DOLFIN, Giuseppe
Quarto maschio di Nicolò di Piero e di Elisabetta di Angelo Priuli, nacque a Venezia il 22apr. 1622.
Sopracomito quanto meno dal 1644, una delibera senatoria del 14 marzo 1645 dispone che "dal depositario in cecca" siano "posti nel deposito dell'armar" 3.371 ducati "per far le prime quattro paghe anticipate" a lui "et sue genti". Ed è sempre il Senato che, il 4 aprile, gli ordina di prendere "a rimorchio l'arsile", uno scafo di nave, cioè, privo d'alberi ed attrezzature, "per Veglia". Inizia così, in tono quasi minore, un'esistenza che lo scoppio del prolungato conflitto venetoturco proietta per un decennio - salvo l'"intermissione" d'un rinfrancante soggiorno lagunare di sei mesi - lontano da Venezia tra gli incessanti rischi della guerra e del mare, senza possibilità di affetti, senza concessione ad esigenze private sicché, via via, il profilo del D. si prosciuga risolvendosi nei tratti stilizzati dell'eroe.
Eletto, nell'aprile del 1649, governatore straordinario delle galeazze, il D. diventa, il 3 marzo 1650, "secondo capitano delle navi" come figura negli elenchi e come egli stesso preferisce definirsi. Portatosi all'altezza del "canale" dei Dardanelli, donde scrive al Senato il 19 giugno, il 29 marzo 1651, in un'altra lettera allo stesso, "di nave alla Standia", un'isoletta nei pressi della città di Candia, lamenta gli siano state consegnate "lettere di cambio" per soli 4.000 "scudi d'argento", laddove le spese da lui sostenute eccedono i 6.000 ducati, pei quali s'è indebitato e suo padre, Niccolò, sta appunto pagando "gravissimi interessi" a Venezia. Sia pure riguardosamente, il D. protesta: non solo ha "sparso più d'una volta il sangue" ma è stato anche costretto, per "provvedere al mantenimento della galeazza" ai suoi ordini, ad un "aggravio della sua casa" solo parzialmente risarcito. Nell'aprile il D., "con tre sole navi", si sposta alla "custodia di S. Todaro", una piccola isola nei pressi della Canea. Ma deve lamentare "la mancanza totale" di quanto possa rendere realmente efficace il compito affidatogli, mentre le "militie" sono fiaccate, ché dispongono solo d'un po' di "biscotto" e d'"acqua pessima". I soldati si trascinano come larve smunte "che potrebbero numerarsi più propriamente fra l'ombre". Impossibile, senza soccorso di mezzi e viveri, mantenere quell'ardua posizione. Donde, da parte del D., dopo la sua "demolitione", il trasferimento al grosso della flotta, con la quale partecipa, il 4 luglio, nelle acque di Paro al vittorioso scontro guidato dal capitano generale da Mar Alvise Mocenigo. E in questa battaglia che egli, con la sua nave ed altre sette ai suoi ordini, fa da "scudo alle galere", con le vele ammainate. E, una volta respinto l'attacco nemico, la squadra del D., smessa l'azione di "rimorchio", si lancia all'inseguimento dei Turchi, ha la meglio su tre loro navi e cattura., altresi, e brucia l'ammiraglia. Purtroppo Mocenigo smorza la furente smania combattiva del D. e gli impone di "seguitar", suo malgrado, il primo capitano delle navi Luca Francesco Barbaro. Il D. si sente sottoutilizzato.
Gli si doveva - ne è convinto - concedere d'incalzare ancor più il nemico in fuga. "Bisogna piangere - protesta, in una lettera al Senato, il 28 - le pubbliche disavventure anco nelle vittorie": mentre dispone d'una "squadra piena", grazie al suo galvanizzante incitamento, "di volontà" di lotta, lo si costringe nel quadro vincolante d'una condotta, a suo avviso, troppo prudente, gli si negano i "mezi di ben servire alla patria".
Un piglio aggressivo, questo del D., che viene apprezzato a Venezia, dove - in prossimità del suo temporaneo rientro - lo si nomina, il 20 sett. 1652, primo capitano delle navi, venendo così dispensato dall'ottemperanza all'antecedente elezione, del 25 giugno, a provveditor straordinario a Spalato e Traù. Imbarcatosi a Malamocco nella capitana "Argentaria", il D. - che ama pure qualificarsi "capitano de' galioni"; ed a lui, appunto, "capitano de' galeoni" G. F. Busenello dedica un suo "idilio eroico" - ne salpa, il 17 apr. 1653, alla volta di Candia, che raggiunge - dopo aver toccato Zante - all'inizio di maggio recando il denaro indispensabile agli assediati. Seguono, sino alla primavera del 1654, il volteggiamento attorno a Standia e alla Canea, il girovagare tra Tine (Tino, Tenes), "Stille" o "Sdilles", Metelino, Scio, con puntate a Lero e Samo per imporre contribuzioni, riparare le navi, caricare rifornimenti. Angosciante, comunque, la penuria d'acqua e viveri e malandata, nel complesso, la flotta. E il D. - scrivendone al Senato il 29 aprile - condanna la "viltà" della fuga al Turco di "Zorzi di Bianchi", capitano della "nave Margarita", il quale, è evidente, rivelerà al nemico la difficoltà in cui l'armata veneziana si sta dibattendo. Con sdegno egli, allora nei pressi dei "castelli", ode i festosi spari di cannone con cui i Turchi salutano il rinnegato. A prevedibile che il nemico, incoraggiato dalle informazioni di Giorgio Bianchi, tenterà, tra breve, di sfondare l'esile blocco veneziano dei Dardanelli. E, in effetti, il 14 maggio, la flotta ottomana - composta, stando a quanto ne scriverà lo stesso D. il 27, da 44 galee, 6 galeazze, 30 vascelli barbareschi, alcune "sultane", 3 "pinchi" e altre 4 imbarcazioni - s'affaccia minacciosa all'altezza dei "castelli". Simultanea la comparsa, alla "punta di Grecia", di 22 galere barbaresche e, dalla punta di Troia, di 14 navi, pure barbaresche. Sta iniziando una manovra accerchiante, mentre il 16 le rive asiatiche si riempiono d'armati di cui parecchi s'imbarcano sulle "navi estrate fuori dalle due fortezze" le quali, il 17, puntano contro la flotta veneta, seguite dall'armata sottile ottomana e imitate dai navigli della Barberia.
Inizia, così, violentissima, la battaglia. Per quanto il D. inciti alla pugna, talune navi veneziane, col "vento in poppa", si danno a "frettolosa fuga". Combattive, invece., altre navi e le galeazze, ma la corrente le trascina lontano. Aggredita la nave del D. al "fianco destro" dalla capitana e dall'ammiraglia turche, mentre da sinistra l'investono due "sultane". Il D., perché non cada in mano nemica, fa bruciare la galera di supporto, mentre, per non essere trasportata dalla corrente, s'incatena alla sua nave la galea del capitano del golfo Francesco Morosini, il quale, però, cade colpito da una moschettata e con lui muore, annegato o ucciso, il grosso dell'equipaggio, i cui resti riparano nel "vascello" del Dolfin. Questi impavido si staglia terribile nella mischia, "con la spada in mano", a "petto nudo". A "solo, abbandonato da tutti", ma non dall'"onnipotente Iddio". Tra il crepitio delle moschettate e il rimbombo delle cannonate, urla ordini, incoraggia, sprona, si batte strenuamente col "ferro nudo". Ma la corrente sta trascinando la sua nave verso terra e su di quella si sta avventando un nugolo di navi nemiche. Ormai prossimo a cadere l'albero maestro, "fracassate le antenne", "offeso il trinchetto", pericolante "la mezzana", "rotto il timone", "tagliate" le "sartie" e le "corde", stracciate le vele, "mutilata" l'artiglieria, la nave, tutta "lacera" e "conquassata", non è solo preda della corrente, ma comincia a affondare. Una situazione disperata. Il D. fa "tagliare la gomena" e, privo di timone, s'affida a "Dio benedetto", invoca il suo aiuto. E, quasi da Dio "governata", la disastratissima imbarcazione "girò" la prora e, facendosi "adito" con un nutrito fuoco d'artiglieria, sfugge agli assalitori fendendo l'"arniata grossa e sottile" nemiche, schivando l'assalto dei vascelli barbareschi. Un salvataggio che ha del miracoloso, stando al racconto del D. che, ferito seriamente al braccio, colla nave carica di morti e feriti, favorito dalla tramontana, riesce a puntare alla volta di Tine e a ricongiungersi all'armata veneziana.
"Rilevantissimi", insiste il D. nel concludere il suo racconto, i "danni" - che in una successiva lettera da Cerigo del 16 giugno vengono così quantificati: sono morti circa 3.000 giannizzeri, "più d'altretanti ... delle ciurme", "moltissimi" i "feriti"; s'aggiungono la perdita d'una galeazza, l'affondamento d'una galera, l'incendio di due vascelli, oltre al fatto che molti navigli nemici sono stati gravemente lesi - inflitti al Turco. Se le navi non fossero fuggite, insiste, se le galeazze avessero potuto resistere alla corrente, certo Venezia gli avrebbe inferto una tremenda sconfitta. Il Turco - questa la tesi che, al di là dei dettagli sullo scontro, ispira le sue lettere - è battibile: però occorrono navi meglio attrezzate d'artiglieria, equipaggi e truppe qualificate e, pure - e qui il D. è polemicamente sarcastico - "capitani" coraggiosi, non "capitani che mai hanno visto la faccia dell'inimico". Esemplare il comportamento della "nazione fiarninenga ... sempre da me benedetta". Per parte sua, ribadisce il D., la sua "volontà" e la sua stessa "vita" sono sempre a disposizione di Venezia. Certo che, sinché mancano viveri e munizioni, Venezia non è in grado di sfruttare i suoi momentanei successi passando all'offensiva.
Quanto al D., le sue condizioni fisiche logorate esigono una pausa e, anche per questo, a Venezia si nomina come suo successore Lazzaro Mocenigo. Cosi egli, il 16 novembre, può partire da Candia tornandosene "in patria ... dopo haver imposto - così il provveditor generale dell'isola Andrea Corner - il più degno nome di sé medesimo e per valore e per direttion prudentissima e per ogni altra parte di desterità e di zelo fatta con tutto il lustro apparire nel corso della sua carica". Rientrato a Venezia come l'eroe, stando ai versi di Busenello, che "non pave", che sfida "i perigli" con "generoso ardimento", che "dal sangue ottoman superbo elice", che, addirittura, come esagera N. Beregan, "vince l'Africa e l'Asia" d'un colpo si che si può predire il "naufragio" alla mezzaluna, il D. risulta eletto, il 30 sett. 1656, dei 60 della zonta del Senato. Ma si tratta d'un avvio alla vita politica che non ha seguito, ché muore, a Venezia, il 4 maggio 1657.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, 58, c. 332v e 3820/1 alla voce "Dolfin Marcantonio"; Ibid., Senato. Mar, reg. 103, cc. 12r, 32r, Sgr; Ibid., Senato. Lett. provv. da Terra e da Mar, filze 805, lett. nn. 33 e 1157, ove in due lettere dei padre, del 5 e 13 sett. 1646, s'accenna al D. in viaggio da Lesina a Corfú, e 1328, passim (specie le lettere del D. del 19 giugno 1650-16 giugno 1654); Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 845 (8924): Raccolta de' consegi, XXXIII, cc. 42r, 78v; G. Gualdo Priorato, Scena d'huomini illustri..., Venezia 1669, p. n. num. (cenno al D. nel profilo dedicato al fratello Giovanni); M. Merian, Das ... bestrittene Königreich Candia..., Frankfurt 1670, p. 11; G. Brusoni, Historia dell'ultima guerra tra Veneziani e Turchi..., I, Venezia 1673, pp. 263-264; G. A. Manzoni, Documenti consecrati all'illustriss. ... Daniele Delfino ..., Venetia 1675, pp. 76-77; N. Beregan, Compositioni poetiche ..., Venezia 1702, p. 77; B. Nani, Hist. della Rep. ven., in Degl'ist. delle cose veneziane, IX, Venezia 1720, pp. 279, 315, 329-332; A. Valier, Storia della guerra di Candia, I, Trieste 1859, pp. 262-266 passim; P. Daru, Hist. ... de Venise, V, Paris 1821, p. 63; G. Gatter-F. Zanotto, Storia veneta in centocinquanta tavv., Venezia 1854, tavv. 128 (solo nel testo rievocativo), 129; S. Romanin, Storia di ... Venezia, VII, Venezia 1858, pp. 424-426; L. Dolfin, Una famiglia ... i Dolfin..., Genova 1904, pp. 38-39; A. Medin, Venezia nella poesia, Milano 1904, pp. 317, 550; A. Livingston, La vita veneziana nelle opere di G. F. Busenello, Venezia 1913, p. 210; B. G. Dolfin, I Doffin ..., Milano 1924, pp. 37, 167-170, 316, 320, 323, 335, 374; P. Molmenti, Storia di Venezia nella vita privata, III, Bergamo 1929, p. 10; H. Kretschmayr, Geschichte von Venedig.- III, Stuttgart 1934, p. 329; M. Nani Mocenigo, Storia della marina veneziana..., Roma 1935, pp. 165, 169; R. Quazza, Preponderanze straniere..., Milano 1938, p. 231; A. Valori, Condottieri ... del Seicento, Roma 1943, p. 127; E. Eickhoff, Venedig, Wien und die Osmanen..., München 1970, pp. 114-115; Storia della civiltà veneziana, a cura di V. Branca, III, Firenze 1979, p. 437; Venezia e la difesa del Levante..., Venezia 1986, p. 268.