DOLFI, Giuseppe
Nato a Firenze il 3 maggio 1818, ultimo di tre fratelli, da Valentino e da Annunziata Galvani, subì dapprima l'influsso della madre religiosissima, che avrebbe voluto avviarlo al sacerdozio, e l'esempio del padre, animatore del forno gestito dalla famiglia nel vecchio quartiere S. Lorenzo. A questa origine popolana e al mestiere di fornaio il D. rimase sempre legato, anche quando, dalla primavera del '59, la sua bottega divenne un punto di riferimento obbligato dell'attività politica fiorentina.
Il contatto con P. Thouar e con E. Mayer costituì sin dalla giovinezza un forte stimolo a fargli integrare la scarna cultura acquisita nelle scuole popolari e a favorire un primo orientamento patriottico in direzione mazziniana. Ma furono le tumultuose esperienze del biennio rivoluzionario e soprattutto la brusca fine di quello, col rientro il 12 giugno '49 dei Lorenesi sotto scorta austriaca, a segnare il suo destino. Mentre a Firenze ogni sussulto di vita politica si smorzava con l'ostracismo ai capi di parte democratica e col passivo attendismo dell'aristocrazia moderata e conservatrice, il forno del D. si avviava a divenire un centro di collegamento patriottico di vari strati della popolazione di borgo S. Lorenzo, dai braccianti, operai, rivenduglioli agli artigiani e alla piccola borghesia. Non è improbabile che già in questa fase maturasse nel D., accanto alla consapevolezza di un ruolo politico, il senso di una solidarietà sociale, con quella indissolubilmente congiunto, che troverà subito dopo il '60 esplicazione nella creazione della Fratellanza artigiana.
Il periodo tra la guerra di Crimea e il congresso di Parigi, che inizia la crisi della Restaurazione lorenese, vide l'influenza del D. estendersi ad altri borghi e quartieri di Firenze, consolidando il suo ruolo di guida popolare, che appariva più il risultato di un'aggregazione spontanea che non il frutto di un impegno individuale e di un'azione diuturna. L'arresto del giugno '57 fu la prima consacrazione del suo ruolo di capo. Si era trattato di un piccolo tentativo di sommossa, correlato al moto di Livorno e all'impresa di Sapri, ma è sintomatico che di un fatto vero o presunto la polizia granducale vedesse nel D. il principale responsabile.
Quanto avvenuto aveva attratto l'attenzione dei promotori locali della Società nazionale, che proprio allora iniziavano l'attività aggregatrice, favoriti dallo sconcerto determinato nelle file democratiche dal fallimento del tentativo mazziniano. I temi dell'unità e dell'indipendenza prendevano il sopravvento, mentre le angustie del governo granducale accrescevano l'irritazione e avvicinavano tra loro gli oppositori di diversa estrazione politica e sociale. Nel corso del '58 l'attentato di F. Orsini con quel che ne seguì per effetto della pubblicazione delle sue lettere, e soprattutto il successivo convegno di Plombières, con la sensazione diffusa che qualche cosa di grosso stesse muovendosi mettendo in giudicato le sorti stesse della Toscana, furono eventi che se da una parte consentirono al D. di consolidare quella vasta area d'intesa popolare gravitante attorno alla sua persona, favorirono notevolmente dall'altra la penetrazione della Società nazionale nella sfera borghese. Intanto anche quella parte dell'aristocrazia terriera, che non si era compromessa col governo granducale e che era vissuta fino allora nell'isolamento, cominciava a destarsi e con l'inizio delle edizioni della "Biblioteca civile dell'Italiano" a palesare i suoi intenti, ancora incerti tra un prevalente costituzionalismo a base autonomistica ed un esordiente unitarismo a base nazionale. Tre sfere sociali dunque con interessi e tradizioni diverse si preparavano, quasi ignorandosi tra loro ma sospinte da forze comuni, ad eventi che si presentivano decisivi per le sorti della Toscana e dell'Italia.
Non sappiamo se Mazzini, il quale nel novembre '57 aveva già superato l'acerba crisi che lo aveva colpito dopo Sapri e Genova, avesse avuto sentore della presa che il D. cominciava ad avere sugli strati popolari della città, né se questi avesse un qualche contatto sia pure indiretto con P. Cironi, l'ardente ma scontroso intellettuale mazziniano, rientrato a Prato nel luglio '57, dopo sei anni d'esilio. Di Prato, però, era anche G. Mazzoni, l'ex triunviro del '49 in esilio a Parigi, di cui il D. curava gl'interessi pratesi, e non è ardito pensare che sul filo di una pur rada corrispondenza di carattere agricolo e contabile potesse filtrare qualche indicazione di carattere politico, tenuto conto che proprio allora Mazzini aveva iniziato da Londra a prospettare l'idea di un moto in Toscana, trovando in ciò il pieno accordo del Mazzoni.
A prendere l'iniziativa di un primo contatto tra la sfera popolana e quella borghese fu il rappresentante della Società nazionale a Firenze, il marchese F. Bartolommei. Nei mesi che seguirono la sua nomina, avvenuta nel febbraio '58, aveva capito che se voleva uscire dal ristretto strato sociale in cui operava in vista di più ampie aggregazioni, un'intesa col D. era necessaria. L'incontro tra i due, avvenuto nella massima segretezza nella casa di campagna del D. nel tardo autunno dello stesso anno, segnò l'inizio di una collaborazione leale e operosa, destinata a raggiungere il suo apice nella mattinata del 27 apr. 1859, che avrebbe deciso per sempre il destino dei Lorenesi.
Si trattava di scalzare le basi di una dinastia secolare con un'accorta divisione di compiti: per gli strati popolari più umili e per gli operai e gli artigiani avrebbe risposto il D., per quelli superiori prevalentemente borghesi il Bartolommei. Stesso criterio per l'azione di propaganda e affiliazione all'interno dell'esercito granducale, riservandosi il D. l'ambito della truppa e dei sottufficiali, e l'altro il settore degli ufficiali. Ormai il contatto tra i due mondi contigui era avvenuto, e sul terreno più congeniale alla mentalità concreta del D.: quello delle cose da fare in vista di un obiettivo chiaro e al di sopra di ogni settarismo ideologico. Del resto il ricordo bruciante degli antagonismi quarantotteschi ammoniva a restare uniti almeno fino all'abbattimento della dinastia straniera, che offendeva insieme il sentimento nazionale e l'esigenza sempre più viva di libertà politica.
Gli avvenimenti che si susseguirono dal gennaio '59, con le dichiarazioni di Napoleone III e il discorso di Vittorio Emanuele in pieno Parlamento, e il clima di tensione in Europa e di fervida aspettazione in Italia che ne scaturì, mentre da un lato rinsaldavano a Firenze l'intesa tra popolani e borghesi, imprimevano dall'altro un nuovo impulso al processo evolutivo in atto nell'aristocrazia. Il costituzionalismo autonomistico, dapprima predominante, veniva posto in crisi dalla linea intraprendente del barone Ricasoli, che, sebbene sempre più sintonizzata con Torino, presentava una carica unitaria che andava ben oltre la politica ufficiale del Cavour. Il contatto delle tre sfere, che dal marzo si erano andate sempre più avvicinando sul comune impegno per l'approntamento dei volontari, avvenne il 23 aprile nel palazzo Ricasoli a Firenze, sotto la spinta della rottura dei rapporti tra Vienna e Torino e della guerra ormai imminente.
In quella prima seduta, di cui fa Società nazionale aveva preso l'iniziativa, emerse tuttavia un sintomatico contrasto sull'azione da intraprendere: mentre il D., al quale si era unito il Cironi, in rappresentanza delle forze popolari, in una col Bartolommei ed E. Rubieri, esponenti della Società nazionale, puntavano su una dimostrazione di massa, i rappresentanti dell'aristocrazia liberale volevano limitarsi in un primo momento a un indirizzo al granduca. Il precipitare della situazione fece prevalere la tesi dei primi, trasferendo sin dal pomeriggio del 26 a tutto il 27 aprile da palazzo Ricasoli a casa del D. il centro dell'attività politica e rivoluzionaria. Sulle spalle del D. si posò così, in quelle ore drammatiche e decisive, gran parte della responsabilità di un evento che si mantenne per ore altamente incerto, e di cui il Ricasoli, che ne fu il massimo beneficiario, conobbe l'esito positivo soltanto a metà del viaggio che lo conduceva da Firenze a Torino.Costituitosi l'11 maggio 1859 coi crismi di Torino il governo retto dal Ricasoli, con la puntuale esclusione di ogni elemento di parte democratica, il D. non se ne adontò, ma forte del prestigio che lo circondava si adoperò per rassodare il nuovo stato di cose, collaborando attivamente all'organizzazione della guardia civica e dei volontari, consapevole della precarietà della situazione generale in cui il successo della rivoluzione toscana era inserito. L'intesa che allora si determinò tra lui e il Ricasoli, mentre nella pianura padana si combatteva una guerra dal cui esito dipendeva la sorte di tutti, si fondò soprattutto, oltre che su un rapporto di reciproca stima e rispetto, sulla comune fede nel principio unitario.
Di ciò si ebbe un chiaro riscontro sin dal giugno nella febbrile attività esplicata dal D. per incanalare in direzione annessionistica l'ondata di entusiasmo suscitata dalle prime decisive vittorie alleate, con la raccolta di migliaia di firme e la promozione di petizioni in ogni centro toscano. Operazione questa che costituì successivamente il supporto di un solenne indirizzo unitario a Vittorio Emanuele, dal D. stesso a nome del popolo formulato, che fu la prima inequivocabile risposta della Toscana alle mene napoleoniche. Villafranca poi, con i pericoli che prospettava per l'Italia centrale, rese ancora più stretta sul piano operativo quella intesa, che il D. gestiva peraltro in piena sintonia con l'orientamento di fondo della forza popolare che a lui faceva capo. Tale posizione, se non lo salvaguardava dalle critiche degli amici repubblicani di stretta osservanza e del Mazzini stesso, clandestino a Firenze sotto la sua protezione dall'8 agosto al 18 sett. 1859, gli permetteva di intervenire nelle situazioni critiche, che non tardarono a presentarsi, con tutto il peso del suo prestigio e della sua forza politica. Lo si vide subito, all'indomani dell'armistizio, nell'appoggio immediato fornito al Ricasoli, minacciato da un tumulto reazionario sotto le Logge del grano, con la tempestiva organizzazione di una forza di 300 popolani armati, che ristabilirono immediatamente l'ordine pubblico, rassodando la situazione interna e consentendo di mantenere intatte, in una situazione così ingarbugliata, le possibilità di una unione al Piemonte che lasciasse aperte e operanti le prospettive dell'unità nazionale.
Ma, come è noto, neppure il mutato clima della situazione internazionale all'alba del '60 valse a rimuovere senza traumi le ipoteche napoleoniche sull'Italia centrale, e il Cavour dovette impegnarsi in un'ardua trattativa che fino alla fine tenne in forse le sorti della Toscana, proprio mentre Mazzini, che traeva dalle stesse premesse sulla situazione internazionale auspici del tutto diversi, tornava ad incombere per un'immediata azione nel Sud attraverso l'Umbria e le Marche. Il Ricasoli non ebbe dubbi sul da farsi: non deflettere di un pollice dalla posizione annessionistica, spingendo ad oltranza il rassodamento militare per fronteggiare ogni evento. Il D., da parte sua, nonostante l'opposta pressione di Mazzini, non poté non continuare nell'intesa col barone, semplicemente perché considerava quella linea come propria, non solo per la coscienza di aver contribuito a renderla effettuale, ma per la convinzione che fosse l'unica capace di far maturare l'agognata annessione, senza compromettere la favorevole congiuntura internazionale e la prospettiva di un ulteriore balzo in avanti. E che tutto questo non ledesse la sua fede repubblicana, e non incrinasse la perentorietà del suo impegno unitario, lo si vide nell'aprile del 1861, quando ad annessioni avvenute, rifiutò con cortese fermezza l'Ordine mauriziano offertogli da Vittorio Emanuele durante la sua visita a Firenze.
Ai primi del maggio 1860 la partenza di Garibaldi da Quarto, in appoggio al moto siciliano, mutava rapidamente lo scenario della situazione italiana, portando alla ribalta del paese la prospettiva rivoluzionaria di una rapida soluzione del problema unitario al di fuori degli schemi cavouriani.
Obiettivamente le posizioni di Mazzini e di Garibaldi si avvicinavano, perché correlati erano il moto siciliano evocato dal primo e la spedizione voluta ed attuata dall'altro, ma la bandiera "Italia e Vittorio Emanuele" che copriva la spedizione era tale che, mentre garantiva l'appoggio morale del paese e quello organizzativo di democratici e liberali, lasciava aperta in prospettiva la via a un coinvolgimento diplomatico e fin militare del governo di Torino. Tutto questo, mentre avvalorava la posizione di Garibaldi nel suo ruolo di protagonista politico, suscitando un'immensa eco nel paese, ridimensionava fatalmente la funzione di Mazzini a un ruolo subordinato e di supporto.
Il D., che aveva seguito ansiosamente i preparativi di Genova e vi aveva inviato il Giannelli per avere istruzioni dirette dal generale sul da farsi, ebbe mandato di suscitare un moto sui e oltre i confini dello Stato pontificio, allo scopo di stornare l'attenzione sui veri obiettivi della spedizione. L'operazione, tentata, non ebbe esito, e per l'inerzia delle popolazioni contattate e perché offuscata e compromessa nelle sue finalità dalle confuse vicende della colonna Zambianchi, che il generale aveva lasciato sbarcare a Talamone, con consimili intenti distornanti. Ma l'incarico più oneroso per il D. fu quello comunicatogli con una lettera del Bertani, rappresentante unico del generale a Genova, in cui lo si impegnava alla immediata creazione a Firenze e alla promozione in tutta la Toscana dei comitati di soccorso in appoggio all'impresa garibaldina.
Il D. si pose subito al lavoro con impegno pari alla responsabilità che implicava, e che andava dalla scelta delle persone alla istituzione dei centri, dalla raccolta dei fondi all'acquisto delle armi, dall'organizzazione dei volontari al loro avviamento alla base genovese per le successive spedizioni in Sicilia. E, nonostante le critiche di Mazzini, sempre incombente per l'azione rivoluzionaria verso il Sud, anche nella nuova situazione continuò, pur tra le insidie dell'incipiente contrasto tra democratici e lafariniani, l'intesa tra il D. e il Ricasoli, che raggiunse l'apice nell'appoggio del barone all'organizzazione della brigata detta di Castel Pucci, capitanata dal Nicotera e destinata ad un attacco al Sud attraverso gli Stati romani da sintonizzare con quello che Garibaldi si apprestava a sferrare contro il Regno una volta passato lo stretto. L'infelice conclusione di quel tentativo, fatto naufragare dal Cavour per attuarlo in proprio, e la rottura che ne seguì nei rapporti con Ricasoli, gettarono il D. nel più profondo sconforto. La linea dell'azione risolutrice si divaricava da quella sperata, e i fatti lo avrebbero di lì a poco confermato. Oggetto di recriminazioni acri e ingenerose, il D. continuò per quanto poté nell'appoggio all'impresa garibaldina, ma fu chiaro che col fallimento di Castel Pucci il suo prestigio era rimasto vulnerato, anche se solo più tardi ci si rese conto che quella vicenda rientrava in un gioco ben più vasto delle sue personali responsabilità.
Quando si susseguirono le ultime sequenze del dramma garibaldino, con la definitiva prevalenza dell'iniziativa cavouriana su quella democratica, il D. sembrò appartarsi dall'attività politica, ma già nel novembre inoltrato era nuovamente impegnato nella riorganizzazione dell'elemento democratico. I limiti stessi della vittoria cavouriana attestavano che c'era ancora bisogno di quell'elemento, almeno per portare a compimento l'impegno unitario che la forza delle cose aveva bruscamente interrotto. Ma nell'ambito di quell'impegno inteso come prioritario un'altra possibilità si apriva alle forze democratiche: quella di cominciare a prestare attenzione agli aspetti sociali della realtà nazionale.
A spingere il D. su questo terreno, che era intrinseco alla sua fede politica, non c'era bisogno di stimoli esterni. Tuttavia a fargli sentire l'urgenza di muoversi non furono estranei due eventi di segno opposto, susseguitisi rispettivamente nel settembre e nell'ottobre: la costituzione a Firenze, ad opera dell'aristocrazia moderata, di una società di mutuo soccorso, ch'egli all'indomani di quanto avvenuto a Castel Pucci dovette recepire come un subdolo e provocatorio tentativo di scalzarlo dalla sua base popolare o quanto meno di porre su di essa un'ipoteca moderata, e successivamente, l'esito particolarmente positivo per le forze democratiche dell'VIII congresso delle Società operaie italiane tenuto a Milano. Non dovettero mancare l'incoraggiamento e il consiglio dei capi della democrazia quarantottesca rientrati dall'esilio, come il Mazzoni, il Montanelli e il Guerrazzi, tutti e tre in cerca di un ruolo nell'ambito democratico, anche se a ridare al D. l'anima di un tempo fu soprattutto l'intesa che sembrò ricomporsi tra Garibaldi e Mazzini nel tardo autunno del '60 sul programma Roma e Venezia. Di questa pluralità di stimoli, di orientamenti e di programmi, con cui la democrazia e per essa il Partito d'azione muoveva al recupero di uno spazio e di un ruolo, il D. riprese ad essere per la Toscana l'obbligato punto di riferimento.
Dal dicembre '60 al febbraio '61 nasceva a Firenze quella Fratellanza artigiana che, sorta con programma montanelliano-mazziniano e struttura ispirata alla grande tradizione dell'associazionismo toscano, si proponeva ambiziosamente come perno organizzativo di tutte le forze artigiane e operaie del paese, e che, pur non riuscendo poi a raggiungere tale obiettivo, esplicò a Firenze e in seguito nella Toscana tutta una notevole funzione aggregatrice, assicurandosi tra le associazioni operaie italiane un incontrastato prestigio. Il D., che ne fu permanentemente anima e tutore, vide così consolidata attorno a sé la base di consenso popolare che da anni lo aveva circondato, e di cui si servì non solo nel perseguimento dei fini di emancipazione economico-sociale, propri dell'associazione, ma per le esigenze a quelli correlate della lotta politica.
Nel frattempo l'ala garibaldina dello schieramento democratico si era rimessa in moto, e sin dai primi giorni del dicembre del '60 il D. aveva ripreso i contatti col risorto Comitato centrale di Genova. Si trattava non solo di rimettere in piedi, in vista dei nuovi obiettivi, i comitati di soccorso e di provvedimento che avevano sostenuto l'impresa garibaldina, ma di prendere iniziative volte al potenziamento dello schieramento democratico con l'occhio rivolto agli operai e agli artigiani. Mentre era impegnato in questa operazione, il D. nel gennaio '61 riprendeva i contatti col Bertani, e con lui si accordò per la creazione a Firenze di un foglio, che, concepito inizialmente come bollettino dei comitati di provvedimento, si realizzò poi come un vero e proprio giornale per cui il Bertani diede i fondi e il D. curò l'impianto e la redazione.
Nacque così di lì a tre mesi, sotto la direzione di A. Martinati, del Montanelli, e del Mazzoni, La Nuova Europa, destinata a divenire con il successivo ingresso di A. Mario e di L. Castellazzo una delle voci più nuove ed originali della democrazia italiana.
Ovviamente l'intento per cui il D. si muoveva nei tre settori dell'iniziativa politica democratica era unico: creare le condizioni di una riscossa in vista del completamento dell'Unità e giungere a un riequilibrio delle forze all'interno del nuovo Stato unitario. Ma l'azione di Garibaldi per Roma, promessa per la primavera, non decollò, e le energie accumulate rifluirono e traboccarono all'interno del Parlamento nel drammatico scontro tra Garibaldi e Cavour dell'aprile '61.
Si avvicinavano intanto i tempi del IX congresso operaio, fissato per il settembre a Firenze, e il D. s'impegnò a fondo per la sua organizzazione: forse sperava di cogliere a vantaggio della Fratellanza artigiana i frutti del successo democratico che si era avuto l'anno precedente a Milano. Ma nonostante i riconoscimenti ottenuti sul piano personale, il suo intento di convogliare tutto il movimento operaio italiano nell'unica struttura mazzinianomontanelliana della Fratellanza artigiana fu frustrato dalla dura opposizione delle società piemontesi, che aprì di fatto nel movimento operaio italiano una lacerazione profonda che non si sarebbe più rimarginata. Nello stesso periodo il D., d'accordo col Bertani, di cui condivideva l'insofferenza per la stasi che sembrava aver colpito il Partito d'azione, si avventurò nel sostegno di una rischiosa operazione cospirativa promossa dal maggiore garibaldino Pianca e tendente a creare in territorio pontificio le condizioni insurrezionali per un attacco garibaldino su Roma. E quando successivamente, fallito il tentativo, il Bertani promosse, tramite un riavvicinamento a Mazzini, un'ulteriore organizzazione delle forze democratiche, sempre in vista di un'azione garibaldina, il D. fu d'accordo con lui. Si giunse così nel marzo del '62 alla fondazione della Società emancipatrice, che riassorbì i comitati di provvedimento vecchi e nuovi e fu base e premessa del nuovo tentativo di Garibaldi su Roma, che si sarebbe concluso ad Aspromonte.
Nel Comitato centrale della nuova organizzazione il D. tenne di fatto le fila alquanto intricate delle forze che la sostennero, provvedendo alle fondamentali operazioni: dalla raccolta dei fondi al sostegno della stampa democratica, dall'addestramento dei giovani nelle Società di tiro a segno al reperimento clandestino delle armi e alla loro introduzione nei punti prestabiliti. L'impegno profuso nel lavoro può dar la misura dello sconforto e dell'amarezza suscitati in lui dall'esito infausto dell'impresa. Reagì ponendo tutte le sue energie nelle iniziative umanitarie intese a lenire le sofferenze dei feriti e dei detenuti e a fronteggiare le conseguenze dell'ondata repressiva che si abbatté allora su tutte le associazioni democratiche e operaie del paese.
Nel novembre lo troviamo a Pisa chiamato da Garibaldi a partecipare alle intese per la creazione a Roma di un Comitato d'azione, che facesse da contraltare al vecchio Comitato nazionale romano e si opponesse alla sua politica addormentatrice.
La fitta corrispondenza del D. col patriota romano F. Spatafora, uno dei responsabili del nuovo comitato, ci consente di penetrare nelle tormentose vicende di questa iniziativa, che si protrasse dal '63 al '65 e che vide rinascere a Roma, nonostante l'avversione talora spietata del locale Comitato nazionale, un centro di aggregazione democratica militarmente organizzato, la stampa del giornale clandestino Roma o morte e il tentativo arditissimo, anche se imprevedibilmente sventato all'ultimo momento dalle autorità pontificie, della liberazione dei prigionieri politici dal forte di Paliano.
All'inizio del '63 l'insurrezione polacca riportava drammaticamente all'attenzione dei democratici italiani lo scenario internazionale e gli spiragli che poteva offrire per la soluzione del problema unitario. In appoggio al moto polacco si determinava una nuova intesa tra Mazzini e Garibaldi, in vista di un'azione nel Veneto, che avrebbe dovuto provocare contro l'Austria una generale insurrezione dei popoli oppressi. Raccolta di fondi, aiuto agli esuli polacchi, organizzazione di meetings pro Polonia, e insieme preventive intese coi patrioti del basso Po per l'avviamento di armi al confine veneto, tutto ricadde in gran parte sulle capacità organizzative del D., proprio quando, per le assenze frequenti e talora prolungate del colonnello garibaldino G. Bruzzesi, egli rimaneva di fatto l'unico tramite tra Garibaldi e il neonato Comitato d'azione operante a Roma.
Nell'ambito della ritrovata intesa ai vertici del Partito d'azione, si riattivava la sua corrispondenza col Mazzini, non solo per concertare modalità e opportunità relative al reperimento dei fondi, in cui erano impegnati anche elementi di stretta obbedienza mazziniana, ma anche, qualche tempo dopo, quando la progettata azione nel Veneto era di fatto sfumata, per accordarsi sulla strategia da seguire al X congresso delle società operaie. Mazzini puntava sempre sulla creazione di una direzione centralizzata, e su questo il D. era sostanzialmente d'accordo, anche perché al congresso i democratici avrebbero chiesto compatti l'approvazione di un progetto di statuto generale, ricalcato su quello della Fratellanza artigiana.
A Parma, in ottobre, durante il X congresso delle società operaie il solco aperto a Firenze si fece più profondo e fallì per la seconda volta il tentativo di creare una base unitaria al movimento operaio italiano. Da quell'esito deludente il D. non poté non sentirsi confermato nella linea seguita dopo il congresso di Firenze: quella che privilegiava, nella conduzione dell'associazione, il rassodamento interno in campo regionale rispetto alla spinta espansiva in campo nazionale, almeno fino a che la Fratellanza non avesse raggiunto livelli tali di consistenza e di prestigio da esercitare su tutte le altre associazioni un'irresistibile forza attrattiva.
A un anno di distanza tale linea aveva già dato qualche apprezzabile risultato: gli iscritti erano saliti a 2.238 ed erano state avviate iniziative intese all'incremento delle attività scolastiche serali a favore dei lavoratori, nonché alla messa in cantiere di un grande magazzino sociale e di una banca di credito riservata agli artigiani.
Anche nel settore della stampa si facevano sentire gli effetti della crisi profonda che colpiva le forze democratiche. La stessa Nuova Europa, che dalla primavera del '63 aveva cercato di guardare nel fondo di quella crisi con i famosi articoli di A. Mario sulla "nuova formula", entrò in tali difficoltà finanziarie da farne pronosticare la fine a breve scadenza. L'intervento del D. riuscì a mantenere in vita il giornale, ma solo per pochi mesi. Anche se non poteva condividere gran parte delle critiche, talora violentissime, lanciate dal periodico contro i postulati e i capi storici del Partito d'azione, il D. avvertiva a ragione che lo spegnersi di quell'aperto e inclemente dibattito avrebbe significato una grave perdita per la democrazia italiana.
Peraltro sullo spirare del '63, ai margini della drammatica crisi che colse allora la Sinistra parlamentare, e che portò alle dimissioni in massa della pattuglia rivoluzionaria in contrasto con quella legalitaria guidata da Crispi e Mordini, si ebbe un nuovo sussulto del Partito d'azione. Nell'ambito garibaldino sorgeva in gran segreto il Comitato unitario centrale italiano, facente capo a B. Cairoli, con lo scopo di riprendere per la primavera successiva il tentativo di sollevazione del Veneto e del Trentino sfumato nel corso del '63, ma spogliato questa volta del sogno mazziniano dell'insurrezione dei popoli. Il D. si pose a riattivare la fitta rete di rapporti già tessuta nei mesi precedenti, ma il progetto osteggiato dal governo e indebolito ai vertici e alla base dai contrasti della Sinistra parlamentare finì anche questa volta nel nulla.
Mentre il Partito d'azione si avviava così verso quest'ulteriore delusione aggravando una crisi d'impotenza che sembrava ormai inarrestabile, era giunto a Firenze verso la fine del gennaio '64, quando erano ancora intatte o quasi le speranze e le illusioni sull'iniziativa, il rivoluzionario russo Michail Bakunin, presentato al D. da ampie commendatizie di Mazzini e di Garibaldi. L'incontro cordiale tra i due rappresentò per l'uno un rapido e agevole ingresso nell'ambiente democratico fiorentino, e per l'altro un più largo e frequente contatto con l'emigrazione democratica internazionale presente a Firenze.
Il D., allo scopo di favorire e insieme cautelare l'impatto del russo con la realtà politica locale, lo introdusse nella loggia massonica "La Concordia" dove egli stesso era entrato dal '62, con l'intento di democratizzarla dall'interno e sintonizzarla con le esigenze del Partito d'azione. Questa valutazione strumentale trovò pienamente d'accordo il nuovo arrivato, il quale da allora lavorò strettamente col D. e col Mazzoni per un profondo rinnovamento della massoneria. Va ricordato che il D. fin dall'agosto del '63 aveva ricevuto mandato di promuovere, insieme con G. Alvisi e C. Lunel, l'unificazione delle due branche della massoneria italiana, facenti capo rispettivamente a Torino e a Palermo. L'ambizioso obiettivo sembrò raggiunto, verso la fine del maggio del '64, nel congresso massonico tenuto a Firenze nei locali della stessa loggia "La Concordia". Ma il successo colto con la proclamazione di Garibaldi a gran maestro dell'unificata associazione doveva rivelarsi alquanto effimero se la divisione un mese dopo tornò a riemergere, costringendo il generale a limitarsi alla presidenza della branca facente capo a Palermo. La deludente conclusione della vicenda, se confermò lo scetticismo del russo sulla consistenza di una associazione così sfuggente, rese il D. più attento e guardingo alle idee che il Bakunin cominciava ad avanzare di una non ben definita fratellanza segreta a sfondo sociale e carattere rivoluzionario, che per le masse operaie avrebbe dovuto costituire ben altro cemento unificante che non i principi del Partito d'azione, che anche il comune amico G. Mazzoni giudicava ormai logori e superati.
B D., pur interessandosi alle suggestioni dell'agitatore straniero, restava fermo nel ritenere che i principi che avevano animato il processo unitario dovevano essere pur validi a portarlo a compimento, e che ogni nuova impostazione ideale e programmatica riguardante il problema sociale era in Italia legittima e attuale solo in quanto funzionale a quel processo e alla sua conclusione positiva.
Neppure il successo del viaggio di Garibaldi in Inghilterra in quella primavera del '64 era valso ad immettere nuova linfa nelle fibre del Partito d'azione. Mentre sfumava definitivamente l'azione nel Veneto, le posizioni di Mazzini e di Garibaldi ripresero a divaricarsi. Il progetto di un intervento garibaldino in Galizia, propiziato da Vittorio Emanuele, trovò nel luglio un primo esplicito dissenso tra i fedelissimi. Anche il D., i cui rapporti coi mazziniani di Firenze si erano nuovamente intorbidati, fu contrario a quell'impresa. In quella sorta di vuoto di potere che allora si determinò, aderì all'iniziativa dell'amico A. Mordini intesa alla riorganizzazione della travagliata rappresentanza di sinistra, lui che qualche mese prima aveva lasciato cadere per la Toscana una consimile iniziativa, lanciata a Napoli da G. Ricciardi.
Nello sconcerto generale, il D. stette però bene attento a non lasciarsi sfuggire la presa sulla base popolare. Così quando, in quella stessa estate, lo scoppio dello scandalo delle ferrovie eccitò gli animi a Firenze, egli fu tra gli organizzatori di un meeting di protesta, di cui G. Carducci avrebbe dovuto tenere il discorso principale. Quando però, qualche tempo dopo, la protesta si riaccese contro la legge sul dazio di consumo e assunse colore reazionario, si prodigò per bloccarla.
Nonostante la acuita coscienza di un disagio sociale che si andava diffondendo nelle masse e delle dimensioni extranazionali del fenomeno, il D. restava oltremodo vigile a che, nelle azioni intese di volta in volta a rimuoverlo, non venissero lesi i principî che avevano guidato il processo nazionale e unitario ancora in corso, convinto che in essi e nella loro definitiva affermazione fosse il presidio più valido di una soluzione non effimera dei problemi sociali. Questo spiega la saldezza del suo rapporto con Garibaldi e la persistenza, anche se intermittente e venata di riserve, di quello col Mazzini, il quale proprio allora, nel settembre, tornava dopo un lungo silenzio a scrivergli per esortarlo a organizzare manifestazioni di protesta contro la convenzione di settembre.
In un primo momento il D. aderì, anche perché sembrava che quel compromesso procrastinasse a tempi indefiniti la soluzione del problema di Roma, ma quando poi Mazzini pensò di coinvolgerlo nell'organizzazione della Falange sacra dovette sperimentare un tacito ma sostanziale rifiuto. Del resto il D. non poteva non tener conto dell'opinione realistica, che dopo il primo sfavorevole impatto stava emergendo nell'ambiente toscano e altrove per le implicazioni positive del trasferimento della capitale nel centro della penisola. Per quanto poi più direttamente riguardava la Fratellanza artigiana non poteva sfuggirgli il prestigio che ad essa sarebbe derivato dal risiedere nella città capitale del nuovo Stato con possibilità enormemente accresciute di rapporti immediati coi centri decisionali. Anche se per i contrasti sorti in seno al movimento operaio aveva dovuto rinunciare alla linea dell'espansione in campo nazionale, è chiaro che a quest'ultima meta teneva sempre fisso lo sguardo. La partecipazione massiccia della Fratellanza alle agitazioni che in quel periodo si erano avute a Firenze per l'abolizione della pena di morte, per il suffragio universale, per l'istruzione obbligatoria e gratuita, e infine per la soppressione delle corporazioni religiose, costituiva di fatto, nella depressione in cui versavano le altre società operaie dopo i congressi di Firenze e di Parma, un chiaro segnale delle potenzialità implicite nell'associazione fiorentina. Ma i tempi che intercorrevano dal nuovo congresso operaio erano troppo stretti perché il D. potesse cogliere dal trasferimento della capitale gli auspicati vantaggi e farli valere sul tavolo della mediazione con le altre società.
In rappresentanza della Fratellanza alla fine di ottobre il D. inviò a Napoli all'XI congresso A. Martinati, senza farsi soverchie illusioni che potesse esser superato il solco che dal '61 divideva le associazioni operaie. Infatti, nonostante che in quella sede, auspice Mazzini, venisse approvato un progetto di statuto che accoglieva parte degli elementi presenti in quello della Fratellanza artigiana, si trattò ancora una volta di una vittoria illusoria dato il numero ulteriormente ridotto delle società partecipanti e la persistente latitanza di quelle piemontesi. A rimuovere peraltro il D. in quel tardo autunno del '64 dai problemi del movimento operaio sopravvennero i moti del Friuli, che lo videro impegnato, esponente del redivivo Comitato centrale unitario, in tutte le iniziative prese a sostegno degli insorti e poi, fallito il moto, in quelle intese a lenirne le conseguenze.
Nel novembre rientrava a Firenze, reduce da un lungo viaggio che lo aveva portato in Svezia, a Londra e a Parigi, l'amico Bakunin, che era partito agli inizi dell'estate per un breve soggiorno sui lidi napoletani. Tornava con un preciso progetto: lavorare per l'impianto in Italia, come gli era riuscito di fare in Svezia, della sua società segreta socialista internazionale. In linea subordinata si riprometteva altresì di diffondere i principi dell'Internazionale, fondata a Londra nel settembre, sulla scia dell'entusiasmo suscitato da Garibaldi nel proletariato inglese e con l'intervento indiretto di Mazzini nell'elaborazione del primitivo programma. Una volta a Firenze, l'agitatore si pose subito al lavoro, riprendendo i contatti con l'emigrazione internazionale e con l'ambiente democratico e massonico gravitante attorno al D., il quale continuava a vedere in lui soprattutto il prezioso alleato e consigliere nel sempre incombente problema del rinnovamento e dell'unificazione delle forze massoniche.
Ne derivò che quando dalle volute del discorso massonico il russo cominciò successivamente a riprendere e a dipanare le fasi ulteriori del suo complesso programma avveniristico, il dissenso di fondo del D. non tardò a riemergere in tutta la sua insuperabile consistenza. Fu chiaro che con la fede patriottica e il buon senso del D., che, a differenza del Mazzoni, ben più ricettivo al verbo di Bakunin, aveva una forte base popolare da gestire, era arduo andare oltre un sincero interessamento per le prospettive che si aprivano alle forze democratiche operaie dei più avanzati paesi europei, e che quello stesso interessamento era partecipato solo nella misura in cui quelle prospettive fossero congruenti, non solo con le concrete condizioni italiane, ma anche e soprattutto con i problemi politici di fondo della nazione italiana, mazzinianamente sentiti come prioritari e condizionanti di ogni suo sviluppo economico sociale.
Bakunin perciò dovette rendersi conto che il terreno su cui aveva pensato di poter seminare era in realtà più sterile di quanto non avesse previsto e, tornato nel giugno del '65 nell'ambiente napoletano, decise di non rientrare più nel capoluogo toscano, troncando di fatto ogni rapporto politico con esso.
Per tutto il '65 l'attività del Partito d'azione, salvo l'agitarsi febbrile ma poco concludente dell'ala mazziniana, rimase ferma. Il D. continuò a mantenere il contatto clandestino con i patrioti romani, che l'anno precedente aveva aiutato, dopo il parziale disimpegno di F. Spatafora, a rimettere in piedi una struttura organizzativa che ne continuasse in qualche misura le funzioni. Rivolse anche le sue energie al potenziamento della Fratellanza artigiana, che raggiunse allora i 3.643 iscritti, ancora ben lontani dai traguardi auspicati per imporsi in campo nazionale. Cominciavano intanto a delinearsi nell'ambito della Sinistra i tre blocchi facenti capo rispettivamente a Mordini, a Crispi e a Bertani. Sebbene alla loro base non mancassero serie e motivate ragioni di ordine politico e programmatico, il D. preferì restarsene appartato e indipendente.
Lo vediamo però impegnato in tutte le iniziative che riteneva potessero favorire l'affiatamento e l'intesa delle forze democratiche, come l'impianto a Firenze, insieme col Martinati e con F. Piccini di una Società del libero pensiero, probabilmente in reazione agli strali del Sillabo; la fondazione insieme a N. Lo Savio, insegnante di economia nelle scuole della Fratellanza artigiana, della loggia massonica "Il Progresso sociale"; e infine la creazione del periodico socialisteggiante IlProletario, diretto dalla stesso Lo Savio, in cui è dato rintracciare, insieme al mazzinianesimo sociale di fondo, un'eco della predicazione bakuniniana, per quanto l'ambiente fiorentino poteva recepirne.Le elezioni del 22 ott. '65 non crearono condizioni favorevoli alla ripresa delle forze democratiche, anzi accentuarono il distacco in atto tra una Sinistra costituzionale, peraltro divisa nei tre tronconi sopra menzionati, e la parte extraparlamentare scissa a sua volta tra Mazzini e Garibaldi. In una situazione siffatta il D. dovette rendersi conto che il trasferimento della capitale a Firenze, anziché accrescere le sue possibilità, sia riguardo alla Fratellanza artigiana sia riguardo alla base democratica più vasta su cui operava, le aveva in certa misura ristrette. La crisi al vertice della Sinistra si travasava direttamente alla base per il facilitato rapporto dei quadri intermedi o dei singoli coi vertici in subbuglio.
Il suo indifferenziato rapporto coi Mordini, i Crispi e i Bertani, quello permanente con Garibaldi, quello pur intermittente con Mazzini, la sua stessa inalterata fiducia sulle possibilità di un riaccostamento delle parti in vista dell'azione, non erano ormai più sufficienti per mantenere unita e concorde una base popolare, su cui si rifletteva in modo diretto e immediato il contrasto dei vertici. Seguirono mesi di stasi apparente, ma d'intensa attività per uscire dall'impasse. Finalmente, nel marzo '66, il D. ritenne, o volle credere, di aver trovato con A. Mario e L. Castellazzo la via risolutiva in un ardito tentativo d'unificazione di tutte le associazioni democratiche e operaie italiane sotto il centro fiorentino. Ma il progetto, cui in seguito si era associato Bertani, e che contemplava un grande convegno a Firenze, non poté giungere a compimento, perché attraversato, mentre pareva avviato al successo, da un controprogetto del Centro repubblicano di Milano, che riuscì in breve tempo a riunire a Pavia una nutrita rappresentanza di associazioni ligie alle indicazioni mazziniane. La guerra alle porte distolse da quella vicenda, che aveva riacceso il contrasto latente tra mazziniani e garibaldini lasciando intatti tutti i problemi che si era preteso risolvere, mentre qualche tempo dopo l'offerta di Garibaldi al re di partecipare alla liberazione del Veneto con un corpo di volontari riportò il D. all'impegnativo lavoro dell'organizzazione dei volontari, pur imbrigliato questa volta nella commissione governativa creata a tale scopo.
L'infelice conclusione della guerra e l'ondata di risentimenti suscitata nel campo garibaldino attenuarono il contrasto con l'area repubblicana. Nel settembre del '66, nell'ambito del riavvicinamento tra Mazzini e Garibaldi, il D. aderì, pur con riserve, all'Alleanza repubblicana e anche a una ripresa comune del lavoro per Roma. Ai primi di novembre un primo assenso di Garibaldi alla richiesta di Mazzini di cedere al risorto Comitato romano le armi custodite a Terni da P. Faustini, che il D. aveva a lungo salvaguardato in vista di una ripresa dell'attività cospirativa, sembrò sanzionare definitivamente l'intesa. Ma si trattò di una breve illusione.
Dopo lo sgombero da Roma delle truppe francesi avvenuto nel dicembre, la riscossa della Sinistra parlamentare che vedeva nel netto ripudio di ogni suggestione rivoluzionaria la necessaria premessa per una partecipazione al governo, logorò rapidamente la fragile intesa che sul piano emotivo si era determinata tra le due ali dello schieramento democratico, facendo riemergere in tutta la sua autonomia la linea garibaldina, che puntava ormai decisamente sulla liberazione di Roma, con o senza l'auspicata insurrezione, e sulla sua annessione al Regno unitario.
Nel febbraio del '67 gli infiammati discorsi di Garibaldi nella lotta elettorale aperta dalla crisi del governo Ricasoli, tutti incentrati sulla necessità inderogabile di risolvere l'ultima questione nazionale rimasta sul tappeto, trovarono il D. perfettamente allineato nella prospettiva di una ripresa massiccia dell'azione per Roma al di fuori dei rigidi schemi mazziniani.
Invano Mazzini chiese al D. l'ordine di consegna delle armi di Terni, che non aveva potuto avere da Garibaldi. Era sorto intanto a Roma, subito dopo la partenza dei Francesi, il Centro d'insurrezione, teso a coagulare tutte le forze disponibili per l'azione per Roma, mirando a Garibaldi come unico punto di riferimento. Per assicurare al progetto una solida base di consenso e i fondi necessari, il D. si dedicava con ogni energia ad un ulteriore tentativo di unificazione delle forze massoniche e insieme a fronteggiare e a risolvere rapidamente la difficile crisi, che proprio allora aveva colto la banca della Fratellanza artigiana, da lui a lungo propugnata ma non nelle forme che avevano finito col prevalere.
La formazione del governo Rattazzi nell'aprile del '67 sembrò consentire al movimento un più deciso incremento. D'altra parte l'offerta a Garibaldi del titolo di generale romano da parte del Centro d'insurrezione e insieme l'emanazione del manifesto che ne definiva gli scopi erano segnali destinati a non lasciare a lungo indifferente l'opinione pubblica. Era sorto intanto alla fine di marzo a Firenze, per volontà di Garibaldi e sotto la direzione di M. Montecchi, il Centro dell'emigrazione per l'organizzazione degli esuli romani, ed è probabile che fosse utilizzata la fitta rete di rapporti che al D. faceva capo. Quando qualche tempo dopo si passò dalle intenzioni e dai proclami ad un inizio di azione, i rapporti tra il D. e P. Faustini di Terni s'intensificarono, evidentemente per l'apprestamento logistico della banda che nel giugno sarebbe sconfinata in territorio pontificio.
L'intento palese era di sondare la consistenza delle forze pontificie, quello segreto di costringere il governo ad uscire dall'ambiguità e a rivelare le sue vere intenzioni. E quanto avvenne, con l'arresto degli sbandati e dello stesso Faustini e la raddoppiata vigilanza sul confine, confermò che il governo non intendeva scostarsi dalla sua posizione di rigido rispetto della convenzione stipulata con la Francia, deciso a portare avanti, in pieno accordo con la Sinistra parlamentare, il risanamento economico finanziario del paese. Ma Garibaldi non se ne diede per inteso. Cade infatti in questo periodo un poco noto tentativo propiziato da lui, da Edmond Beales, presidente della Reform League, e dal D. per creare un'intesa tra le forze operaie inglesi, tedesche e italiane in appoggio all'impresa di Roma; e, nell'esigenza di trovare all'estero i fondi che non si trovavano all'interno, si inquadrano anche i successivi sondaggi fatti da parte garibaldina in Inghilterra e nell'ambiente prussiano.
Proprio nei giorni del tentativo di Terni, a premiare gli sforzi del D., veniva finalmente raggiunta in un congresso costituente convocato a Napoli l'auspicata unificazione delle forze massoniche con la proclamazione di Garibaldi a gran maestro dell'associazione e l'ingresso del D. nel Grande Oriente insieme a Mordini, De Boni e altri noti patrioti. Ai primi del luglio '67 poi la definitiva caduta del progetto Ferrara sui beni ecclesiastici e soprattutto la missione a Roma del generale Dumont crearono per motivi diversi un clima più favorevole al progetto garibaldino, mentre sempre nel luglio la fusione del Comitato nazionale romano col Centro d'insurrezione, che aveva finito con l'assorbire gli sparuti gruppi repubblicani presenti a Roma, e la nascita della Giunta nazionale romana, come nuovo e unico centro decisionale, apparvero come il segno indubbio di un riaccostamento di forze in vista di un comune obiettivo. Anche se il governo ribadiva la sua posizione ufficiale, mantenendo intatto il dispositivo repressivo sui confini e perseguitando il movimento con nuovi arresti a Terni e a Gaeta dove venne bloccato un emissario del D., Garibaldi continuò imperturbato per la sua strada e ai primi del settembre 1867, dalla tribuna del congresso della pace a Ginevra, non si peritò di lanciare la sua sfida al Papato preannunciando prossima la liberazione di Roma. Al suo ritorno, mentre l'attività del fronte garibaldino si faceva febbrile e il D. era tutto preso dai problemi del reperimento dei fondi e delle armi, nonché dell'avvio dei volontari ai centri di raccolta, il governo maturò un più drastico intervento e il 21 settembre ribadì in modo inequivocabile la propria opposizione all'impresa. Le conseguenze non si fecero attendere; la Giunta nazionale in cui erano confluiti Comitato nazionale e Centro d'insurrezione si sciolse, mentre nel vertice garibaldino invano si tentò di trattenere il generale dall'avviarsi verso il confine. Ma l'arresto di Garibaldi a Sinalunga innescò conseguenze che andarono molto al di là delle previsioni governative.
Il risentimento dell'opinione pubblica e la dissociazione della Sinistra parlamentare ridettero vigore alle tesi di Mazzini, il quale dopo mesi di silenzio tornava a scrivere al D., dicendosi pronto a porsi a disposizione del partito per reagire all'atto oltraggioso, ma ponendo due condizioni: azione immediata e bandiera repubblicana. L'offerta veniva fatta seguire da un'attestazione di scetticismo sul suo esito, che chiamava in causa la stessa fede politica del D.: "Pesa su voi l'equivoco dal quale non avete voluto sprigionarvi". Non sappiamo se e cosa rispondesse il D. una volta consultato il vertice garibaldino, ma non è improbabile che il distacco definitivo tra i due maturasse proprio in quei giorni cruciali che seguirono Sinalunga e che videro il D. impegnato come non mai a rifornire, tra mille difficoltà e nella confusione generale, le bande che febbrilmente si organizzavano ai confini, contribuendo in modo determinante a rendere possibile l'insperata ripresa, che stupì Mazzini, costringendolo ad appoggiare di fatto il movimento, nella convinzione che una sua sconfitta sarebbe stata la sconfitta di tutti.Ai primi di ottobre l'impatto col paese fu tale da travolgere e attrarre a sé completamente la Sinistra parlamentare, che con in testa il Crispi rimetteva in piedi il Comitato centrale di soccorso, nell'intento di prendere nelle proprie mani la guida politica del movimento, sottrarlo alle suggestioni mazziniane e premere attraverso di esso sul Rattazzi per un intervento risolutivo. Al centro dell'attività del nuovo organismo, in cui ritroviamo, oltre al Crispi, il Pallavicino, il Cairoli e il De Boni, il D. continuò con ampliate possibilità il lavoro di sempre, attraverso la riattivata trafila di Terni, dove nel frattempo si era trasferito il Fabrizi per organizzare una più adeguata base logistica all'accresciuto flusso di uomini e mezzi.
Il D. era impegnato anche ad inviare via mare materiale da guerra sulle coste dello Stato pontificio, in appoggio a un moto in Roma da mantenere in mani garibaldine, e da sintonizzare con un eventuale attacco dall'esterno alle porte della città. A tale scopo era rientrato in contatto con i democratici per il recupero delle armi del vecchio Comitato d'azione nascoste a Roma e l'apprestamento delle squadre.
Mentre Mazzini puntava ormai apertamente sull'insurrezione romana e possibilmente dell'intero paese da gestire in chiave repubblicana, Napoleone III uscendo dalle sue perplessità decideva l'intervento costringendo il Rattazzi, dopo il diniego del re ad appoggiare la sua risoluzione di sfidare l'imperatore, a dimettersi.
L'incarico al Cialdini per la costituzione di un nuovo governo capace di superare l'impasse, l'arrivo a Firenze di Garibaldi sfuggito fortunosamente al blocco di Caprera e la sua rapida partenza per Passo Corese, crearono di fatto un vuoto di potere che scosse le fondamenta del giovane Stato. Nella situazione divenuta rovente per le notizie drammatiche del mancato moto di Roma e del massacro che ne conseguì della colonna Cairoli, le funzioni del Comitato centrale di soccorso si ingigantirono, mentre sull'onda del sommovimento dell'opinione pubblica affluirono d'ogni parte uomini e mezzi quasi a invocare un intervento risolutivo.
Con la nascita del governo Menabrea lo scenario mutò rapidamente: il 27 ottobre un proclama del re sconfessava aspramente l'azione garibaldina. Invano il Comitato centrale di soccorso replicò il giorno dopo puntualizzando le vere e profonde ragioni che erano alla base del movimento: i ponti erano rotti. Il Comitato veniva disciolto e il corpo garibaldino completamente isolato si trovò solo di fronte allo sbarco delle truppe napoleoniche. Intanto, mentre ad opera del Bertani e di A. Mario sorgeva nei territori liberati il Comitato delle province insorte per sostenersi sul terreno fino all'ormai inevitabile scontro con i Francesi, dal gruppo del disciolto Comitato di soccorso Crispi partiva per il campo in un estremo quanto vano tentativo di dissuasione.
Dopo Mentana il D. continuò come sempre a essere il perno delle diverse iniziative a favore dei feriti e dei prigionieri, entrando con Cairoli, Crispi e Fabrizi nelle commissioni create a tale scopo, anche se il compito forse più gravoso per lui dovette essere quello della soluzione di tutte le pendenze dell'estinto Comitato centrale di soccorso e dell'attività ad esso precedente. Ma nonostante il rapporto cordialissimo con Garibaldi e quelli sempre vivi con gli uomini più in vista dell'ormai frastagliato schieramento democratico, la sua attività sul piano operativo cessò quasi del tutto, ciò che vale del resto per tutto il settore garibaldino. Restava ovviamente il suo impegno nella Fratellanza artigiana, di cui conservò fino alla fine la carica suprema, e che nel clima repressivo sviluppatosi col governo Menabrea vide definitivamente compromessa la sua spinta espansiva in campo nazionale.
Il D. morì quasi improvvisamente a Firenze il 26 luglio 1869. Il cordoglio che colpì l'intera città, con larga risonanza in tutto il paese, e le attestazioni di alto apprezzamento che si levarono da ogni parte dello schieramento politico furono un riscontro autentico del segno profondo da lui lasciato.
Fonti e Bibl.: Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Doffi: si tratta di un imponente carteggio, in parte inesplorato, donato dagli eredi e trasferito da Firenze a Pisa nel 1976. Di tale fondo le lettere di Mazzini al D. relative agli anni 1859-60, in numero di 36, furono pubblicate da J. White Mario in G.D., Firenze 1883, e successivamente da G. Valeggia in G. D. e la democr. in Firenze negli anni 1859-60, Firenze 1913, mentre quelle relative agli anni 1861-67, in numero di 40, furono pubblicate da E. Conti, Lettere ined. di G. Mazzini a G. D., in Rass. stor. del Risorg., XXXVI (1949), 3-4, pp. 159-188. Nell'Edizione naz. degli scritti di G. Mazzini, oltre alle lettere sopra indicate, figurano anche cinque lettere provenienti da altri archivi. Per i rapporti col Bertani e la partecipazione ad iniziative garibaldine cfr. anche Le carte di A. Bertani, Milano 1962, ad Indicem (ma vedi anche "Elenco sommario del contenuto nelle singole cartelle", pp.XIX-XXVI, per un collegamento dei documenti). Si veda inoltre, rinviando alle note dei singoli lavori per ulteriori documenti: J. White Mario, G. D. cit., ad Indicem; M. Gioli Bartolommei, Il rivolgimento toscano e l'azione popolare (1847-1860), Firenze 1905, pp. 219 ss.; L. Minuti, Il Comune artigiano di Firenze della fratellanza artigiana d'Italia, Firenze 1911, pp. 26-60; G. Valeggia, Appunti di storia, in Rass. stor. del Risor., XI (1924), pp. 333-380; E. Conti, Le origini del socialismo a Firenze (1860-1880), Roma 1950, sub voce; G. Manacorda, Il movim. Operaio ital., Roma 1963, ad Ind.; R. Composto, Sulle origini de "La Nuova Europa", in Rassegna stor. toscana, X (1964), pp. 201-217; A. Silvestrini, G. D.: un capopopolo nella rivoluzione dei signori, ibid., XV (1967), 21, pp. 221-232; G. Spadolini, Firenze capitale, Firenze 1967, ad Ind.; G. Macchia, Una lettera ined. di Mazzini a D., in Boll. della Domus mazziniana, XVI (1970), 2, pp. 30-34; Id., Le lettere di Mazzini ai fratelli Botta e la corrispondenza di essi con G. D., in Arch. trim. Rassegna studi del movimento repubbl., II (1976), pp. 141-151; Il movimento operaio ital., Diz. biografico 1853-1943, a cura di F. Andreucci-T. Detti, ad vocem; G. Adami, Giuseppe Mazzoni, Prato 1979, ad Ind.; F. Spatafora, Il Comitato d'azione di Roma dal 1862 al 1867, a cura di A. M. Isastia, I-II, Pisa 1982-1984, ad Indicem.