la svolta era il passaggio, nei primi mesi del '21, allo scontro di classe diretto fuori da qualsiasi cornice legale. L'azione delle organizzazioni contadine perse la sua forma rivendicativa e intenzionalmente rivoluzionaria, per convertirsi in quella sempre più elementare di resistenza. Come si legge in un o.d.g. della Camera del lavoro di Cerignola, diretta dal D., del febbraio 1921, l'avvenuto sciopero generale "per noi rivestiva solo carattere di protesta" (Pistillo, I, p. 199). La china iniziava ad essere discendente, mentre si acuivano tutte le divisioni interne alle organizzazioni sindacali e politiche. La combinazione sincronica di terrorismo fascista e di repressione degli organi statali incominciava a togliere i margini di possibile esistenza a un movimento contadino che continuava a muoversi a cavallo della legalità, in condizioni di progressivo isolamento politico. Numerose camere del lavoro furono incendiate: il 20-21 marzo anche quella di Cerignola; molte amministrazioni socialiste furono costrette a dimettersi, centinaia di militanti vennero contemporaneamente denunciati e arrestati.
Il D. fu arrestato e tradotto nelle carceri di Lucera il 10 apr. 1921. Nella mattinata aveva partecipato al primo congresso provinciale per la Capitanata del Partito comunista d'Italia, portando il saluto della sua Camera del lavoro e dando "dei consigli circa la tattica da seguire" contro le azioni fasciste (Allegato, p. 117). Durante la detenzione si pose il problema della sua candidatura per le elezioni della Camera dei deputati del maggio 1921. Per quanto riluttante ad assumere quell'impegno, fu sollecitato a ciò da numerose strutture sindacali. Le sue simpatie inclinavano per la lista comunista, sebbene intendesse mantenere la sua indipendenza, il che non era in sintonia con i rigidi precetti del partito di Bordiga. Accettò la candidatura nelle liste del PSI, "alla condizione espressa che non gli si chiedesse l'iscrizione a detto partito né prima né dopo l'elezione" (Pistillo, I, p. 203) - Malgrado il clima di illegalità in cui si svolse la campagna elettorale in Puglia (ad es. Cerignola era dominata dalle squadre di Caradonna e su 10.000 aventi diritto votarono solo 3.000 elettori), il D. venne eletto con ampi suffragi. La sua elezione e quella di Faggi posero dei problemi all'interno dell'USI, per il principio di incompatibilità che vigeva in quella organizzazione, che egli risolse con una dichiarazione in cui si impegnava a "non fare il deputato". In effetti svolse una scarsa attività parlamentare sebbene si iscrivesse come indipendente al gruppo del PSI e facesse parte della commissione Lavoro e previdenza sociale.
Riprese invece subito l'attività sindacale in Puglia e nel giugno del 1921 divenne segretario della Camera sindacalista di Bari. Si adoperava per unificare il suo organismo con quello confederale. Il D. tornava ad impegnarsi sul tema dell'"unità", che ora aveva una valenza ulteriore e preminente, quella della resistenza. Per quanto le aggressioni fasciste determinassero una necessaria nuova spinta in questa direzione, il sempre più accentuato scontro politico ed ideologico che attraversava le organizzazioni del movimento operaio rendeva nel contempo più difficili le iniziative, sia a livello nazionale sia locale, volte a questo scopo. Si deve in larga parte al D. il grado elevato di unità di azione che le organizzazioni pugliesi seppero tenere in quei frangenti (Colarizi, p. 208).
Egli prendeva, anche a questo fine, le distanze dal dibattito interno dell'USI. Nel Comitato centrale di questa organizzazione, dell'ottobre del 1921, si profilava la contrapposizione tra due tendenze, una "sindacalista pura" ed una più politica, facente capo all'anarchico A. Borghi. Il dissenso del D. con quest'ultimo, in sede nazionale verteva sul mantenimento dell'adesione dell'USI all'Internazionale dei sindacati rossi, l'internazionale sindacale leninista a cui gli anarchici si opponevano, in sede locale sulla strumentalizzazione settaria dell'organizzazione sindacalista, fino a dichiarare "autonoma" la Camera barese che dirigeva, in occasione di un giro di propaganda del Borghi in Puglia nel maggio del 1922.
Ma ugualmente distante ormai era il D. da posizioni di sindacalismo puro. Nei mesi che andavano dall'ottobre 1921 all'agosto 1922, in cui si verificava il definitivo smantellamento dell'organismo sindacale pugliese ad opera dello squadrismo fascista, la sua posizione era sempre di più "autonoma" e "unitaria". Nella sostanza condivideva i presupposti della politica sindacale del PCdI, di entrismo nella CGdL e di unità proletaria, senza compiere tuttavia scelte politiche che rimanevano estranee alla sua esperienza di militante sindacale. Si impegnò a fondo per dare concretezza nella realtà pugliese all'Alleanza del lavoro, che nel febbraio 1921 aveva visto confluire su di "un piano comune di azione difensiva" la CGdL, l'USI, l'Unione ital. del lavoro, il sindacato ferrovieri e la Federazione nazionale dei porti. Per sua iniziativa si costituì a Bari il comitato provinciale dell'Alleanza con l'adesione della locale Federazione dei legionari fiumani.
Ma l'azione effettiva di resistenza, malgrado gli sforzi, riusciva sempre più debolmente a contrastare l'iniziativa delle squadre fasciste, e le sue ultime manifestazioni di rilievo saranno lo "sciopero legalitario" del luglio 1922 e la riuscita difesa della Camera del lavoro di Bari nell'agosto seguente, prima che il dominio fascista si estendesse a tutta la Puglia.
Il D. aveva trasferito la sua famiglia a Roma (si era sposato nel 1919 con Carolina Morra e aveva avuto due figli, Baldina e Vindice; si risposerà con Anita Contini), ma il distacco dalla sua terra gli era difficile. Tra l'ottobre ed il dicembre del 1922, quando gli incontri romani per il patto di pacificazione sembravano poggiare su una manifesta intenzione politica di Mussolini di mantenere aperto il rapporto con l'insieme delle forze politiche, cercò di tenere dietro a tutte le possibili iniziative che riaprissero spazi di azione anche a livello locale.
Si pronunziava per una adesione della sua Camera del lavoro "ad un movimento sindacale eventualmente capitanato da Gabriele D'Annunzio" (in Umanitas, 19 nov. 1922), intratteneva rapporti anche epistolari con esponenti pugliesi del sindacalismo fascista (Colarizi, p. 291). Ma già nel dicembre, scrivendo ad uno di questi, non si nascondeva il definitivo venir meno di queste ultime angosciose illusioni: "non so portare la maschera della menzogna", concludeva, e poiché "al mondo vivono migliaia di uomini lavorando alla giornata, così lavorerò anch'io" (Pistillo, I, p. 230).
Nei primi mesi del 1923 intensificava la sua partecipazione all'attività del gruppo socialista, come risulta dalle cronache parlamentari dell'Avanti! e dalla sua stessa collaborazione a questo giornale. 1 terrii erano quelli della politica agraria, in cui egli cercava di costruire una documentata linea di opposizione al governo Mussolini. L'11 giugno interveniva per la prima volta alla Camera, riprendendo questi argomenti. Nel settembre si iscriveva al PSI su posizioni terzinternazionaliste, su cui del resto era attestata gran parte della federazione socialista barese.
In un suo scritto di qualche anno dopo, quella iscrizione avrebbe fatto parte di un piano, a cui egli diede la sua adesione, della frazione "terzina", per neutralizzare con il suo nome l'influenza degli oppositori, in particolare la maggior figura tra essi, quella di Vella, con lo scopo ultimo di una massiccia confluenza nel PCdI (Detti, p. 402; Pistillo, I, pp. 235 s.). Non risulta tuttavia che egli prendesse contatti con i comunisti fino ai primi del 1924.
Verso la fine di gennaio di quell'anno tornò a Bari "per accordarsi con i suoi compagni circa la preparazione del convegno circoscrizionale socialista (Avanti!, 10-11 febbraio), ma i fascisti imposero in prefettura la sua immediata partenza. Il 15 febbraio l'Avanti! dava notizia che il D., insieme con altri cinque deputati della frazione terzina, aveva lasciato il gruppo parlamentare; lo stesso fece l'Unità, col titolo Di Vittorio è coi i terzinternazionalisti, aggiungendo che "egli ha manifestato il suo parere fervidamente favorevole alla alleanza elettorale politica fra socialisti e comunisti". Si presenterà in effetti candidato in Puglia nelle liste del PCdI. Nell'ordine di preferenze veniva indicato al terzo posto, cosicché nell'unico seggio conseguito si succedettero C. Giorgio e R. Grieco.
Nell'agosto del 1924, dopo la dichiarazione di scioglimento della frazione terzina, il D. confluì, insieme con altri, nel PCdI. Del periodo che precedette la sua iscrizione al partito comunista sono importanti tre articoli, il primo apparso su Pagine rosse (16-30 aprile) e gli altri due su l'Unità (1° e 11 giugno 1924), che costituiscono in qualche modo il consuntivo della sua evoluzione politica in quegli anni.
Da questo punto di vista si può, parafrasando alcune sue espressioni, dire che aveva cessato di "lavorare alla giornata" e la sua riflessione non era più quella di un militante rivoluzionario "innato", ma "professionale". Già il tema del Mezzogiorno nella politica nazionale aveva acquistato un'organicità di argomentazione il cui cemento era indubbiamente quello della concettualizzazione gramsciana, dal blocco sociale "storico"), ai motivi della radicalizzazione dello scontro di classe che lo favoriscono nel lungo periodo, al ruolo che il fascismo veniva svolgendo in questo processo, alla necessità di aggregare assieme al salariato agricolo le altre figure di "contadini poveri" in un'unica direttiva di lavoro politico ed organizzativo, tema che si troverà di lì a poco ad approfondire con Grieco. Ma c'è inoltre pienamente sviluppata la nozione leninista del partito e il rapporto di esso con il sindacato. Ed è proprio in virtù della piena sussunzione del partito come soggetto rivoluzionario che egli può coerentemente dichiarare che "la vecchia tipica organizzazione sindacalista è morta". Rispondendo a un vecchio militante dell'USI, poneva un interrogativo che doveva essere stato il suo nei lunghi mesi precedenti, sotto l'incalzare del regime fascista: "nei gruppi di avanguardia anziché agire isolatamente e quindi in modo inorganico, non è meglio che siano inquadrati in un organismo nazionale ed internazionale che li conduca alla lotta uniti ed in base ad un piano coordinato, capace di condurre il proletariato alla vittoria?".
La parola d'ordine dell'Internazionale comunista era "governo operaio e contadino", che Granisci aveva reso nella formula, più ricca di valenze, "repubblica federale degli operai e contadini", su cui a lungo si sarebbe aggirato il dibattito interno del partito comunista in Italia. La politica agraria e le stesse tesi sul Mezzogiorno si collocavano in questa prospettiva. Nell'agosto del 1924 il PCdI costituiva anche in Italia una sezione agraria, sotto la direzione di Grieco, della quale il D. veniva chiamato a far parte; nell'ambito di essa venne promossa una Associazione di difesa dei contadini meridionali la cui segreteria gli veniva affidata.
Egli era in questo periodo uno dei più stretti collaboratori di Grieco nel tentativo di imbastire una politica organica verso il mondo contadino. Lavorava anche con G. Miglioli, dopo l'adesione di questo al Krestintern, per allargare i contatti con le varie espressioni regionali del partito dei contadini; si dedicava, con vari articoli su l'Unità, a una puntuale denuncia della politica agraria fascista. Curava in particolare il lavoro organizzativo dell'Associazione dei contadini, il cui organo di stampa era Il Seme, che non si poneva obbiettivi di azione sindacale, ma di difesa e indirizzo dei contadini, cercando di ampliare l'adesione ad essa non solo tra i salariati, ma anche tra le figure miste dei piccoli proprietari, mezzadri, affittuari, giusta l'analisi e le direttive elaborate da Granisci, in polemica con la vecchia impostazione sindacale riformista, e seguiva i difficili rapporti di collisione, se non di scontro, con la Federterra e la CGdL.
I comunisti si attenevano in questo periodo fermamente alla linea di non provocare fratture nelle vecchie organizzazioni sindacali, ma nel contempo cercavano di sostituire, con la loro iniziativa, il progressivo esaurirsi della capacità di azione politica di queste. Del gennaio del 1925 è il tentativo di ricostruire le camere del lavoro di Foggia e Bari, e il D. assunse la segreteria provvisoria di quest'ultima. Nel maggio si tenne in Puglia, su iniziativa comunista, un convegno regionale sindacale a cui partecipò anche il D.; si ricostituirono anche le camere del lavoro di Lecce e Taranto. Risultati più che altro nominali: il lavoro organizzativo fino all'agosto era intenso, ma con carattere sempre più clandestino. Il 13 settembre il D. venne arrestato e fu rilasciato solo nel maggio del 1926. Non partecipò così al congresso di Lione del PCdI e non entrò nel nuovo Comitato centrale che del gruppo dei terzini vide rappresentanti i due maggiori esponenti, G. M. Serrati e F. Maffi. Uscito dal carcere riprese la guida dell'Associazione dei contadini; erano gli ultimi tenaci sforzi dei comunisti di tenere in piedi l'organizzazione legale ed erano già un ponte verso quella clandestina. Nella ventata di arresti del novembre 1926 anche il D. fu ricercato per essere assegnato al confino di polizia per quattro anni (nel marzo 1927 il Tribunale speciale lo condannerà in contumacia a dodici anni di carcere e due di confino). Riuscì a sfuggire all'arresto e nel febbraio 1927 raggiunse Parigi.
In Francia il D. (come militante clandestino assunse allora il nome di Nicoletti) fu assegnato dal suo partito all'organizzazione dei comitati proletari antifascisti che inquadravano i militanti e simpatizzanti comunisti nelle file dei lavoratori emigrati. Lavoro nel quale si rese particolarmente prezioso, se nel marzo del 1927 Grieco, per conto del centro estero, si giustificava con la segreteria del Krestintern che aveva insistentemente richiesto la presenza del D. a Mosca, sottolineando che "il nostro partito non ha potuto consentirgli di allontanarsi dal suo attuale lavoro", perché "l'emigrazione italiana non può essere trascurata" (Pistillo, II, p. 96). Tuttavia nell'agosto di quell'anno, in concomitanza con le manifestazioni di protesta che seguirono la notizia dell'uccisione di Sacco e Vanzetti, essendo stato assassinato il console italiano a Parigi, il D. venne sospettato, pur senza alcun fondamento, d'esserne stato il mandante; ricercato dalla polizia francese, dovette riparare a Bruxelles e da qui, nel gennaio 1928, raggiungeva Mosca.
Nell'ambito del Krestintern svolse un ruolo abbastanza marginale: seguì probabilmente il lavoro dei contadini comunisti in alcuni paesi europei.
L'organizzazione del resto era già in crisi. Dopo che nel 1926 si erano esaurite le aspettative rivoluzionarie nei riguardi dei movimenti contadini in Europa e che nella stessa URSS la svolta staliniana mutava integralmente l'impostazione, sia ideologica, sia politica del problema (Jackson, p. 128), l'organizzazione era divenuta una mera appendice dell'Internazionale, sostituita da altri strumenti come il Comitato contadino europeo, al cui lavoro di preparazione il D. certamente partecipò, presenziando al congresso costitutivo che si tenne a Berlino nel marzo del 1929.
A Mosca partecipò, quale componente della delegazione italiana tra il luglio e il settembre 1928, ai lavori del VI congresso del Komintern (Ragionieri) e si applicò anche ad altre attività organizzative e di propaganda, facendo parte con Misano, Gennari e Miglioli per l'Italia, del Soccorso operaio internazionale e delle sue iniziative di difesa e aggregazione antifascista. Ma, soprattutto, scrisse due opuscoli su Il fascismo contro il contadino - l'esperienza italiana (cfr. Tatò), puntiglioso e documentato quadro della politica agraria fascista, e I contadini e la guerra (Pistillo, II, pp. 316 ss.), tipica esercitazione nello stile della propaganda pacifista sovietica: ebbero ambedue larga diffusione, tradotti in più lingue.
Nel frattempo il D. era stato cooptato nel Comitato centrale come membro supplente (giugno 1928). Nella lotta contro i nre" (Tresso, Leonetti, Ravazzoli) si schierò sulle posizioni di Togliatti. Con il Comitato centrale che si tenne a Liegi il 20 marzo 1930 e che segnò la prima condanna del gruppo minoritario, il D. ne divenne membro effettivo insieme con Frausin, Germanetto, Santhià e Dozza (Spriano, II, p. 254). Nel maggio veniva anche cooptato nel direttivo della CGL. Qualche mese dopo non sarebbe mancata anche qualche polemica personale (si veda l'articolo di Leonetti, Nicoletti le massimaliste koulakisé, in La Verité, 3 ott. 1930), a cui egli si limitò a rispondere puntualmente (Pistillo, II, p. 112).
L'espulsione di Ravazzoli aveva aperto il problema della direzione della CGL che, dopo lo scioglimento del gennaio '26, i comunisti avevano ricostituito, in contrapposizione alla CGdL in esilio, aderente alla Federazione sindacale internazionale con sede ad Amsterdam., guidata da B. Buozzi, per cui il D. veniva richiamato da Mosca nell'ottobre del 1930.
Il D. assumeva la direzione della CGL in un momento assai difficile. Le direttive del Komintern, con la parola d'ordine della lotta al "socialfascismo", rendevano poco praticabile una politica di influenza attraverso larghe intese. Diveniva tra l'altro stringente il problema dell'adesione all'Internazionale rivoluzionaria sindacale (IRS), di osservanza terzinternazionalista, che era stata fino ad allora rinviata, per non sancire implicitamente, con un'aperta contrapposizione verso l'Internazionale di Amsterdam, un principio di legittima continuità dell'organismo confederale diretto da Buozzi. C'era poi il problema dell'organizzazione clandestina, che era stato uno dei temi di più accesa polemica, anche se non quello più importante, nel dibattito interno al partito, conclusosi con l'espulsione dei "tre".
Questa polemica aveva principalmente riguardato l'organizzazione del partito, ma anche quella sindacale era stata chiamata in causa. Ora, poiché la tesi della maggioranza era stata quella di una vigorosa ripresa dell'azione clandestina, rafforzando al massimo tutte le forme di organizzazione e di propaganda, il problema diveniva quello di dar corpo a questa impostazione ponendosi nel contempo l'obiettivo di diversificare il lavoro sindacale da quello più propriamente politico e per questa via evitare chiusure di tipo settario che, nell'azione clandestina, potevano essere un contraccolpo naturale della linea politica scelta dall'internazionale comunista.
La "svolta" ebbe luogo nel corso della III conferenza della CGL che si tenne a Zurigo nell'agosto del 1930, alla vigilia del V congresso dell'IRS. Sono a questo proposito importanti due scritti del D. pubblicati su Stato operaio, il primo dal titolo Il Congresso dei sindacati rossi (IV [1930]), in cui, pur non discostandosi dalla stretta griglia dell'ortodossia del momento e dichiarando l'adesione della CGL all'IRS, si compiva un tentativo di delineare una nattica" per un "fronte unico di classe", verso i militanti della socialdemocrazia, distinguendo tra apparati centrali, "intimamente legati allo Stato borghese" e sindacati regionali, o locali, aderenti alle centrali riformiste e si muovevano caute aperture verso le formazioni confessionali e cattoliche, rispetto a cui ci si dichiarava convinti che "la rottura ... incomincerà non sul terreno ideologico, ma su quello della lotta di classe". Più importante ancora il secondo articolo su Il lavoro di massa del PCI (ibid., IV [1930]) in cui si tracciava la distinzione operativa tra partito e sindacato e si individuava in quest'ultimo "lo strumento principale del partito per il lavoro di massa", onde la cellula "nella cui officina non esiste ancora il gruppo sindacale ... è una cellula che non svolge ancora un lavoro di massa".
L'azione sindacale diventava così il primo fronte attraverso il quale il partito doveva saper cogliere tutte le occasioni per proiettarsi all'esterno, far sentire costantemente per questa via mediana la guida del partito comunista, vuoi nelle agitazioni che sporadicamente si manifestavano anche nel controllato contesto del regime (gli episodi più significativi erano le agitazioni delle mondine nel 1928 e i moti di Puglia nel 1929), vuoi nelle discussioni all'interno delle stesse organizzazioni sindacali fasciste, rispetto a cui l'invito era quello di saper cogliere tutti gli spazi semilegali che esse potevano offrire.
Temi questi alla cui calibratura non dovette essere estraneo il consiglio di Togliatti, che in seguito tornerà più volte sull'argomento. Stato operaio e Battaglie sindacali, il periodico della CGL, del resto, testimoniano la grande applicazione dei comunisti, in quel giro di anni, ai temi sindacali, il tentativo costante di dare un quadro puntuale dell'evolversi della situazione economica e sociale italiana, dopo la grande crisi, approfondendo anche gli aspetti tecnicoproduttivi, rispetto a cui rimane significativo l'articolo del D. sul sistema Bedaux (Il nuovo piano di attacco contro la classe operaia italiana, in Stato operaio, VI [1932]).
Il risultato di questa impostazione fece probabilmente conseguire ai comunisti la certezza, come nota più tardi un bilancio scritto dal D. (Il lavoro di massa del partito comunista dal VI al VII Congresso dell'I. C., ibid., IX [1935]), di aver capovolto il rapporto di influenza tra i lavoratori rispetto ai socialisti. Ma il prezzo pagato fu molto alto e il 1933 fu "un anno che fornisce il quadro nettissimo di una nuova crisi organizzativa" (Spriano, II, p. 398). La linea del "fronte unico dal basso", con la massima valorizzazione del sindacato come strumento di organizzazione di massa, restava inoltre assai povera di contenuti politici.
L'avvento di Hitler, la feroce repressione di Dollfuss, l'avanzata del movimento fascista in tutta Europa, specie in Francia, determinarono quel lento mutamento di indirizzi che il Komintern doveva ratificare nel suo VII congresso del luglio 1935. I comunisti italiani furono tra i più cauti a percorrere questa nuova strada; bisognerà aspettare il luglio del 1934, quando in Francia l'accordo tra il Parti communiste français e il partito socialista (Section francaise de l'Internationale ouvrière) era già stato perfezionato, per avere una brusca inversione di rotta e quell'apertura al PSI che doveva rapidamente portare al patto d'unità d'azione dell'agosto seguente.
L'organizzazione sindacale si adeguò alla nuova "svolta" ancora più lentamente. Nel Comitato centrale comunista del marzo 1935 il D. svolse un primo organico intervento sulla necessità di procedere all'unificazione delle due organizzazioni confederali, che il Comitato direttivo della CGL ratificò nel luglio seguente.
Il "lavoro di massa" prosegui, del resto, pur tra crescenti difficoltà, sui binari precedenti, anzi si accentuò la linea entrista nei sindacati fascisti, secondo la parola d'ordine "libertà nei sindacati, nei fasci, nei comuni, la CGL deve presentarsi come un centro di studi dei problemi sindacali" (Pistillo, II, p. 159), che solleverà in seguito numerose critiche interne e che contrastò nettamente con i giudizi di Buozzi e della sua organizzazione.
Le trattative con quest'uffinia si trascineranno lungo tutto il corso del 1936 e solo nel marzo 1937 si trovarono le basi di un accordo, che accoglieva la pregiudiziale di Buozzi circa l'adesione alla FSI e definiva i rapporti negli organi direttivi in termini paritetici. Ma già nel novembre 1936 il D. aveva raggiunto il teatro di guerra in difesa della Repubblica spagnola. L'accordo non ebbe modo di concretizzarsi formalmente. Necessariamente come momento dell'organizzazione di massa il sindacato era un primo fronte, come soggetto politico, una retroguardia.
Il D. rimase in Spagna cinque mesi e rientrò a Parigi nell'aprile del 1937, gravemente malato (Schiapparelli, p. 157). Partecipò a numerose azioni di guerra come commissario politico della XI brigata internazionale. Svolse un'intensa attività di propaganda politica. "Accompagnava spesso le delegazioni straniere e partecipava ai comizi popolari dove i madrileni accorrevano ad ascoltarlo ed applaudirlo. Era diventato rapidamente, infatti, il portavoce riconosciuto delle Brigate internazionali ... Parlava in italiano, ma tutti lo comprendevano" (Vidali).
Quando riprese il lavoro politico in Francia, poté continuare a mettere a frutto quella sua straordinaria dote di comunicazione, che si esprimeva nei comizi come nei rapporti personali. Entrò nella redazione de La Voce degli italiani, l'organo dell'Unione popolare italiana, l'organizzazione unitaria dei partiti antifascisti italiani che, nel clima dei fronti popolari e antifascisti, si era costituita a Lione nel marzo del 1937, volta soprattutto ad influenzare l'emigrazione italiana in Francia. Nel novembre il D. ne divenne direttore al posto di E. Gennari: fu per lui una stagione di intensa attività giornalistica e di iniziative propagandistiche in tutta la Francia.
La mobilitazione contro la guerra, la denunzia dell'alleanza nazifascista, la difesa della Spagna repubblicana erano i temi politici ricorrenti. Malgrado le polemiche che attraversavano l'Unione popolare italiana, mosse dalla preoccupazione delle altre forze antifasciste per un'eccessiva egemonia comunista su quell'organismo, il D. seppe tenere tesi i toni della politica unitaria. Con il crollo della Repubblica spagnola e le voci sempre più insistenti di un'imminenza della guerra, ai primi del '39, si pose all'interno dell'UPI il problema di un eventuale arruolamento di emigrati italiani a fianco della Francia, che apriva complesse questioni di direzione e propaganda anche per il partito comunista.In quei frangenti Longo assunse, insieme con Buozzi, la presidenza dell'UPI e il D., che era entrato nell'ufficio politico del partito come direttore de La Voce degli italiani, venne incaricato con Grieco, Berti e Roasio della direzione del centro estero. Furono quelli, del resto, gli ultimi conati della politica unitaria prima del patto di non aggressione sovietico-tedesco (agosto 1939), il cui contraccolpo fu molto forte, nei rapporti tra le forze antifasciste e all'interno del partito comunista, ove si svolse un'amara discussione, a cui fece da sfondo la vasta operazione di arresti del governo francese (in settembre venne arrestato anche Togliatti).
Da numerose testimonianze risulta che "la posizione di Di Vittorio..., se non arrivava alla condanna del patto tedesco-sovietico, si avvicinava a quella della adesione alla guerra condotta dal governo francese" (Amendola, p. 11). Quando Togliatti, uscito dal carcere, farà rinnovare l'ufficio estero, non risulta che il D. partecipasse più alle sue riunioni.
Avrebbe dovuto seguire Berti negli Stati Uniti. Resasi impossibile questa prospettiva, si rifugiò a Bruxelles per qualche mese, ma dopo l'occupazione nazista tornò a Parigi, in una situazione di apparente isolamento dal nuovo centro estero. Da una testimonianza di Negarville apprendiamo che "Peppino è ancora qui e non vediamo come potrà andarsene. Sul suo orientamento politico ... abbiamo l'impressione che, in fondo, egli pensi che l'URSS tarda troppo ad intervenire a fianco dell'Inghilterra! Naturalmente queste cose non le dice apertamente, perché egli ha imparato a controllarsi un po' di più che in passato, ma le lascia intendere. Egli non fa praticamente nulla e di questo si lagna" (Pistillo, II, pp. 205 s.). Ma il 10 febbr. 1941 il D. venne arrestato. Verso la metà di luglio era trasferito in Italia e deportato a Ventotene, che lascerà solo il 22 ag. 1943.
In una delle sue prime dichiarazioni pubbliche, dopo la sua liberazione, il D. mostrava l'intenzione di stabilirsi in Puglia (La Gazzetta del Mezzogiorno, 29 ag. 1943). Ancora nell'inverno del 1944 parlerà di una sua destinazione alla segreteria della Camera del lavoro di Bari. Il partito comunista aveva assegnato a G. Roveda il compito di rappresentarlo nelle trattative sulla questione sindacale. Questi era fuggito da Ventotene nel febbraio del 1943 e in quei mesi, a cavallo del 25 luglio, già si erano delineate le diverse posizioni di comunisti, socialisti e cattolici, che dovevano caratterizzare poi tutta la lunga trattativa per la stesura del "patto di Roma" che diede vita alla CGIL unitaria.
Un'intesa di massima si era realizzata tra Buozzi e D'Aragona da un lato e A. Grandi dall'altro per un sindacato unico e obbligatorio organizzato verticalmente su base categoriale, a cui i comunisti, consapevoli della loro maggior forza reale e potenziale, contrapponevano il tradizionale schema associativo prefascista in chiave unitaria.
Quando Buozzi, nell'agosto del '43, trattò con L. Piccardi il commissariamento dei sindacati fascisti, chiese ed ottenne che Roveda fosse suo vice assieme col democristiano G. Quarello al sindacato dell'industria e che il D. fosse designato per l'organizzazione bracciantile. Il D. quindi, quale che fossero i progetti del suo partito, si trovò coinvolto a fianco di Roveda nelle trattative del "patto di Roma". Il primo organico promemoria del PCI sulla questione sindacale, che già contiene tutti gli elementi fondamentali della posizione comunista, fu scritto, probabilmente con la collaborazione del D., da Roveda. Ma il 21 dicembre questi veniva arrestato e i "rapporti" seguenti sulle trattative per il "patto di Roma", stesi per il gruppo dirigente romano del PCI, portano la firma del Di Vittorio (Pistillo, II).
La trattativa fu complessa, segnata dall'intransigenza di Buozzi nel difendere le sue tesi, in larga parte coincidenti con le preoccupazioni del gruppo dirigente democristiano. Dopo l'assassinio dell'esponente socialista la trattativa prese come base di discussione le tesi comuniste, non facendo i socialisti più nessuna opposizione ad esse. Da parte democristiana, oltre la libertà religiosa e la "apoliticità" che si convertì nell'ambigua formula della "apartiticità", si insistette per mantenere aperti spazi associativi extrasindacali, che diedero poi subito luogo alla fondazione delle Associazioni cristiane lavoratori italiani, e sull'organizzazione contadina, chiedendo in un primo tempo l'inserimento in essa anche dei coltivatori diretti, poi accettando la loro autonoma configurazione, a cui seguì di lì a poco la creazione della Coldiretti.
Il "patto di Roma", firmato il 9 giugno 1944, fu accolto dalla dirigenza comunista (e non solo da essa) non senza critiche, specie al Nord, per il suo carattere "verticistico" e per l'assenza di proposizioni politiche e programmatiche, ma comunque come un buon successo tattico, il cui merito andava in gran parte al D., che si insediava al vertice della confederazione assieme a Grandi ed O. Lizzadri.
Il D. si gettò subito senza risparmio nel lavoro sindacale, con le sue doti tribunizie, le sue capacità organizzative e il suo talento contrattuale. La sua "identificazione" con la CGIL fu subito totale (Pistillo, III, p. 61 n. 1), e l'immagine che egli seppe trasferire al sindacato portava con sé alcuni valori elementari, che ne hanno segnato la storia nei decenni seguenti. Innanzitutto una "primordiale nozione di classe" (Lama, 1977, p. 23). Riguardo a ciò egli non divenne mai compiutamente un terzinternazionalista. Distingueva certo propriamente partito e sindacato, riconosceva la necessaria priorità del disegno politico di cui il partito era il soggetto ordinatore, ma la "classe" conservava, fuori da qualsiasi elaborazione teorica, non solo i suoi connotati sociostorici, ma la sua concreta essenza, come momento di identificazione personale e ideale, come sede primaria di insostituibili solidarietà, da cui il sindacato traeva la sua originaria legittimazione. Era stato un sindacalista rivoluzionario, nei modi che si sono descritti, non era divenuto propriamente un rivoluzionario sindacalista, giacché l'azione sindacale doveva conservare inalterate le modalità sue proprie, poteva subordinarsi a una strategia politica, ma non negare rispetto ad essa la sua peculiare natura. Di qui il rifiuto per qualsivoglia concezione puramente strumentale del sindacato e l'enfasi genuina che egli pose sempre sul problema dell'"unità", di cui conosceva bene l'ambiguità dei presupposti politici, ma, corrispondendo a quella sua "nozione di classe", sapeva fondamento, almeno parziale, dell'autonomia sindacale.
Il "patto di Roma" veniva a costituire una premessa necessaria per la costituzione di un sindacato unitario, ma non ancora di per sé sufficiente. Gran parte delle strutture sindacali erano da costruire; quelle già costituite dovevano essere inquadrate nello schema politico-associativo appena sottoscritto.
Nelle regioni meridionali, dopo l'arrivo delle truppe alleate, si erano andati costituendo nuovi organismi. A Napoli un gruppo di militanti comunisti dissidenti e di azionisti, guidati da V. Russo e D. Gentili, aveva riaperto la Camera del lavoro e dato vita ad un'organizzazione confederale, la Confederazione generale del lavoro, mentre i cattolici, per iniziativa di S. Gava, avevano ricostituito la Confederazione italiana del lavoro. Un'altra organizzazione meridionale si era costituita a Bari nel gennaio '44, in concomitanza con l'assemblea dei partiti antifascisti. Quest'ultima aderì subito alla nuova Confederazione generale italiana del lavoro, così come la CIL di Gava. Più complessa la vicenda, di cui il D. dovette parzialmente occuparsi, della CGL napoletana, il cui assorbimento venne ottenuto attraverso l'emarginazione dei dissidenti comunisti e azionisti, operazione delicata, giacché attraverso di essa veniva implicitamente alla luce la più generale esclusione dei gruppi minoritari "classisti", che era stata una delle conseguenze, non del tutto trascurabili, del "patto di Roma".
Ma delicata era altresì la costituzione delle nuove strutture, là dove non esistevano, a cui il D. si dedicò a fondo, e rispetto a cui entravano spesso in conflitto gli equilibri confederali con le pressioni locali, in particolare dei comunisti. Questo provvisorio assemblaggio dell'organizzazione, preludendo a una prima assise congressuale, che si tenne nel gennaio del 1945 a Napoli, doveva tener conto, in termini di assetti statutari e organizzativi, anche del prossimo ingresso, nelle strutture sindacali, dell'organizzazione clandestina dell'Alta Italia, con la sua peculiare carica politico-ideologica.
Ugualmente significativo l'insieme delle azioni rivendicative che si svilupparono in quei mesi, determinate da una situazione economica sempre più grave e da una forte caduta del potere d'acquisto dei salari. Dall'agricoltura venivano le tensioni maggiori, dove il decreto Gullo, del giugno 1944, sull'assegnazione delle terre incolte, aveva rimesso in moto un antico scontro di classe, mentre sul fronte mezzadrile avanzava la rivendicazione del riparto del prodotto al 60%, che l'anno seguente avrebbe dato luogo, per tutta l'Italia, al 53% del "lodo De Gasperi". Ma anche nei servizi pubblici si diffondeva uno stato di malcontento di cui non era facile controllare tutte le variabili politiche. Vi fu nell'agosto un accordo confederale che istituiva un "premio di liberazione", ma l'azione sindacale tendeva nel complesso alla frammentazione rivendicativa.
Lo stesso fronte confederale non era tranquillo e G. Pastore dichiarava: "per noi trattasi di un bilancio che tende al passivo" (Il Popolo, 8 nov. 1944). La corrente democristiana evidenziava soprattutto una contraddizione emergente nell'azione sindacale, quella di una iniziativa rivendicativa che si modulava da un lato sull'azione diretta, ma dall'altro svolgeva una funzione di contenimento, e dalla sinergia di questi due movimenti tendeva ad aumentare la forza di contrattazione a livello politico dei partiti della Sinistra.
Al congresso di Napoli della CGIL (20 genn-10 febbr. 1945) il D. affrontò nella sua relazione questo insieme complesso di problemi. La parte programmatica era piena di spunti "dirigistici", quali la riforma agraria, la nazionalizzazione delle industrie monopolistiche e l'elaborazione di un "programma nazionale di ricostruzione economica"; quella organizzativa e contrattuale era ispirata ad una forte centralizzazione nell'ambito confederale.
Lo statuto varato dal congresso riflette in modo determinante questa impostazione: si abolivano tassativamente i poteri conferiti nel 1943 alle commissioni interne in materia negoziale; tutti i contratti dovevano essere non solo stipulati, ma anche elaborati dal sindacato territoriale; gli accordi locali dovevano costituire eccezioni perché l'obiettivo di fondo era quello della perequazione tra le diverse situazioni contrattuali; le federazioni nazionali di categoria prima di avanzare rivendicazioni dovevano avere il vaglio della Confederazione; gli "organi dirigenti superiori" non dovevano essere posti dinnanzi al fatto compiuto di movimenti imprevisti. Rigorosamente limitati erano poi gli scioperi nei pubblici servizi (il D. fu sempre contrario a un loro esercizio non rigorosamente controllato).
Anni dopo, introducendo il volume di atti di questo congresso, il D. tornava significativamente sul vecchio dualismo del primo decennio del secolo tra azione diretta e controllo confederale, che aveva diviso i sindacalisti rivoluzionari da un lato e i riformisti della CGdL dall'altro, e gli pareva concettualmente risolto dal nuovo statuto confederale. In effetti il principio dell'azione diretta non era escluso, ma rimaneva fortemente delimitata la sua operatività. A questa direttiva il D. dava una giustificazione strettamente sindacale, preoccupato di conservare l'"unità di classe", attraverso l'azione del sindacato, e rafforzare la stessa natura confederale dell'organizzazione. La centralizzazione contrattuale costituiva infatti una garanzia politica per le minoranze interne e favoriva inoltre un elevato grado di omogeneità rivendicativa, che egli riteneva necessario in quei frangenti storico-politici. Tuttavia veniva così introdotto un vincolo di natura politica, simile, anche se operativamente diverso, a quello del sindacalismo prefascista, giacché una strategia rivendicativa omogenea e centralizzata ha più direttamente come interlocutore privilegiato il governo, e per questa via i rapporti di forza politici tendono facilmente a prevalere su quelli sindacali.
La valenza politica delle lotte operaie del Nord, quando, dopo la Liberazione, dovette essere affrontata dalla Confederazione, veniva necessariamente a collocarsi in questo "groviglio di mediazioni" (Foa, 1980, p. 175). La situazione dell'Alta Italia poneva un problema di potere operaio, con la fuga dei proprietari e le fabbriche gestite da un coacervo di organi diversi, commissari, comitati di liberazione aziendali, consigli di gestione. Ora, una situazione di "potere operaio" richiedeva una gestione politica; quella sindacale era necessariamente di natura diversa: poteva essere un contropotere o una forma di partecipazione.
Tale in effetti fu la linea della CGIL, rispetto a cui le polemiche, anche interne, a cavallo dei governi Parri e De Gasperi, prima del 2 giugno, non ebbero sostanzialmente rilevanza, segnatamente nella questione dei consigli di gestione, anche se col decorrere del tempo, mutando i rapporti di forza sia sindacali, sia politici, le forme si succederanno, dal contropotere, alla partecipazione ed infine ad organi tecnici del sindacato (Craveri, pp. 109 ss.).
Ma soprattutto in quei frangenti lo strumento di azione usato fu quello classico contrattuale. La manovra salariale operata attraverso di esso fu improntata ad una linea di contenimento e normalizzazione delle relazioni industriali e il D. ne fu, da parte sindacale, il principale artefice, anche se l'impostazione di fondo fu in ultima analisi determinata dalla controparte.
Il potere di acquisto dei salari, rispetto al 1938, era precipitosamente caduto e il tasso d'inflazione era molto alto, richiedendo un intervento complessivo sul salario nominale di recupero e di salvaguardia. I principali strumenti di questa operazione furono gli accordi confederali del dicembre 1945 e del gennaio-maggio 1946. Gli istituti chiave di questo disegno contrattuale nell'industria divennero l'indennità di contingenza e la particolare forma di indicizzazione che le era connessa, la tredicesima mensilità, gli scatti di anzianità per gli impiegati e il sistema delle "gabbie salariali", attraverso cui venivano dettagliatamente fissati i differenziali retributivi, per gruppo merceologico e per zona territoriale. Dal punto di vista procedurale la determinazione dei salari diventava di fatto esclusiva competenza della Confederazione, essendo sottratta esplicitamente alle federazioni di categoria, se non per la determinazione dei cottimi (che così implicitamente si reintroducevano), e vincolata per le strutture territoriali dalle gabbie salariali.
L'indice dei salari medi (1938 = 100) salì di più di 1.000 punti. Nel settembre del 1947 era così stabilizzato: 2.500-3.000 nell'industria e 2.000 per i braccianti di contro a 4.700 dell'indice del costo della vita.
All'indomani del 2 giugno 1946 il D., nella sua relazione al comitato direttivo della CGIL, osservava "voi sapete che per un lungo periodo di tempo la CGIL ha lottato per contenere il movimento delle masse, per moderare le rivendicazioni dei lavoratori, per evitare degli scioperi, delle agitazioni. Noi avevamo un obiettivo generale fondamentale e lo abbiamo detto ai lavoratori: dovete risolvere il problema istituzionale e la convocazione della Costituente ... Abbiamo avuto il coraggio di dire questo e anche di litigare con alcuni lavoratori che non erano d'accordo" (Pistillo, III, p. 101).
Ma dopo il 2 giugno gli spazi salariali continuavano a rimanere assai limitati, anche se in un primo tempo le valutazioni della dirigenza sindacale erano state diverse, quando aveva voluto che il nuovo sistema di indicizzazione avesse per riferimento una voce salariale distinta (la contingenza) dal salario base, per salvaguardare il principio di una possibile crescita del salario reale. Ora, poi, sia il Partito comunista italiano sia il Partito socialista italiano di unità proletaria sollecitavano il sindacato ad una maggiore combattività. E che tra le aspettative sindacali e la realtà ci fosse una discrasia lo prova la trattativa sul "premio della Repubblica", che fu erogato con un decreto legge, dopo che la Confindustria si era rifiutata di adire rapidamente ad un accordo.
Il confronto tra le parti sociali era, in quella situazione, triangolare, tuttavia con queste peculiari caratteristiche: il rapporto sia del sindacato sia del padronato con il governo non era in realtà improntato al principio della mediazione e tantomeno della concertazione, su di una comune linea di politica economica, ma piuttosto consisteva in un ambiguo rapporto di alleanza di ciascuna parte con la coalizione di governo in funzione della reciproca contrapposizione e poiché la coalizione era necessariamente su questi temi internamente divisa la divergenza tra le parti sociali si rifrangeva su quest'ultima, e dall'interno di questa a sua volta diveniva ulteriore elemento di divisione tra le componenti politiche che dirigevano la CGIL.
Questo anomalo funzionamento del "triangolo" implicava necessariamente che uno dei lati si indebolisse al punto di rendere stabile l'asse tra il governo e una soltanto delle parti sociali. L'emarginazione del sindacato si giocò in gran parte sul terreno politico, ma ebbe anche una valenza tipicamente sindacale. Il potere operaio che si era manifestato all'indomani dell'insurrezione era rifluito nella gestione sindacale attraverso tre leve classiche d'ogni sistema di relazioni industriali: la politica salariale, di cui si è fatto cenno, la difesa dei livelli di occupazione e il controllo dell'organizzazione del lavoro. Tutte e tre le questioni erano strettamente intrecciate tra di loro, ma il punto nodale fu anche in questo caso quello della difesa dei livelli di occupazione, perché è dalle modalità contrattuali e amministrative che vennero adottate pro o contra ad essa che deriva in gran parte il rapporto di forza tra sindacato e impresa nonché, in termini generali di politica economica, la possibilità o meno di dare corso ad un'eventuale manovra deflattiva.
L'industria, anche nel medio periodo, può gestire a suo vantaggio una fase inflattiva. Così fu in effetti fino alla seconda metà del '47 e il successo conseguito con il licenziamento del ministro Corbino, su cui si incardinò, nell'ultimo scorcio del '46 l'azione della CGIL, fu un passaggio illusorio, perché la manovra defiattiva impostata da quest'ultimo era ancora priva dei necessari presupposti sociali, cosa di cui gli ambienti finanziari e industriali erano ben consapevoli, così come il governatore della Banca d'Italia, Luigi Einaudi, che aveva mantenuto un livello di cambio della lira sul dollaro tale da non consentire alcun rientro di capitali.
Il D., che di fatto aveva assunto la leadership del sindacato al di là della forma paritetica che caratterizzava la segreteria confederale, si trovava così a sperimentare tutti i limiti di una gestione politica della linea sindacale senza la copertura di un'efficace politica economica propugnata dai partiti della Sinistra (il V congresso del PCI nel gennaio '46 lo confermava membro del Comitato centrale e della direzione del partito, così come quelli successivi, VI nel 1948 e il VII nel 1955). Non lo aiutava né il "nuovo corso" comunista, inaugurato dal Comitato centrale del settembre 1946, con il suo liberismo antimonopolistico (che era una linea di propaganda rivolta al medio ceto, non una politica verso il capitale finanziario ed industriale) né i conati di pianificazione socialista, più astratti che altro.
Troviamo negli interventi del D., dopo il 2 giugno, tutto il velleitario bagaglio strumentale della Sinistra, dal volontarismo produttivista, basato sul presupposto poco economico che la disciplina sindacale potesse essere un elemento decisivo per aumentare la produttività del lavoro e migliorarne l'organizzazione tecno-produttiva, alla insufficiente discriminazione tra spesa pubblica e programmazione degli investimenti, infrastrutturali e produttivi, alla tendenza ad affidare la distribuzione del reddito sostanzialmente alla sola manovra salariale.Questa carenza generale di linea politica marcava quindi l'iniziativa del sindacato e rendeva più difficili le mediazioni interne. Il D. si trovava a fronteggiare impulsi tra loro contraddittori. La corrente democristiana tendeva naturalmente a smussare l'azione rivendicativa generale, a copertura del ruolo di mediazione che all'interno della coalizione di governo svolgeva De Gasperi (tesi chiaramente espressa dal comitato direttivo della CGIL del luglio 1947). C'era poi un terreno ancora più delicato che era quello degli equilibri interni, dove i criteri di pariteticità e le altre regole di salvaguardia della minoranza erano difficili da far rispettare, se non a livello confederale, certamente negli organismi periferici. E il prezzo del loro operare aveva d'altro canto effetti negativi, perché impediva un pieno utilizzo delle risorse organizzative e un effettivo funzionamento della democrazia interna.
Proprio su questo punto, nel Comitato centrale comunista del novembre 1946 interveniva duramente Togliatti, con una polemica che investiva anche il ruolo del D., e aveva per motivo conduttore, da un punto di vista formale, il criterio della proporzionalità, cioè della rappresentanza negli organi sindacali in proporzione alla effettiva forza associativa delle diverse componenti politiche, da un punto di vista sostanziale voleva essere un segnale che rendesse esplicita l'egemonia comunista sul sindacato, in quel delicato punto di passaggio della politica nazionale.
Ma il problema di una verifica dei rapporti di forza interni all'organizzazione diveniva sempre più secondario rispetto a quello più generale della perdita di potere del sindacato nei confronti delle sue tradizionali controparti. E, in quest'ultimo scorcio del 1946, il sindacato dovette incominciare ad affrontare la prospettiva di una prossima fine del blocco dei licenziamenti che era stato sancito con decreti luogotenenziali all'indomani della Liberazione. Ciò era sollecitato dalla Confindustria, ma anche implicito nel processo di restaurazione capitalistica che si andava via via consolidando.
Poiché un regime di sblocco, commisurato alle esigenze di ristrutturazione produttiva delle imprese, implicava necessariamente massicce riduzioni di manodopera, occorreva accompagnare questo processo con un adeguato intervento pubblico attraverso cui il sindacato potesse conservare un controllo, almeno indiretto, del mercato del lavoro. Era un problema di garanzie politiche e di messa a punto di istituti e procedure nuove da parte del governo, che richiedeva una fase transitoria, basata su un compromesso, la cui forma fu quella della "tregua salariale" sancita dall'accordo del novembre 1946 e poi rinnovata per altri sei mesi con quello del giugno 1947. Sul tema dei licenziamenti, nei mesi seguenti, venne delineandosi quel doppio regime, per le procedure individuali e per quelle collettive, in cui le seconde, esperita negativamente la fase conciliativa, davano adito al mero rapporto di forza tra le parti, nel presupposto appunto che, in quel caso, il sindacato avrebbe avuto come interlocutore non solo la controparte datoriale, ma anche il governo.
L'accordo sui licenziamenti fu firmato nell'agosto del 1947, quando a livello politico erano già maturate le scelte decisive, e la sua applicazione avrà un andamento del tutto diverso da quello previsto dal sindacato. È questo un esempio emblematico di come un sistema di relazioni industriali abbia tempi e logiche, per loro natura diversi da quelli politici, anche se poi queste ultime risultino influire in modo determinante. Sta di fatto che il D. riusciva, in quei mesi cruciali per l'equilibrio politico, a tenere aperto un quadro di rapporti e mediazioni su tutti i fronti del lavoro sindacale, a differenza di quanto avveniva a livello politico.
Da questo punto di vista non va dimenticato il ruolo che il D. svolse in seno alla commissione dei Settantacinque dell'Assemblea costituente (era stato membro della Consulta, sarà rieletto deputato nella circoscrizione di Bari-Foggia per la prima e la seconda legislatura repubblicana) per la redazione del progetto di costituzione. Fu membro della terza sottocommissione e a lui si deve un apporto decisivo nella formulazione, sia dell'art. 40 in materia di sciopero, sia soprattutto dell'art. 39, riguardo al rapporto tra la libertà di associazione e la procedura di stipula dei contratti collettivi, muniti di efficacia obbligatoria, che motivò distinguendo concettualmente l'unità associativa del sindacato dall'univocità della sua volontà come soggetto stipulante e dalle modalità per renderla operante. Il D., anche in seguito, difese la formulazione dell'art. 39, e le obbiezioni che sollevò nei riguardi dei progetti di legge applicativi, presentati nella prima legislatura dai ministri del Lavoro, non furono mai determinanti, come quelle che invece provennero dalla Confederazione italiana sindacati lavoratori (si veda in proposito lo scritto del D. in I sindacati in Italia, Bari 1955, pp. 9-114).
Ma il massimo sforzo per tenere unito il sindacato il D. lo compiva in occasione del I congresso della CGIL, dopo quello di fondazione, che si tenne a Firenze dal 1° al 7 giugno 1947, quando la svolta politica era ormai avvenuta. Già di per sé era un congresso delicato, in cui si doveva operare il passaggio della gestione paritetica a quella più propriamente politica, basata cioè sulla verifica proporzionale della forza associativa di ciascuna componente, e i comunisti avevano conseguito oltre il 55 per cento dei voti, contro il 22 dei socialisti e il 13 dei democristiani. Si rovesciavano poi nel dibattito tutte le frizioni politiche accumulatesi all'interno e all'esterno.
Non era ancora operante un'ipotesi di scissione, mancando ancora le condizioni politiche necessarie, ma la corrente democristiana si era ormai arroccata in una posizione difensiva, volta a contrastare il più possibile l'uso politico del sindacato da parte della componente comunista. Non a caso la questione più rilevante nel dibattito congressuale fu la revisione dell'art. 9 dello statuto confederale, che disciplinava la proclamazione dello sciopero politico.
Il D. impostò la sua mediazione configurando i lineamenti di un sindacato a struttura interclassista, in cui si rammaricava non veder confluiti sia i coltivatori diretti, sia i dirigenti d'azienda, e la cui caratteristica era quella di "unione" nella "stessa professione, industria, mestiere, servizio, per la difesa comune di interessi che sono comuni, al di sopra e al di fuori delle rispettive ideologie e opinioni politiche e religiose". Il concetto di classe che vi enunciava era, come già si è accennato, assai "primitivo", dicendo che "la Patria è il popolo ed il popolo ... sono coloro che lavorano" (I Congressi, II, pp. 97 ss.). Non erano, del resto, proposizioni soltanto tattiche, ma l'espressione più volgarizzata di una sua convinzione profonda, quella del sindacato come "la più grande forza ... presidio della libertà del popolo e della Repubblica", proprio perché aggregazione più larga, e direttamente legata agli interessi più vitali, di qualsivoglia partito.
Sindacato degli occupati e dei disoccupati, degli operai e degli impiegati, sindacato di popolo, istituzione basilare non dello Stato, ma della Repubblica, sono concetti non solo di facciata, ma che entreranno nella cultura sindacale con venature riformiste, nella sostanza diverse dalla linea del partito comunista di Togliatti e con valenze più complesse in termini di autonomia dell'iniziativa politica sindacale, di quanto l'analogia con il parallelo "populismo" dei partiti della Sinistra possa suggerire, e malgrado l'operante realtà della cinghia di trasmissione tra sindacato e partito.
Certo i tentativi compiuti dal D. di dare al sindacato un fondamento di autonomia teorico e pratico, anche se corrispondevano a una sua convinzione e poggiavano, in qualche modo, su elementi oggettivi, non potevano superare gli argini sempre più insuperabili dello scontro politico che si andava sviluppando. A pagarne subito le conseguenze fu del resto proprio il sindacato, che la nuova politica economica, accompagnata dai provvedimenti del ministro del Lavoro in materia di licenziamenti per riduzione del personale, lasciava abbandonato a se stesso in un rapporto di forza sempre più debole con le controparti padronali. La sconfitta sul tema dei licenziamenti caratterizzerà i rapporti sindacali in quell'ultimo scorcio del '47 e, del resto, proprio la natura dello scontro politico verrà a sollevare il sindacato dalle sue più dirette responsabilità, consentendogli di recuperare una più immediata posizione classista.
Le divergenze interne alla CGIL, specie riguardo alla impostazione delle vertenze e alla proclamazione degli scioperi, si moltiplicarono, con dissensi manifestati anche in modo clamoroso. Sul tema poi di maggiore rilevanza politica che si presentò alla valutazione degli organi direttivi confederali, quello dell'adesione o meno al Piano Marshall, l'unità interna fu conservata, con l'eludere una risposta, come si evince dalla risoluzione del comitato direttivo del dicembre 1947, in cui si sottolineava anacronisticamente che "dal punto di vista sindacale le organizzazioni dei lavoratori non hanno alcun obbligo di pronunciarsi pro o contro tale piano" (Turone, p. 138). Era la totale paralisi politica interna, a cui corrispondeva un'intensa attività di propaganda esterna in vista delle elezioni del 18 aprile. Tutti gli organismi sindacali si gettarono, ciascuno per la sua parte, nella mischia elettorale, e il D. guidò la campagna per il Fronte popolare.
Dopo la sconfitta elettorale delle sinistre ogni occasione diveniva buona per la scissione, che la corrente democristiana aveva ormai deciso. Anche la festa del 1º maggio fu occasione di polemiche, ma il pretesto decisivo venne dallo sciopero generale che seguì l'attentato a Togliatti.
L'attentato avvenne la mattina del 14 luglio. Un movimento spontaneo di tipo insurrezionale già nelle prime ore del pomeriggio aveva paralizzato i grandi centri industriali del Nord. Il comitato esecutivo della CGIL, prendendo atto della situazione, proclamava lo sciopero generale, con la netta opposizione della corrente democristiana. Il D. era assente. Tornò nel tardo pomeriggio proveniente da Ginevra, dove aveva partecipato ad una riunione del Bureau international du travail. A mezzanotte si recava al Viminale: secondo la testimonianza di E. Parri, l'esponente repubblicano della CGIL, "De Gasperi [gli] venne incontro con le mani tese ... aveva bisogno del Di Vittorio, della sua ascendenza sul mondo operaio, per evitare che la protesta si trasformasse in tragedia" (Tobagi, pp. 947 s.).
Il D. fece ogni sforzo per fare rientrare la spinta insurrezionale, malgrado che l'incontro con De Gasperi avesse lasciato uno strascico di polemiche sulle responsabilità della situazione che si era creata; inoltre fissava la scadenza dello sciopero per il mezzogiorno del 16 luglio. Ma la corrente democristiana, con una lettera di Pastore, aveva cessato di partecipare alle riunioni collegiali e, pur senza operare formalmente la scissione, rivendicava la sua piena autonomia dalla CGIL unitaria. Ciò costrinse il D., nella riunione del comitato esecutivo del 26 luglio, e poi del consiglio direttivo del 5 agosto, a dichiarare la decadenza dei dirigenti sindacali democristiani, con la motivazione realistica che "la pretesa... di rimanere ai loro posti nella CGIL, fin quando non abbiano pronta la loro organizzazione, non è accettabile" (l'Unità, 28 luglio 1948).
Fu questo l'episodio decisivo che innescò quel processo di divisione dell'organizzazione sindacale che portò poi nel 1950 alla costituzione della CISL e della UIL e che vide coinvolte le varie componenti sindacali negli schieramenti della guerra fredda. La CGIL, dal canto suo, a partire dalla discussione, nell'inverno del 1949, sul Patto atlantico, accentuò le sue prese di posizione di tipo internazionale; nel giugno del 1949, proprio a Milano, si tenne il II congresso della Federazione mondiale dei sindacati, che, dopo l'uscita del Trade Unions Congress britannico e della American Federation of Labour-Congress of Industrial Organizations americana, era divenuto un organismo internazionale di osservanza sovietica; in quella occasione il D. ne fu eletto presidente, carica nella quale fu riconfermato anche nel successivo congresso di Vienna del 1953.
Con le scissioni la CGIL diveniva un sindacato in cui i comunisti contavano più del 70% degli iscritti e dell'effettiva forza organizzata. Erano possibili i segni di un'involuzione, che marcheranno, ad esempio, la consorella francese Confédération générale du travail, e si dovette molto alla gestione interna e agli indirizzi politici che il D. seppe imprimere in quegli anni all'organizzazione se essa seppe salvaguardare in qualche modo la sua immagine unitaria di "grande CGIL".
Ciò in parte fu possibile per la diversa parabola del socialismo italiano rispetto a quello francese, ma soprattutto per il marcato indirizzo "popolare" che seppe imprimergli il D., privilegiando sia l'originaria apertura verso il ceto medio, su cui aveva insistito fin dai primi orientamenti congressuali, sia il rapporto con le masse dei disoccupati, soprattutto meridionali. Quella degli anni '50 fu una CGIL che, mentre riutilizzava tutto il tradizionale bagaglio classista e anticapitalista, non si arroccava tuttavia su posizioni "operaiste", fino al punto anzi di sottovalutare alcune esigenze di tutela degli operai industriali.
La prima legislatura repubblicana fu caratterizzata da forti tensioni sociali, che ebbero come epicentro il mondo agricolo, e, per altri versi, alcuni settori di ceto medio, in cui la CGIL del D. seppe giuocare un ruolo importante.
Nel 1949 iniziò quel movimento di occupazione delle terre da parte soprattutto delle masse bracciantili del Sud, che doveva precedere la legge stralcio di riforma agraria. Era questa una delle manifestazioni più acute di un generale malessere che derivava dalla rigida politica di controllo monetario e creditizio del governo, la quale tardava ad innescare, al di là della ricostruzione, un meccanismo di sviluppo, con conseguente alto saggio di disoccupazione, che riguardava numerose aree operaie del Nord, ma soprattutto le masse contadine e urbane del Mezzogiorno.
Già in occasione del II congresso della CGIL (Genova, 4-9 ott. 1949) il D. lanciava l'idea di un "piano del lavoro" (I Congressi, III, pp. 54 ss.), i cui lineamenti sarebbero stati tratteggiati nel febbraio del 1950 da una conferenza economica sindacale (Il Piano del lavoro, Roma 1950).
L'impostazione del piano fu originale, ma la cornice ideologica e politica rimase necessariamente quella tradizionale. Per la prima volta in Italia tematiche relative alla piena occupazione, che echeggiavano le elaborazioni teoriche e le esperienze anglo-americane a cavallo della guerra, venivano consegnate in un documento ufficiale della Sinistra. Gli obiettivi che esso si proponeva e le critiche che, in relazione ad essi, sollevava sulla politica economica del governo, non erano molto distanti, nell'impostazione concettuale, da quelle che pure formulavano le autorità del Piano Marshall. Ma proprio l'indispensabile nesso con quest'ultimo doveva essere sottaciuto dall'iniziativa e lo stesso D., gia nella sua relazione congressuale, presentava il Piano Marshall come un'operazione meramente imperialistica, incalzato da Togliatti che, in un articolo su Rinascita (febbraio 1950), sottolineava che l'iniziativa della CGIL, non potendo essere "un progetto di pianificazione socialista", non voleva essere neppure "un utopistico tentativo di organizzare l'economia capitalistica".
Oltre che a questi vincoli intrinseci, la proposta del "piano del lavoro" si trovava di fronte all'impossibilità di stabilire, per quanto ne dichiarasse la disponibilità, un rapporto di dialogo con la politica governativa. Essa ebbe tuttavia il merito di dare coerenza alla linea rivendicativa della CGIL (Santi, 1978, pp. 11 ss.) e di preconizzare quello che sarà il secondo tempo della politica degasperiana, con le grandi leggi economico-sociali, dalla riforma agraria al rilancio delle partecipazioni statali, alla Cassa del Mezzogiorno. Sarà un'evoluzione che il D. seguirà attentamente, dandone un giudizio meno critico e di maggiore apertura di quello espresso nella sede parlamentare dal suo partito, in modo particolare per l'istituzione della Cassa del Mezzogiorno (Pistillo, III, pp. 248 ss.), ma anche riguardo al Piano Vanoni (Saraceno, 1978).
Il "piano" del D. dimostra che quel "liberismo", che veniva rimproverato come un paradigma della cultura economica del sindacato (Foa, 1984, p. 87), poteva essere superato, se i vincoli non fossero stati d'ordine politico-ideologico, e quella del D. fu su tutta questa materia certamente un'intuizione politica, più che culturale, diversa da quella prevalente nel suo partito e nella Sinistra, anche se ebbe un assai limitato spazio per manifestarsi, tanto che, per una svolta sul piano della cultura politica ed economica, dovranno passare al contrario ancora alcuni decenni.
Anche nel settore dei servizi e in particolare del pubblico impiego la CGIL seppe incalzare, pur da posizioni organizzative minoritarie, la politica del governo, in un ciclo rivendicativo che andò dal '48 al '51 e in cui con spregiudicatezza centrò la sua azione sui differenziali retributivi e sulla perequazione con l'impiego privato, contribuendo ad innescare un processo di corporativizzazione del sindacalismo pubblico, ma conseguendo successi, misurati anche dal gran numero di preferenze che il D. conseguì nei quartieri di ceto medio alle elezioni municipali romane del 1952. L'azione sindacale nel pubblico impiego contribuì poi ad accentuare quel ripiegamento conservatore in tema di diritto di sciopero e di concezione dello Stato che fu proprio del governo nell'ultimo scorcio della prima legislatura.
Fu nel settore industriale, dove maggiore era la forza organizzata della CGIL, che più forti furono le difficoltà. Qui le scissioni non avevano di molto intaccato il monopolio organizzativo, ma indebolito la resistenza sindacale sul piano politico, favorendo l'espropriazione da parte del governo degli strumenti istituzionali di controllo del mercato del lavoro, incominciando dal collocamento, e lasciando i militanti comunisti e socialisti della Confederazione interamente esposti alla dura politica repressiva del ministro degli Interni Mario Scelba, e all'azione disciplinare delle imprese, che in quest'uffinia trovava la sua piena copertura, il che portò il D., nel III congresso nazionale della CGIL (Napoli, 26 nov-3 dic. 1952), a formulare la richiesta di uno "Statuto dei diritti, della libertà e della dignità dei lavoratori nell'azienda".
Gli spazi rivendicativi, nelle vertenze nazionali di categoria, quali furono nell'industria quelle dei rinnovi tra il 1949 e il 1950, rimanevano esigui, confinati quasi interamente alla sola parte normativa. Nel congresso del 1949 il D. aveva lanciato la parola d'ordine dell'"aumento dei salari secondo la massima disponibilità di ogni settore dell'industria e dell'agricoltura", accompagnato dalla "fissazione di un salario minimo nazionale inderogabile per tutte le categorie" (I Congressi, III, p. 48), ma questa diversificazione avrebbe richiesto come premessa un accordo interconfederale di cui non c'erano le premesse. I maggiori spazi salariali erano connessi con l'incentivazione produttiva e questa, a sua volta, con l'accentuato processo di ristrutturazione produttiva e tecnologica, che era in atto soprattutto nell'industria metalmeccanica e tessile.
Seguire questa strada richiedeva una rinnovata iniziativa nella fabbrica, proprio là dove la CGIL doveva ripiegare organizzativamente su di una posizione difensiva, dinnanzi alla concentrata azione repressiva del governo e delle imprese. Per queste ragioni prevalse allora la linea del "sindacato esterno", che continuava a fondarsi sulla centralizzazione contrattuale, una scelta che diveniva sempre più una necessità. Ed occorre tenere presenti questi presupposti nel confrontare la posizione della CGIL con quella più avanzata che la CISL espresse compiutamente nel suo direttivo di Ladispoli del febbraio del 1953, affacciando l'ipotesi di una contrattazione aziendale.
D'altra parte la linea difensiva della CGIL resse bene alla prova, per la natura dello scontro sociale e politico che era in atto, rispetto a cui i connotati storico-ideologici classisti della Confederazione rossa traevano conferma, anche se poveri erano i contenuti rivendicativi e di non grande richiamo per i lavoratori occupati erano gli obiettivi del "piano del lavoro". Il punto di crisi maturò dopo il 1953, in cui per altro il risultato elettorale fu favorevole alle Sinistre, quando incominciarono a farsi sentire i primi effetti dello sviluppo economico iniziato con il "boom coreano" del 1952. Allora realmente gli spazi aziendali si fecero via via più ampi, segnati dalle stesse politiche del personale, e i limiti della tradizionale posizione della CGIL, allora impegnata nelle trattative dell'accordo confederale sul conglobamento, cominciarono ad essere sensibilmente percepiti dalla base operala.
La vertenza del conglobamento chiude emblematicamente la stagione contrattuale iniziata col dopoguerra. Avviata nel 1952 dalle tre confederazioni, con richieste diverse, ma col comune disegno di razionalizzare la busta paga ed elevare i minimi tabellari, si trascinò fino al 1954. L'intransigenza della Confindustria provocò il ritiro della CGIL dal tavolo delle trattative, mentre CISL e UIL concludevano l'accordo separato. Il D. commentò che "è sempre facile vendere a basso prezzo", ma egli, coerentemente alla sua strategia perequativa e centralizzata, continuava a privilegiare quel tavolo negoziale, mentre le altre organizzazioni avvertivano che la base operaia sfiduciata avrebbe accolto con sollievo la fine della vertenza, in attesa di altri negoziati.
Molti sintomi indicavano che la presa della CGIL calava sensibilmente, ma il segnale più vistoso venne dal rinnovo delle commissioni interne alla FIAT, nel marzo 1955, quando la Federazione italiana operai metallurgici perse non solo, per la prima volta, la maggioranza assoluta, ma anche quella relativa a favore della CISL. Certo l'intreccio delle politiche aziendali tra le due confederazioni e le direzioni del personale era molto stretto, ma ciò di per sé non giustificava la sconfitta. Venne operata una revisione della politica confederale e furono in parte rinnovati i gruppi dirigenti: tra l'altro Roveda lasciava la segreteria della FIOM sostituito da A. Novella, che in quella posizione affiancava anche nella Confederazione il D. per la politica sindacale nel settore industriale. Già nel comitato direttivo dell'aprile 1955 il D., dopo una serrata autocritica, tracciava le linee di una nuova strategia (Tatò, III, p. 352) che, ancora più compiutamente, sarà delineata nel suo intervento al IV congresso nazionale della CGIL (Roma, 27 febbr-4 marzo 1956) fissando due nuovi obiettivi: "1) porre un limite al ritmo massacrante del lavoro ... 2) far sì che tutte le forme di retribuzione a incentivo siano soggette a regolamentazione collettiva da parte delle Commissioni interne", giacché "senza di ciò ... il livello effettivo dei salari sarebbe determinato dalla volontà esclusiva ed unilaterale del padrone" (I Congressi, IV-V, p. 378).
Era la fine della linea del sindacato esterno ("ciò esige una politica sindacale aziendale e quindi il moltiplicarsi delle sezioni sindacali in seno alle aziende"), che confidava anche in un mutato clima politico, quanto all'esercizio dei diritti sindacali. A differenza delle altre organizzazioni, inoltre, la CGIL metteva l'accento non solo sul salario, ma anche sulle conseguenze che il progresso tecnico determinava sull'organizzazione del lavoro e più in generale sulla condizione operaia.
Il D. accompagnò la svolta della CGIL con un rilancio della politica unitaria, "su basi accettabili per tutti" (Tatò, III, p. 402), come premessa di un rilancio della politica rivendicativa del sindacato, riaffermando il principio dell'autonomia del sindacato, di contro a quello che lo vuole "strumento di trasmissione" (l'Unità, 1° ag. '56). Ora che la CGIL riapriva anch'essa il fronte aziendale, il problema faceva la sua presa anche sulle altre confederazioni, sebbene la preoccupazione di consolidare le basi del loro insediamento organizzativo rimanesse, ancora per qualche anno, prevalente. Ma nell'ottobre 1956 sopravvenivano i fatti di Ungheria ad appesantire il clima dei colloqui e delle intese. Il D. non esitava a sottoscrivere, come documento della CGIL, un testo redatto dai socialisti, attirando su di sé la durissima reazione del gruppo dirigente del suo partito.
Erano anni di grandi mutamenti sulla scena politica interna ed internazionale, ma anche nella struttura economica e sociale del paese in cui, tra l'altro, prendeva forma un massiccio flusso di emigrazione dal Sud al Nord. Il D. continuava a prodigarsi nel lavoro sindacale, sebbene già agli inizi del '56 fosse stato colpito da un primo infarto.
Morì il 3 nov. 1957 a Lecco (Como), dove si era recato ad inaugurare la locale Camera del lavoro.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio del PCI, fascicoli 1123/3; 1126/1; 1194/4; 1194/7; 1269/1; 1269/2; 1494, A/44-45; Roma, Archivio della CGIL, serie Org. dir. (1944-1957): Consiglio direttivo; Ibid., Direzione; Segreteria confederale; D. l'uomo il dirigente, a cura di A. Tatò, I-III, Roma 1968, con una antologia di scritti del D.; Discorsi parlamentari di G. Di Vittorio, a cura della Camera dei deputati, I-V, Roma 1976; una vasta scelta di scritti del D. in appendice ai tre voli di M. Pistillo, G. D., I, (1907-1914), Roma 1973; II, (1924-1944), ibid. 1975; III, (1944-1957), ibid. 1977, che costituiscono la biografia più completa di Di Vittorio. Per le relazioni congressuali del D. cfr. i primi quattro volumi della serie I Congressi della CGIL, Roma 1970-74, passim. Si vedano anche i profili di F. Chilanti, La vita di G. D., Roma 1952, e D. Lajolo, G. D., Roma 1971, e i ricordi di A. Di Vittorio, La mia vita con D., Firenze 1965; M. Montagnana, Ricordi di un operaio torinese, Roma 1949, passim; P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano, Roma 1962, passim; P. Secchia, L'azione svolta dal partito comunista in Italia durante il fascismo, 1926-1932. Ricordi, doc. inediti e test., in Annali dell'Ist. G. Feltrinelli, XI (1969), ad Indicem; Id., Il PCI e la guerra di liberazione 1943-45, ibid., XIII (1971), ad Indicem; S. Schiapparelli, Ricordi di un fuoruscito, Milano 1971, p. 157; L. Longo, Le Brigate internazionali in Spagna, Roma 1972, passim; P. Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione..., in Annali dell'Ist. G. Feltrinelli, XIV (1972), pp. 605 s.; G. Amendola, Lettere da Milano, Roma 1973, passim; V. Vidali, Giorni di lotta con D., in l'Unità, 18 marzo 1973; G. Li Causi, Il lungo cammino. Autobiografia 1906-1944, Roma 1974, ad Indicem. V. inoltre C. Coiella, Note e appunti sul movimento socialista in Terra di Bari, Bari 1948, passim; G. Candeloro, Il movimento sindacale in Italia, Roma 1950, passim; C. Colella, Preludio alla settimana rossa in Terra di Bari (novembre 1913-maggio1914), Bari 1954, p. XXX; G. Arfè, Le originidel movimento giovanile socialista (1903-1904), in Mondo operaio, X (1957), 4, pp. 33 ss.; Lotte agrarie in Italia. La Federazione dei lavoratori della Terra (1901-1926), a cura di R. Zangheri, Milano 1960, ad Indicem; G. P. Jackson, Comintern and Peasants in East Europe, 1919-1930, New York 1966, pp. 66 ss.; P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, I, Torino 1967; II, ibid. 1969, V, ibid. 1975, ad Indices; S. Colarizi, Dopoguerra e fascismo in Puglia (1919-1926), Bari 1971, ad Indicem; E. Ragionieri, Togliatti, Grieco, D., alla commissione del X plenum dell'I. C., in Studi storici, XII (1971), I, pp. 108-170; L. Allegato, Socialismo e comunismo in Puglia, Roma 1971, passim; V. Pinto, Bari 1922. Arditi del popolo in difesa della libertà, Bari 1972, passim; C. Pillon, I comunisti e il sindacato, Milano 1972, passim; T. Detti, Serrati e la formazione del Partito comunista italiano, Roma 1972, pp. 255 ss.; S. Turone, Storia del sindacato in Italia. 1943-1969, Bari 1973, ad Indicem; G. G. Migone, Stati Uniti, Fiat e repressione antioperaia negli anni Cinquanta, in Riv. di storia contemporanea, III (1974), pp. 244 ss.; F. Levi-P. Rugafiori-S. Vento, Il triangolo industriale tra ricostruzione e lotta di classe (1945-1948), Torino 1974, ad Indicem; W. Tobagi, I sindacati nella ricostruzione (1945-1950), in Il Mulino, XXIII (1974), p. 930-57; A. Gambino, Storia del dopoguerra dalla liberazione al potere DC, Bari 1975, ad Indicem; V. Foa, Sindacati e lotte operaie, 1943-1973, Torino 1975, passim; A. Riosa, Le concezioni sociali e politiche della CGIL, in 30 anni della CGIL, Roma 1975, passim; I comunisti e l'economia italiana, 1944-1974, a cura di L. Barca-F. Botta-A. Zevi, Bari 1975, passim; G. Pugno-S. Garavini, Gli anni duri alla Fiat, la resistenza sindacale e la ripresa, Torino 1975; F. Barbagallo, Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno, 1900-1914, Napoli 1976, pp. 528 ss.; P. Craveri, Sindacato e istituzioni nel dopoguerra, Bologna 1977, ad Indicem; L. Lama, La CGIL di D., a cura di F. D'Agostini, Roma 1977, ad Indicem; P. Santi, Il Piano del lavoro della CGIL. Atti del Convegno ... di Modena, 9-10 marzo1975, Milano 1978, passim; G. Arfè-L. Lama-P. Saraceno, Unità e autonomia del sindacato nel pensiero di G. D. Atti del Convegno ... CGIL-CISL-UIL, 14-15 dic. 1977, Roma 1978, ad Indicem; V. Foa, Per una storia del movimento operaio, Torino 1980, passim; Id., La cultura della CGIL, Torino 1984, ad Indicem; P. Craveri, Bruno Buozzi e il patto di Roma, in Prospettive Settanta, XIV (1984), 2-3, pp. 167 ss.