DOZZA, Giuseppe
Nacque a Bologna il 29 nov. 1901 da Achille e da Virginia Mattarelli.
Le modeste condizioni economiche della famiglia lo costrinsero nel 1913 ad abbandonare la scuola e a impiegarsi come fattorino presso un'agenzia di viaggi e trasporti. Appena compiuti 14 anni s'iscrisse alla Federazione giovanile socialista, della quale sarà dirigente cittadino e regionale. Prese la tessera del partito nel 1918. Nel luglio 1919 la prefettura lo rubricò tra i seguaci della frazione rivoluzionaria e ne dispose l'assidua sorveglianza. Nel pieno delle agitazioni del biennio rosso per i rinnovi dei contratti di lavoro della manodopera agricola, fu a Medicina (Bologna) segretario del comitato comunale delle leghe bracciantili e amministratore dei terreni, a conduzione in economia, occupati a fine marzo 1920.
Allineato alle posizioni bordighiane, aderì dalla fondazione (gennaio 1921) al Partito comunista d'Italia (PCd'I) e alla Federazione giovanile comunista. Nello stesso 1921 diventò funzionario del partito e segretario della federazione bolognese. Il 2 genn. 1922, su denuncia della questura, il giudice istruttore del tribunale di Bologna emise nei suoi confronti un ordine di cattura, in breve revocato dalla sezione d'accusa: da corrispondenza intercettata era parso emergere il suo coinvolgimento nell'organizzazione di apparati clandestini a scopo rivoluzionario. Il successivo 6 agosto, a pochi giorni dal fallimento dello sciopero generale "legalitario" promosso dall'Alleanza del lavoro, nella cui preparazione nel capoluogo emiliano era stato molto attivo, un gruppo di fascisti comandati da D. Grandi irruppe nella casa di via Arienti, dove viveva con i familiari, sparando e lanciando bombe incendiarie. Il D. era altrove, ma le modalità dell'assalto non consentivano dubbi sui propositi degli squadristi. Fu perciò deciso il suo trasferimento e impiego a Roma, presso l'ufficio di segreteria dell'esecutivo nazionale del partito.
La stretta repressiva contro i comunisti italiani attuata dalla Pubblica Sicurezza dopo il colpo di Stato del 28 ott. 1922 condusse all'arresto del D. nella capitale il 3 febbr. 1923. Rinviato a giudizio per associazione sediziosa, incitamento all'odio fra le classi sociali e all'insubordinazione, e processato in corte d'assise insieme con numerosi altri esponenti del PCd'I, il 26 ottobre venne assolto per insufficienza di prove.
Il D. verrà arrestato altre due volte dalla polizia italiana. Il 23 marzo 1925 a Milano, mentre partecipava a un'assemblea di operai (tradotto a Bologna, fu rilasciato senza addebiti il seguente 1° aprile), e il 17 apr. 1926 a Napoli, alla stazione ferroviaria. Denunciato in questa circostanza di nuovo per incitamento all'odio di classe e per vilipendio delle istituzioni e atti finaliizati al loro sovvertimento, il 6 dicembre la corte d'assise straordinaria del capoluogo campano lo condannò a 12 mesi di reclusione, a 1.000 lire di multa e al pagamento delle spese processuali, ma in contumacia. Infatti, messo in libertà provvisoria, il 10 agosto si era reso irreperibile.
Da allora riuscì sempre a eludere in Italia le molte indagini e segnalazioni degli organi investigativi e gli ordini di cattura spiccati a suo carico. Il 25 genn. 1929 sarà invece preso a Basilea dalla polizia svizzera. Tornerà libero a metà febbraio.
Alla fine del 1923 il D. venne nominato segretario della Federazione giovanile comunista d'Italia (FGC) che, colpita nei mesi precedenti dall'arresto della quasi totalità dei dirigenti federali e dei componenti il comitato centrale, era in un momento di grave crisi. Il 12 maggio 1924 Si uni in matrimonio a Bologna con Santa (Tina) Dall'Osso, imolese, nata l'8 genn. 1899 in una famiglia di militanti anarchici, e subito dopo raggiunse Como, nel cui dintorni si doveva svolgere la conferenza nazionale del partito.
Qui si schierò ancora con la sinistra bordighiana, ma il serrato confronto sui compiti dei comunisti nella situazione politica italiana q sui rapporti con il Komintern (Internazionale comunista), che seguitò a svilupparsi nel PCd'I lungo i restanti mesi dei '24 e nel 1925, concorse ad acquisirlo alle posizioni di centro del gruppo che si era andato formando attorno ad A. Gramsci e che prevarrà al congresso di Lione del gennaio 1926. Alle tesi della nuova dirigenza del partito aderì anche il congresso della FGC, svoltosi vicino a Biella, a ridosso della chiusura dei lavori di Lione.Nel luglio 1927 il D. fu inviato a Mosca a rappresentare la FGC presso l'Internazionale comunista della gioventù (KIM), ricoprendo l'incarico per undici mesi.
Il suo primo incontro con il variegato milieu del movimento comunista mondiale era avvenuto durante l'estate del 1924, quando con la delegazione della FGC aveva seguito il quinto congresso del Komintern e il quarto del KIM. Alla guida dei giovani comunisti italiani lo sostituì L. Longo. Almeno dal marzo '27 la maggioranza dei membri del comitato direttivo della FGC aveva mostrato di essere più vicina a Longo, condividendone l'opinione che in Italia esistevano condizioni favorevoli a porre obiettivi politici rivoluzionari e criticando gli orientamenti, più cauti, del partito, sostenuti dal Dozza.
Tra il 29 il 31 genn. 1928 il D. partecipò alle conferenze nazionali del PCd'I e della FGC, riunite contemporaneamente a Basilea per discutere del rilancio dell'attività dei comunisti nel paese dopo i provvedimenti legislativi del novembre 1926, che avevano ridotto nell'illegalità ogni opposizione al fascismo.
Parlando alla conferenza del partito, condannò l'associazionismo dopolavoristico per l'ambigua funzione che il fascismo gli assegnava, ma ne ritenne meritevole di ulteriori attenzioni il carattere di massa. Alla conferenza della FGC riferì sulla situazione delle organizzazioni giovanili in Europa e in Asia, dando rilievo alla crisi dei gruppi socialisti e ai successi, in realtà modesti, conseguiti dalla gioventù comunista. Propose pure che i lavoratori già iscritti alle leghe bianche, i quali avevano respinto l'inquadramento nei sindacati fascisti, confluissero nella Confederazone generale del lavoro (rossa): così, disse, si sarebbero gettate le basi di una futura centrale sindacale unica.
Ammesso nel giugno del medesimo anno nel comitato centrale del partito come membro candidato, il D. appoggiò attivamente la radicalizzazione della politica del PCd'I, seguita al sesto congresso (estate 1928) e al decimo plenum del comitato esecutivo (luglio 1929) del Komintern, fin dalle sue prime implicazioni: l'espulsione, fra il settembre 1929 e il giugno 1930, dei dirigenti resisi invisi ai vertici kominternisti (A. Tasca, A. Bordiga) e di quelli che avevano avversato la nuova linea (A. Leonetti, P. Ravazzoli, P. Tresso), nonché la ricostituzione di uno stabile centro di direzione in Italia (centro interno), complementare al centro estero, impiantato a Parigi nel 1927.
Lungo il '29 e il '30 il D. ebbe l'incarico di responsabile dei gruppi in cui erano organizzati nel Partito comunista francese (PCF) i comunisti italiani, appartenenti soprattutto alla classe operaia, emigrati nel paese transalpino. Più volte egli denunciò i contrasti manifestatisi nei rapporti con il PCF perché agli italiani era disconosciuta un'identità politica propria e perché la Confédération générale du travail unitaire (CGTU) non li tutelava sindacalmente.
Dal settembre 1930 il D. fu clandestinamente in Italia per dirigere il centro interno e avviare la preparazione del quarto congresso del partito.
A quest'ultimo fine intervenne ad assemblee in Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria e Toscana. Tornato a Parigi, il 19 dicembre mise al corrente l'ufficio politico e di seguito il comitato centrale dell'esito della missione e delle considerazioni che ne aveva tratto, diffondendosi sugli inciampi e sui ritardi nell'attuazione della nuova linea politica e in particolare sui gravi impedimenti intervenuti nel lavoro tra le masse operaie, sia per l'inadeguatezza della rete delle cellule comuniste d'officina e di reparto sia per il numero limitato di quadri politici che il centro estero riusciva a istruire e a mandare nel paese, dove molti di essi ricordò, finivano oltretutto per essere arrestati. A rimedio della situazione aggiunse che aveva raccomandato di prodigare il massimo impegno nelle iniziative sindacali e nell'autonoma realizzazione di materiale di propaganda. Il D. si soffermò anche sulla prospettiva della lotta armata contro il fascismo, dicendo che rappresentava l'unico mezzo per abbattere un regime sorretto da un forte apparato militare e che un'efficace politica doveva intanto conquistare al partito gli elementi dell'esercito e della milizia di origine operaia e contadina.
Con il quarto congresso del PCd'I (Colonia, aprile 1931, il D. divenne membro effettivo del comitato centrale e dell'ufficio politico, nonché responsabile supplente della sezione di agitazione e propaganda. A luglio partì di nuovo per Mosca, delegato a rappresentare i comunisti italiani nel comitato esecutivo dell'Internazionale.
Una lettera inviata dalla capitale sovietica l'11 nov. 1931 è tangibile indizio dell'atmosfera che avvolgeva il Komintern. Il D. scrive di aver compiuto un controllo su documenti e altro materiale prodotto dal partito per "trovare tutte le deviazioni possibili e immaginabili. [Qui se] ne voleva qualcuna perché sembrava proprio impossibile che andasse tutto bene; e anche a me sembrava che non trovar niente da dire avrebbe dato l'impressione di un'assenza totale di autocritica" (Roma, Arch. d. Partito comunista [APC], 946/130).
Al ritorno a Parigi, nell'ottobre 1932, il D. entrò nella segreteria, assumendovi la responsabilità della sezione di organizzazione.
Il partito stava attraversando un altro periodo di gravi difficoltà. Dal 1930 oltre 100 quadri una volta giunti in Italia erano caduti nelle mani degli organismi repressivi del regime fascista, e ben 56 nel solo 1932, quando erano finiti in carcere anche quasi tutti i componenti dei comitati federali ricostituiti nei mesi precedenti. In tale contesto, nella primavera del 1933, due risoluzioni, alla cui stesura il D. certamente concorse, sollecitarono i militanti comunisti ad abbandonare ogni atteggiamento cospirativo e, tramite principalmente i sindacati e le associazioni dopolavoristiche, a stabilire saldi legami con l'insieme delle masse lavoratrici per indurle a lottare in difesa dei loro interessi di classe e contro il fascismo.
Nelle risoluzioni era pure previsto che i comunisti diventassero fiduciari sindacali d'officina e dirigenti di sezioni del dopolavoro, a condizione che la nomina avesse una sanzione assembleare. Il collegamento fra rivendicazioni associazionistiche e rivendicazioni sindabali, retributive e normative, per tentare di provocare rotture politiche nel sistema fascista, fu prospettato dal D. nell'articolo Per la conquista delle masse dopolavoriste, comparso sul numero di agosto 1933 di Stato operaio, la rivista teorica del partito. La rilevanza dell'obiettivo, vi sosteneva altresì, comportava la creazione di frazioni comuniste all'interno delle associazioni dopolavoristiche.
All'inizio di marzo il D. si era intanto espresso a favore dell'invio alla Internationale ouvrière socialiste (IOS) da parte del Komintern di un documento interlocutorio sul "fronte unico", suggerendo di individuarne i referenti in Italia nei militanti socialisti e in quelli di Giustizia e libertà, oltre che negli operai cattolici e fascisti. Peraltro egli continuava ad attaccare i capi del fuoruscitismo. Il 12 aprile, sulla Vie prolétarienne, il foglio dei gruppi italiani del PCF, li accusò tutti di professare un antifascismo solo nominale, e negli ultimi giorni di ottobre, sull'Humanité, l'organo dei PCF, schizzando una biografia politica alterata di P. Nenni, descrisse il dirigente socialista come un "provocatore politico, un fascista camuffato, un agente dei nemico nelle file della classe operaia".
Le riserve di settori della base comunista nei confronti delle direttive sull'uso politico della legalità fascista, sulla trasformazione delle organizzazioni di massa fasciste in strumenti della lotta di classe (ma anche sulla "svolta" a suo tempo si erano manifestate riserve), non distolsero il D. dal rinnovare, nel discorso che pronunciò il 31 luglio 1935 a Mosca durante il settimo congresso del Komintern, l'impegno del PCd'I a lottare dall'interno dei sindacati e delle associazioni dopolavoristiche, a rivendicarne la democratizzazione, per arrivare a stringere una forte intesa con le masse lavoratrici e minare la stabilità del regime fascista, determinando le condizioni della sua caduta.
Già nel febbraio precedente il D., in seno al comitato centrale, si era dichiarato certo del prossimo scoppio della guerra fra Italia e Etiopia, e aveva chiesto un sostegno risoluto all'indipendenza del paese africano, auspicando la "disfatta dell'imperialismo italiano" (APC, 1263/21). Alla fine di settembre, in una riunione dell'ufficio politico, invece raccomandò di valutare l'opportunità di un appello dìsfattista tenendo conto dei sentimenti delle masse.
Un mese dopo, in una situazione condizionata dagli sviluppi del conflitto, iniziato il 3 ottobre, di nuovo in comitato centrale il D. affermò che i comunisti italiani dovevano perseguire con ancora più slancio l'obiettivo di un ampio schieramento di forze, di un "fronte popolare" di operai, contadini, intellettuali, artigiani, piccoli commercianti e piccoli industriali, che da rivendicazioni e motivi di malcontento fossero spinti a opporsi alle disastrose iniziative del governo fascista e a isolare Mussolini e il "pugno di profittatori" che lo attorniavano. Aggiunse che era il momento di rivolgersi anche ai "fratelli in camicia nera", di esigere la democratizzazione interna dello stesso Partito nazionale fascista, nonché di suscitare e sostenere un'"opposizione fascista", le premesse della quale il D. coglieva nella crisi latente degli "strati superiori" e nell'acuta insoddisfazione dell'apparato del regime (APC, 1266/7073). Sul n. 5 del 1936 dell'Unità, l'organo del PCd'I, alla denuncia delle stragi provocate tra la popolazione etiopica dai bombardamenti aerei italiani, all'osservazione che il costo finanziario del conflitto si era dilatato massicciamente e al monito che un'eventuale vittoria non avrebbe comunque avvicinato la soluzione dei problemi economici e sociali del paese il D. accompagnò l'esortazione, rivolta alla "massa dei fascisti", compresi i gerarchi preoccupati dell'avvenire dell'Italia e del suo popolo, a non permettere che le sorti dell'intera nazione venissero subordinate agli "ìnteressi di un pugno di grandi azionisti".
L'epilogo delle operazioni militari e la proclainazione dell'Impero (9 maggio 1936), suscitando esultanza in Italia, alimentarono nel D. il timore che crescesse la diffidenza verso i comunisti e che i combattenti rimpatriati dimostrassero aperta ostilità nei loro confronti. Egli si disse convinto che se gli Italiani non avevano avversato la guerra era stato perché si aspettavano dal-suo esito favorevole un miglioramento delle proprie condizioni, mentre dall'Impero si aspettavano una nuova giustizia sociale. E propose che il partito si dichiarasse pronto a favorire una "riconciliazione dei popolo, italiano contro le duecento famiglie" (APC, 1358/16), che detenevano il potere economico nel paese, e anche a "lottare con chiunque per l'applicazione del programma fascista del 1919" (APC, 1358/56). Tali indicazioni del D. furono accolte nell'appello Per la talvezza dell'Italia, riconciliazione del popolo italiano!, pubblicato nell'agosto 1936 su Stato operaio.
L'inizio della guerra civile in Spagna (luglio 1936) e il progressivo intervento dell'Italia fascista e della Germania nazionalsocialista in appoggio ai falangisti apparvero al D. eventi che, se creavano difficoltà alla linea della "riconciliazione.", non ne contraddicevano le motivazioni. Egli pensava che il crollo dei regime mussoliniano non sarebbe avvenuto per fatti di carattere internazionale. D'altra parte non dubitava che un inasprimento dell'iniziativa antifascista avrebbe condotto i comunisti italiani a isolarsi di nuovo dalle masse popolari. Soltanto per i richiami di P. Togliatti - il quale da Mosca, dal segretariato del Komintern, suggerì di rinunciare alla "riconciliazione", a evitare che finisse per sembrare un'avance verso il regime - il D. nel marzo 1937 riconobbe che insistendovi si rischiava di infiacchire la lotta antifascista, di accordare credibilità a ipotesi di riforma del fascismo, di privare di slancio la mobilitazione in difesa della Spagna e contro i falangisti e i loro alleati.
Sul numero di settembre di Stato operaio scrisse poi che occorreva formare prontamente dei quadri da impegnare nel lavoro politico tra le forze armate, con l'obiettivo di far nascere da un eventuale allargamento del conflitto spagnolo la "lotta rivoluzionaria di liberazione del popolo italiano".
In quei mesi il D. curava la propaganda rivolta al reclutamento di combattenti per le brigate internazionali che operavano in Spagna. Suoi articoli di commento agli avvenimenti spagnoli furono pubblicati soprattutto sulle pagine dell'Unità, di Stato operaio e della Voce degli Italiani, giornale dell'Unione popolare italiana, l'organismo che raggruppava un settore dello schieramento politico e sindacale antifascista in Francia, alla costituzione del quale (fine marzo 1937) egli aveva attivamente partecipato. Il D. compì missioni nello stesso territorio spagnolo. Il 27 dic. 1936 da Radio Barcellona rivolse un breve messaggio al popolo italiano. Il 10 febbr. 1938 mise al corrente la segreteria del partito dell'andamento della guerra civile e delle iniziative politiche poste in atto sui fronti di combattimento.
I processi contro molti degli artefici della rivoluzione bolscevica e dei fondatori dello Stato sovietico, celebrati a Mosca a iniziare dall'agosto 1936, avevano intanto aperto una fase più cupa e drammatica nei rapporti fra il Komintern e i singoli partiti comunisti, e di conseguenza in ogni partito comunista. La pubblicistica del PCd'I e gli interventi dei membri del suo centro di direzione si conformarono al clima inquisitorio che si era instaurato. Bersaglio del D. furono trotskisti e "trotskisteggianti", in qualità di presunti controrivoluzionari, alleati e agenti del fascismo internazionale, sabotatori e disgregatori del movimento operaio. Con convinzione sostenne l'esigenza di epurare il partito per difenderlo da provocazioni. L'ufficio politico, riunito all'inizio di marzo 1937, gli affidò la "revisione di tutti i quadri dirigenti dell'apparato del partito, dal punto di vista del loro passato politico", specie se trotskista-bordighiano (APC, 1432/54). Ma la pubblicazione, a dicembre, sui nn. 12 e 13 di Stato operaio, dell'articolo Vigilanza rivoluzionaria, ebbe per lui serie conseguenze politiche.
Il D. vi aveva accentuato la complementarità tra fascismo e trotskismo-bucharinismo-bordighismo, che da "corrente antileninista del movimento operaio" si era mutato in "pattuglia di punta" della lotta anticomunista. Riferendosi, in un diverso passaggio dello scritto, a un episodio della storia del movimento bolscevico prima della rivoluzione, aveva altresì avanzato la tesi che una giusta politica di massa avrebbe comunque isolato i provocatori che fossero riusciti a infiltrarsi nei ranghi del partito, e sconfitto i loro piani.
A firma della segreteria e di mano di G. Berti, rappresentante del PCd'I presso il Komintern, sul primo numero del 1938 della medesima rivista comparve un'aspra replica alle asserzioni del Dozza. Vi si sosteneva che un partito rivoluzionario era tale per quanto si dimostrava "capace di difendersi" e di rafforzare la vigilanza, e per quanto seguiva le direttive di Stalin sulla "liquidazione dei trotskisti e degli altri praticanti il doppio gioco". La conclusione era che, mancando queste proposizioni, non si sarebbe dovuto "lasciar passare" l'articolo.
Il D. recepì immediatamente le critiche: nella riunione della segreteria del 7 genn. 1938 dichiarò di riconoscere la "gravità degli errori commessi nell'articolo sulla vigilanza rivoluzionaria" (APC, 1494-A/4) e si chiese se la sua appartenenza al vertice del partito era ancora possibile. Si adattò pure a riscrivere il testo messo sotto accusa, preoccupandosi di evitare omissioni. Il nuovo articolo (Intensificare la vigilanza) fupubblicato all'inizio di marzo sul n. 4 di Stato operaio.
Il 12 marzo la questione della vigilanza rivoluzionaria approdò al comitato centrale.
Il D. fece precedere il suo intervento davanti agli altri membri dell'organismo da una dichiarazione, nella quale confermava che le critiche rivoltegli erano motivate, aggiungendo che avrebbe corretto gli errori compiuti. Quindi disse che senza una rigorosa vigilanza la politica di massa disarmava il partito, e confessò la sua inquietudine per la mancata individuazione di provocatori tra i corrieri che effettuavano per conto del partito missioni politiche clandestine, varcando in entrambe le direzioni la frontiera tra Francia e Italia con una copertura legale.
Proseguendo, affermò che le critiche all'URSS, al partito bolscevico e ai dirigenti sovietici smascheravano gli agenti trotskisti-bordighiani e quelli fascisti e chi da essi si era lasciato influenzare, e inoltre che fra i comunisti in Italia perdurava un "modo opportunista di giudicare i bordighiani" (APC, 1494-B/51), mentre la costruzione di un partito capace di realizzare i suoi compiti si fondava sulla lotta al bordighismo e al trotskismo. Nel suo intervento il D. dichiarò anche che il PCd'I doveva praticare un'articolata politica di alleanze, con una maggiore attenzione verso le masse cattoliche, porsi l'obiettivo della repubblica democratica, come tappa verso il socialismo, e da subito rivendicare la sconfessione delle intese tra i governi italiano e tedesco.
Negli ultimi giorni di aprile una delegazione del partito comprendente il D. si recò a Mosca per incontrare i dirigenti del Komintern. Il quinto punto del lungo documento steso nella -circostanza dagli italiani e firmato da R. Grieco e dal D. affrontava il problema della lotta contro il bordighismo-trotskismo e per la vigilanza rivoluzionaria.
Il D. rientrò a Parigi a settembre, dopo gli altri membri della delegazione, quando il comitato esecutivo del Komintern, muovendo dalle più recenti vicende del PCd'I (ma durante gli incontri di Mosca erano state evocate, fra l'altro, le "oscillazioni del '26" [APC, 1494-A/35], cioè le preoccupate considerazioni di Granisci, esternate nella lettera indirizzata nell'ottobre di quell'anno al comitato centrale bolscevico, sulle conseguenze per l'URSS e per il movimento operaio internazionale della lotta politica che aveva irreparabilmente incrinato la compattezza del partito sovietico), ne aveva già sciolto gli organismi di direzione, sostituendoli con un centro di riorganizzazione composto da Grieco, Berti, G. Di Vittorio, A. Roasio. Una segreteria incompleta si era riunita ad agosto e aveva formalmente ratificato i provvedimenti, votando anche un ordine del giorno di biasimo nei confronti della delegazione, e particolarmente di Grieco e del D., perché a Mosca i termini del dibattito sviluppatosi nella sessione di marzo del comitato centrale italiano non erano stati riferiti compiutamente. All'allontanamento del D. da ogni responsabilità dirigente venne dato il "carattere di sanzione" (APC, 1494/117).
Dopo che Berti ebbe completato, nello stesso settembre 1938, una revisione del lavoro svolto nei due anni precedenti dagli uffici quadri, di organizzazione e tecnico, altre critiche bersagliarono il D., il quale in una lettera datata 9 novembre replicò dolendosi della sommarietà e della parzialità della procedura adottata da Berti.
Nei mesi che seguirono il D. intensificò la sua attività gioffialistica, specie sulla Voce degli Italiani, dove il 27 apr. 1939, nell'articolo Fraternità e unità, diede parere favorevole all'arruolamento dei lavoratori immigrati nell'armée per difendere la Francia da un'eventuale aggressione tedesca e italiana, ma a patto che il governo francese autorizzasse la costituzione su base nazionale dei gruppi combattenti, non perseguisse fini imperialistici e appoggiasse il diritto dell'Italia all'autodeterminazione a guerra conclusa. Nell'articolo Tragico anniversario, pubblicato il 3 agosto successivo, ricordando lo scoppio del conflitto di venticinque anni prima, ammonì che se un "solido, unito, potente fronte della pace" non avesse sbarrato la strada ai "predoni fascisti" il mondo sarebbe stato "travolto nella voragine".
A distanza di poche settimane, le misure deliberate dal governo francese dopo gli accordi Ribbentrop-Molotov e l'entrata in guerra della Francia provocarono la dispersione del centro comunista. Per il D. la conservazione della libertà Personale comportò una clandestinità profonda. Intervenuto alla fine di giugno 1940 l'armistizio, che sancì la resa della Francia e l'occupazione tedesca e italiana, egli raggiunse avventurosamente il Sud del paese. Per più mesi, a Cabirol, vicino Tolosa, la coltivazione e la vendita dei prodotti di un piccolo appezzamento affittato assicureranno al D., e con lui a E. Sereni e a F. Scotti. sostentamento materiale e insieme copertura per riorganizzare i comunisti e per reclutare gli antifascisti nei gruppi dei "francs-tireurs partisans". Il 5 ott. 1940, in una comunicazione a firma di G. Letol capo dell'OVRA (Opera vigilanza repressione antifascista), il D. venne segnalato per l'arresto alla polizia tedesca.
Nell'ottobre 1941 a Tolosa, il D. e Sereni unitamente ai socialisti Nenni e G. Saragat e agli azionisti S. Trentin e F. Nitti sottoscrissero l'accordo istitutivo del Comitato d'azione per l'unione del popolo italiano o Unione degli italiani: l'attacco tedesco all'URSS, scattato nel giugno, aveva ricomposto le divisioni e smorzato le polemiche tra gli antifascisti seguite agli avvenimenti dell'agosto 1939. Le intese dell'ottobre '41 saranno rinnovate e perfezionate il 3 marzo 1943 a Lione al termine dei colloqui tra il D., G. Amendola, Saragat ed E. Lussu. Nel successivo agosto il D. non tacque la sua contrarietà per l'accettazione da parte del comunista G. Roveda della nomina a vicecommissario dell'organizzazione sindacale dei lavoratori dell'industria, decretata dal nuovo governo italiano presieduto da P. Badoglio.
Il 1° settembre intraprese da Marsiglia il viaggio che, attraverso la Svizzera, l'avrebbe ricondotto in Italia. Il 15 giunse a Milano, dove per.un anno rappresentò i comunisti nel Comitato di liberazione nazionale. In seno all'organismo contrastò ogni indecisione verso la resistenza armata antitedesca e ogni ipotesi di trasferirne in Svizzera i comandi operativi. Nel febbraio 1944 il D. e G. Li Causi persuasero i democristiani e i liberali ad abbandonare le loro riserve riguardanti un appello alla lotta contro i nazifascisti da indirizzare ai lavoratori italiani. Nel marzo, sostenuto da L. Valiani, il D. ottenne dal comitato il consenso per la proclamazione dello sciopero generale. Il 9 settembre, lasciata Milano, giunse a Bologna.
I centri difigenti del partito in Italia erano allora già orientati a fare di lui il sindaco della città. Sino a non molto tempo prima, tuttavia, si era continuato a menzionare l'"infortunio" del 1937. In una lettera del 10 ott. 1943 Amendola aveva ricordato la prescrizione del Komintern (sciolto da mesi, peraltro) di sottoporre il D. a una commissione di controllo prima di reimpiegarlo nel lavoro politico, e in aggiunta aveva riferito della contrarietà di M. Scoccimarro, autorevole esponente del centro romano, disposto ad affidargli, comunque, solo incarichi secondari (in Lettere a Milano).
Il D. tornava a Bologna mentre il fronte della resistenza stava vivendo il suo momento di maggiore tensione civile. I democristiani e i liberali avevano deciso di aderire al Comitato di liberazione nazionale (CLN) e al Comando militare unico per l'Emilia-Romagna (CUMER) ed erano state composte le divergenze insorte per il mancato scioglimento dei triunivirati insurrezionali, creati dai comunisti. Due mesi dopo, il 7 novembre, in città (a porta Lame) i partigiani impegnarono in duri scontri truppe tedesche e fasciste: come membro del CLN e del triunivirato insurrezionale il D. fu tra gli estensori dei piani di combattimento. Il 10 novembre partecipò alla riunione indetta per ricostituire a livello cittadino e provinciale alcune importanti strutture sindacali (Federterra, FIOM, Federazione lavoratori edili e fornaciai). Nel marzo 1945 entrò in contatto con i promotori del circolo clandestino "A. Labriola".
Nelle prime ore del 21 apr. 1945, dopo che i reparti tedeschi e repubblichini, incalzati dalle avanguardie alleate e dalle formazioni partigiane, si erano ritirati da Bologna, su mandato del CLN il D. prese possesso di palazzo d'Accursio, sede del Municipio. Il 7 maggio il governo militare alleato legittimerà il suo insediamento e gli atti compiuti in qualità di sindaco, con decorrenza dal 22 aprile.
Davanti al Consiglio comunale, composto in modo paritetico dai rappresentanti dei partiti del CLN, il 19 dicembre il D. enunciò le convinzioni e i propositi che ispiravano la sua attività ed elencò le iniziative avviate dall'amministrazione per fare fronte alla gravosa eredità della guerra.
Alla rivendicazione di autonomia per gli enti locali, come sostanziale rottura con il centralismo fascista, unì quella di una riforma del sistema impositivo, fondata sul trasferimento dei maggiori introiti dei comuni dall'imposta di consumo all'imposta di famiglia progressiva e sulla costituzione di consigli tributari (che a Bologna cominciarono effettivamente a operare un anno dopo) incaricati di accertare i redditi dei contribuenti e di contrastare l'evasione fiscale. Diede poi assicurazioni sulla volontà di impegnarsi, malgrado le difficoltà finanziarie e tecniche, per la ricostruzione degli edifici distrutti e per il sollecito ripristino dei servizi municipalizzati dei tram e del gas, e annunciò la creazione della Cooperativa bolognese del popolo, nella quale sarebbe stato inglobato l'Ente autonomo dei consumi, istituito negli anni della prima guerra mondiale dall'amministrazione guidata dal socialista F. Zanardi, un sindaco di cui il D. in varie circostanze dirà di sentirsi il continuatore.
A giugno, alla conclusione del convegno provinciale dei comunisti bolognesi, il D. era stato chiamato a far parte del comitato federale. A ottobre il congresso della federazione lo confermò membro dell'organismo e lo elesse delegato al quinto congresso nazionale dei Partito comunista italiano (PCI). Questo (Roma, 29 dic. 1945-5 genn. 1946) lo incluse di nuovo nel comitato centrale, rettificando l'estromissione del 1938. Nell'aprile 1951, dopo il settimo congresso, il D. sarà cooptato nella direzione del partito come membro supplente. Ne diverrà membro effettivo nel gennaio 1955, in occasione della conferenza nazionale d'organizzazione. Al nono congresso, svoltosi nel 1960, sarà trasferito dal comitato centrale alla commissione centrale di controllo: con Li Causi avrà l'incarico di vicepresidente.
Il 24 marzo 1946, alle elezioni amministrative, i comunisti ottennero a Bologna la maggioranza relativa, con oltre il 38 per cento dei voti. Il D. ebbe circa 17.200 preferenze. Il 9 aprile fu confermato sindaco dai 24 consiglieri comunisti e dai 16 socialisti (il Partito socialista di unità proletaria [PSIUP] aveva riportato più del 26 per cento dei voti).
Il 2 giugno il D. fu candidato alle elezioni per la Costituente nella XIII circoscrizione (Bologna, Ferrara, Ravenna, Forlì), risultando eletto con 48.057 preferenze.
Poche furono le sedute dell'Assemblea alle quali mancò. Il 17 marzo 1947, nel corso della discussione sul disegno di legge di modifica del testo unico delle leggi comunale e provinciale, prese la parola soffermandosi sul problema dell'autonomia e su rivendicazioni e obiettivi che consentissero agli enti locali di funzionare meglio e di limitare i controlli governativi, quali la perequazione retributiva tra il personale comunale e quello statale, la dipendenza dei segretari comunali dai Comuni stessi, l'assegnazione di un'adeguata indennità ai sindaci, l'elezione delle giunte provinciali amministrative, la modifica della partizione delle entrate tributarie fra Stato e Comuni, il pareggio dei bilancio. Pronunciò un secondo intervento il successivo 4 dicembre, durante il dibattito sul testo complessivo del progetto della Costituzione.
A causa degli impegni connessi alla carica di sindaco di Bologna, considerati preminenti nel partito, nel 1948 il D. non fu inserito nel gruppo dei senatori di diritto né fu candidato alla Camera alle elezioni del 18 aprile.
In occasione dello sciopero generale del 14 e 15 lugli di quell'anno, dopo l'attentato a Togliatti, che diede luogo a incidenti anche nel capoluogo emiliano, il D. si adoperò affinché le manifestazioni non travalicassero un intento dimostrativo. A moderazione furono improntate le parole che usò il 26 luglio, rievocando in Consiglio comunale i fatti di quei giorni e mettendo in rilievo come i bolognesi fossero stati capaci di "controllare il proprio sdegno" (Atti del Consiglio comunale di Bologna [ACC], 1948, p. 324).
L'inquietudine con cui i comunisti bolognesi, dopo l'esito negativo del 18 aprile, guardavano alla scadenza elettorale amministrativa, che dal 1950 slittò alla primavera del 1951, spinse dapprima il D. ad elaborare una strategia di alleanze politiche e sociali a livello cittadino verso i socialdemocratici e verso commercianti e artigiani. Ma soprattutto produsse una grande mobilitazione del partito e delle associazioni collaterali (artigiani, piccoli commercianti, inquilini, piccoli proprietari di case, donatori di sangue, famiglie dei caduti, ecc.). Le due torri medioevali cittadine Garisenda e Asinelli assursero a emblema della lista comunista, e fu presentata una lista fiancheggiatrice di candidati indipendenti. Delle imminenti elezioni tenne certamente conto la giunta municipale compilando in pareggio contabile il bilancio di previsione per il '51. Al rafforzamento del consenso verso l'amministrazione degli strati meno abbienti delle popolazione e all'ampliamento di quello degli strati medi soccorreva un'eloquente riduzione dell'imposta di consumo.
Nelle urne il 27-28 maggio finirono poco più di 112.000 voti comunisti, socialisti e indipendenti (lista del "Gigante"), pari al 48,8 per cento, che grazie al meccanismo della legge elettorale si convertirono nei due terzi dei seggi del Consiglio. Ma la coalizione di Centro era stata battuta solo di misura. Il segretario della federazione comunista, E. Bonazzi, riconobbe che la lista indipendente si era rivelata determinante per la vittoria. Il nuovo Consiglio comunale, riunito il 19 giugno, rielesse sindaco il D., che aveva avuto 30.389 preferenze, con 37 voti su 56 presenti.
Durante la consiliatura 1951-56 l'amministrazione del capoluogo emiliano diede seguito a eloquenti punti di programma. Dal 1952 divenne consistente l'impegno a favore dell'università. Terreni di proprietà comunale furono ceduti per l'edificazione delle sedi di nuove facoltà e di altre strutture funzionali alla vita dello Studium. Nel bilancio era previsto lo stanziamento di L. 7.000.000, che superava di tre volte quello dell'anno precedente. Una cifra ancora maggiore sarebbe stata inscritta nel bilancio del 1953. L'apertura verso l'ateneo condurrà, nel bilancio del 1957, a inscrivere a beneficio dell'istituto di fisica uno stanziamento di L. 50.000.000 e a preventivare un eguale impegno nei bilanci degli anni successivi, fino a raggiungere il totale di L. 500.000.000.
Ancora, nel 1955 Bologna ebbe il nuovo piano regolatore generale, pur se a ricostruzione postbellica ultimata. I principali contenuti del progetto furono illustrati il 29 luglio in Consiglio comunale. Il D. nella circostanza volle sottolineare l'antagonismo che opponeva il modo di essere della città "storica" e il "prepotente irrompere dei movimento e della vita attuale" (ACC, 1955, p. 1252). In sintonia con quest'ultimo, ripetutamente nei mesi che seguirono, senza timore di differenziarsi dagli orientamenti dello stesso progetto di piano, il sindaco non lesinerà parole a favore di interventi atti ad agevolare il traffico veicolare di penetrazione e di attraversamento delle strade interne al perimetro delle mura medioevali, abbattute dopo il 1889, secondo le prescrizioni del precedente piano regolatore generale.
Forti di un acquisito welfare municipale che si fondava sull'azione delle cooperative, sull'efficienza dei pubblici servizi e su di un funzionamento vantaggioso per la popolazione a basso e medio reddito del sistema impositivo, nella tornata amministrativa della primavera del 1956 i comunisti bolognesi affrontarono la Democrazia cristiana (DC), che presentava G. Dossetti come capolista.
Il D. giudicò il manifesto elettorale democristiano, ossia l'articolato Libro bianco su Bologna, una "nebulosa inconsistente", rivendicando per contro ai comunisti, alle forze di Sinistra, il diritto di non odisegnare un dettagliato programma di opere", e scegliendo di trincerarsi dietro dichiarazioni rivelatesi demagogiche ("Più nessun aumento di tasse alle classi popolari e ai ceti medi!"), e dietro trovate estemporanee e confuse per cercare di parare i progetti di decentramento amministrativo avanzati dagli avversari ("... costituire centri rionali, che senza avere alcun carattere ufficiale", siano un "contributo morale all'amministrazione cittadina"). Strutture originali di autogoverno decentrato - i Consigli di quartiere - avranno attuazione, alla fine di un tormentato itinerario, solo nel 1964. Il D. espresse pure il timore che una vittoria di Dossetti potesse preludere alla rinascita dell'antico regime delle legazioni e potesse inaugurare un periodo di "corruzione politica e morale" (cfr. G. Dozza, Conferenza stampa sulle elezioni amministrative a Bologna, Bologna 1956).
Le consultazioni, svoltesi il 27-28 maggio con il sistema proporzionale, premiarono ancora la lista "Due torri" con il 45,2 per cento dei voti e 29 seggi e il Partito socialista italiano (PSI) con il 7,4 per cento dei voti e 4 seggi. Le preferenze per il D. furono 31.000, mentre Dossetti ne ricevette solo 13.000 (la DC aveva avuto il 27,7 per cento dei voti e 17 seggi). La nuova Assemblea si riunì il 30 giugno e il D., prima di essere confermato sindaco con 31 voti e 18 schede bianche su 56 presenti, rivolse un misurato discorso ai consiglieri, in cui propose, cessate le polemiche della contesa elettorale, una seconda collaborazione" alle forze politiche centriste (ACC, 1956, p. 4).
Anche la commemorazione dei lavoratori caduti in Emilia e in Sicilia per mano di agenti della polizia nel luglio 1960 fu per il D. occasione per sottolineare l'ordine e la legalità delle dimostrazioni di protesta a Bologna e per dare spazio alle rivendicazioni dell'autonomia degli enti locali e dell'istituzione delle regioni, come garanzia certa di libertà, di democrazia, di rispetto delle normative costituzionali. Non omise, peraltro, né di condannare le responsabilità del governo, presieduto da F. Tambroni, e l'uso di armi da guerra da parte della polizia, né di legittimare un eventuale sciopero generale antifascista, né di biasimare il comportamento, che definì ambiguo, dei consiglieri dei gruppo democristiano a palazzo d'Accursio.
In occasione delle elezioni amministrative del 6-7 nov. 1960 si ripeté il successo complessivo delle liste comunista e socialista, che ottennero rispettivamente il 45,5 e l'8,5 per cento dei voti. Le preferenze per il D. scesero tuttavia a 23.847. Il 7 dicembre egli fu confermato sindaco da 32 consiglieri sui 58 presenti. Le schede bianche risultarono 23. 1 partiti della Sinistra neppure il 22-23 nov. 1964 mancheranno la vittoria. La lista "Due torri", in particolare, otterrà il 44,7 per cento dei voti e 23.141 saranno le preferenze per il D., eletto sindaco per la quinta volta il 6 febbr. 1965 da 32 consiglieri comunisti, socialisti e socialproletari (19 consiglieri voteranno scheda bianca).
Gli anni Sessanta, principiati all'insegna dei disgelo, sia pure lento e non lineare, del clima politico, sembravano dare spazio a livello nazionale a ipotesi in precedenza riferite solo a un contesto locale. Non a caso perciò il D. poté guardare inizialmente con favore il costituendo primo governo sostenuto da una maggioranza che comprendeva il PSI.
Configurandosi nei suoi contenuti moderati la svolta di centrosinistra, il giudizio del D. prese a mutare.
Nel documento di tvalutazioni e orientamenti per un programma di sviluppo di Bologna e del comprensorio", che illustrò nella seduta consiliare del 5 apr. 1963, sull'affidabilità della maggioranza di centrosinistra comparvero espliciti ripensamenti. Netta fu la presa di distanza il 10 aprile, nell'introduzione del D. al dibattito sul bilancio preventivo, che, per la prima volta in più di dieci anni, denunciava un disavanzo (L. 3.250.000.000). Il D. affermò difatti che le "destre esterne e interne alla DC avevano scatenato una violenta pressione per svilire prima e svuotare poi l'indirizzo che era prevalso nei programmi governativi" (ACC, 1963, p. 566).
Nello stesso periodo il modo di essere del partito in Emilia e a Bologna non rimaneva estraneo ai mutamenti che mostrava la base sociale comunista, divenuta più composita. Quadri nuovi, ideologicamente pragmatici, andavano a ricoprire gli incarichi di maggiore responsabilità, e finirono per succedere anche al D. personalità simbolo dei "modello emiliano".
Nel corso della seduta del Consiglio comunale del 2 apr. 1966 il D. comunicò il testo della lettera, scritta il 29 marzo, con cui annunciava le dimissioni da sindaco ufficialmente a causa del suo stato di salute. Questo lo aveva già costretto ad assentarsi dai lavori dell'Assemblea fra la metà di maggio 1962 e la fine di gennaio 1963 e, nello stesso '63, ancora fra la metà di giugno e quella di settembre. Il 7 luglio '63 aveva firmato un'ordinanza per essere provvisoriamente sostituito nelle sue funzioni istituzionali da altri tre componenti della giunta, a rotazione. Le minoranze non tralasciarono di esprimere il convincimento che ragioni politiche erano, insieme, all'origine del passo da lui compiuto.
Designato capogruppo dei consiglieri della lista "Due torri", nella tornata amministrativa del 7-8 giugno 1970 fu ancora una volta rieletto con 4.779 voti di preferenza. Nella fase estrema della malattia che lo affliggeva al D. fece visita in ospedale il cardinale G. Lercaro con il quale, dopo la conclusione del concilio Vaticano II, aveva avviato un dialogo non meramente formale.
Il D. morì a Bologna il 28 dic. 1974.
Fra gli scritti del D. apparsi in periodici, numerosi firmati con pseudonimi, si segnalano: in Lo Stato operaio: Il nuovo 4 agosto della socialdemocrazia, II (1928), 8, pp. 535-544 [A. Martini]; 1927-1931, V (1931), 2, pp. 102-107 [A. Forni]; Esame della stampa del partito, 10-11, pp. 539-545 [A. Forni]; Per la conquista delle masse dopolavoriste, VII (1933), 8, pp. 498-505 [F. Furini]; In tema di lavoro di massa e di formazione di quadri, VIII (1934), 8, pp. 581-584, e 9, pp. 688-690; Lavoro di massa in Italia o inazione?, 10, pp. 724-727 [F. Furini], La politica del fronte popolare in Italia, IX (1935), 11-12, pp. 707-712 [F. Furini]; I nostri quadri, X (1936), 10, pp. 703-710; Alcuni problemid'organizzazione, XI (1937), 9, pp. 493-497 [g. d.]; La lotta per la pace e il lavoro nelle forze armate, 10, pp. 540-544 [g. d.]; Socialismo e democrazia, 11, pp. 579-584; Vigilanza rivoluzionaria, 12, pp. 606-610 e 13, pp. 682-686 [nf]; L'evoluzione dell'anarco-sindacalismo spagnolo, XII (1938), 3, pp. 57 s. [g. d.]; Intensificare la vigilanza, 4, pp. 67 ss.; La condanna degli agenti fascisti del POUM, 19, pp. 326 s.; in Vie prolétarienne: Sul Patto navale, 31 marzo 1931 [A. Forni]; Dalla difesa di Petrini al fronte unico con la borghesia, 1° genn. 1933; Socialfascismo trotskista, 12 apr. 1933 [A. Forni]; in l'Unità: La utilizzazione dei nostri quadri, XIII (1936), 4; Dove andiamo?, 5; Le condizioni dei lavoratori italiani e l'azione sindacale, 10 [F. Furini]; Le promesse debbono essere mantenute, 11 [F. Furini]; Imponiamo con tutti i mezzi che cessi la politica di guerra e che sia rotta la mostruosa alleanza con Hitler, XIV (1937), 7; Per l'applicazione delle decisioni del comitato centrale, 10; Il dovere dell'ora: lottare energicamente per la pace, prepararsi ad una situazione di guerra generale, 11; La lotta per la pace e il lavoro nelle forze armate, 12; Menzogna e tradimento, XV (1938), 4; Viva l'URSS bastione mondiale della pace e della libertà, 8; in La Voce degli Italiani: Vigilanza necessaria, 29 sett. 1937 [F. Furini]; Icombattenti italiani della libertà sul fronte delle Asturie, 30 ottobre, 31 ottobre, 2 nov. 1937; Teruel, 25 dic. 1937; L'unità dell'antifascismo spagnolo garanzia di vittoria, 19 febbr. 1938; Innitzer, 14 ott. 1938; Igaribaldini e la nazione, 21 ott. 1938; Igaribaldini e l'unità, 24 genn. 1939 [F. Furini]; Les "fasci" à l'étranger, 25 febbr. 1939; Per la vigilanza antifascista. I casi di Bellegarde e di altri siti, 7 marzo 1939 [g. d.]; Conti giusti, 18 marzo 1939 [g. d]; Un caduto per la causa della libertà. Melchiorre Vanni, 23 marzo 1939 [F. Furini]; Fraternità e unità, 27 apr. 1939; La conferenza internazionale per la pace e i compiti della emigrazione italiana, 21 maggio 1939; Per la vigilanza antifascista. Il caso Talatin, 21 maggio 1939 [g. d]; Un "attaché" militare, 18 giugno 1939 [F. Furini]; Per la vita della "Voce", 5 luglio 1939; L'unità sindacale internazionale, 12 luglio 1939; La conferenza per lo statuto giuridico degli emigrati, 22 luglio 1939; La conferenza per lo statuto giuridico. Parità di doveri, parità di diritti, 29 luglio 1939; Tragico anniversario, 3 ag. 1939; L'assistenza agli emigrati, 9ag. 1939 [g. d.]; Mutuo soccorso, 13 ag. 1939; Dare l'avvocato e il medico agli emigrati, 19 ag. 1939.
Risalgono allo stesso periodo della clandestinità anche Le vrai visage de M. Pietro Nenni, in l'Humanité, 25 ottobre, 27 ottobre, 28 ott. 1933; Gioventù italiana in Francia, in Adunata dei giovani, 1° agosto, 1° settembre. 1° ottobre. 1° nov. 1934 [Pippo]; Boicottiamo i generali reazionari spagnoli, in Il Lavoratore del mare, X (1937), gennaio-febbraio [Pippo]. Sono stati invece pubblicati in anni successivi al 1945, in Rinascita: La politica municipale dei comunisti IV (1947), 5, pp. 125 ss.; Anche in Emilia la questione centrale è della rinascita, IX (1953), 5, p. 279; La fine del fascismo a Bologna, XI (1955), 4, p. 285 (sul numero speciale della rivista, uscito con la data del novembre 1957 e dedicato al quarantesimo anniversario della Rivoluzione sovietica, fu pubblicato Imenscevichi a Bologna; nel 1952, sul secondo dei Quaderni di Rinascita, dedicato alla storia del PCI, a trent'anni dalla fondazione, comparve Ricordo di Marabini); in Il Comune democratico: XII (1957), II, Democratizzare le strutture comunali; XIII (1958), 9, Discutere nei consigli i progetti governativi; XIV (1959), 4, Appello all'unità di tutte le forze amministrative; in Emilia: II (1953), 13-14-15, p. 54, Significato del convegno per la rinascita; in Rinnovamento: I (1960), 1, pp. 10-17, Regione e libertà.
Tra le sue pubblicazioni in opuscolo o in volume si indicano Relazione del sindaco on. G. Dozza al 1° Convegno delle consulte popolari rionali cittadine, Bologna 1948; Il reato di essere sindaco, ibid. 1951; Prefazione a R. Giorgi, Marzabotto parla, Milano-Roma 1962; Ilpartito comunista nella clandestinità, in Storia dell'antifascismo italiano, a cura di L. Arbizzani-A. Caltabiano, II, Roma 1964, pp. 184-192; Testimonianza, in La resistenza a Bologna, a cura di L. Bergonzini, I, Bologna 1967, pp. 175-182.
Fonti e Bibl.: Presso l'Archivio centrale dello Stato, a Roma, si trova il fascicolo 26823 (busta 1859) del Casellario politico centrale (Ministero dell'Interno. Direzione generale della Pubblica Sicurezza. Divisione affari generali e riservati), che riunisce le carte con oggetto il D. prodotte fra il 1919 e il 1942 dagli uffici di polizia, giudiziari, ecc. Non ha riscontro nel Casellario politico centrale un documento del febbraio 1937, rintracciato in PS G1, busta 302, fascicolo 985-1. Per gli anni iniziali del secondo dopoguerra si rinvia a Ministero dell'Interno, Dir. gen. Pubbl. Sicur., Div. aff. gen. ris. 1930-1955, b. 53, f. Bologna; Ibid., 1931-1949, b. 58 B, f. Bologna; Minist. Interno, Gabinetto 1950-52, b. 55, f. 11600.
Le carte che documentano l'operato del D. dirigente della FGCd'I e del partito fra il 1923 e il 1938 sono depositate in copia, nell'archivio del Partito comunista italiano (APQ, conservato a Roma, presso l'Istituto Granisci, fondo 1917-1940. Di questo fondo sono stati specialmente qui utilizzati i fascicoli 238 (ff. 57, 64, 71); 296 (35 s., 59 s.); 466 (51); 605 (41-44); 646 (148-151); 653 (123 s., 320); 673 (116); 706 (10 s., 22 s., 36, 48 s., 58 s., 60 s.); 732 (38); 735 (92-101); 795 (98 ss.); 827 (91-99, 170); 830 (19 s.); 835 (149-175); 837 (143-148); 851 (36 ss., 70); 882 (72 ss., 77, 104 ss., 126 s., 132); 899 (33, 40 s., 78 s., 93); 916 (34 s.); 937 (2, 5, 7-14, 15-19, 25, 27 ss., 39 ss.); 946 (126-132); 1008 (31 ss.); 1033 (41-45); 1118 (22-25); 1120 (2-11, 116-124); 1123 (1 s., 6, 7, 19-23, 35 s., 42 ss., 48-53, 62 ss., 67-72, 73-76, 97, 98-101); 1180 (18 ss., 21 s., 23 s.); 1191 (79-82, 107-113); 1204 (78 ss.); 1263 (10-24, 107-111); 1266 (70-73); 1269 (8 ss., 24 s., 98 ss., 114 s., 117 s.); 1357 (144 s.); 1358 (15 s., 56, 92 s., 109 s.); 1367 (13 ss., 17-25, 28 s.); 1431 (64 s.); 1432 (47, 52, 54, 60 s., 71, 74); 1488 (19-23); 1494 (117); 1494-A (4, 35); 1494-B (50 ss.); 1510 (61-65). Per il successivo periodo della guerra di liberazione si segnalano i due documenti 8.3.19 e 8.7.8, sempre in APC, fondo 1943-1945. In APC, fondo 1945-1952, materiali delle federazioni: Bologna (al momento manca una segnatura analitica), sono conservate le carte relative al D. dirigente dell'organizzazione comunista del capoluogo emiliano.
Concerne soprattutto gli anni in cui fu sindaco l'insieme delle carte del D., depositate presso l'archivio dell'Istituto Gramsci Ernifia Romagna, a Bologna.
Cfr. inoltre A. Tasca, L'invasione delle terre a Medicina, in L'Ordine nuovo, II (1920), 9, p. 70; II processo ai comunisti italiani (1923), Roma 1924, pp. 13, 19, 31, 46, 55, 93, 116 s., 119, 126 s., 161, 201, 203, 229, 232, 238; A. Colombi, I comunisti bolognesi al lavoro, Bologna 1945, pp. 26, 43; Atti del Consiglio comunale di Bologna (ACC), Bologna 1946-1954 e Imola 1962-1966 (tra il 1955 e il 1960 gli atti sono stati stampati senza indicazione di luogo e di data); Atti dell'Assemblea costituente. Discussioni, Roma [1946, 1947, 1948], I, pp. 243, 287, 413, 601 s.; II, pp. 1081, 1167, 1545; III, pp. 2085, 2182, 2194-2198, 2528, 2537, 2539, 2561, 2594; V, pp. 4579, 5157; VII, p. 364; X, pp. 2826, 3459 s., 3594; XI., p. 4040; Ilavori dell'VIII Congresso provinciale [dei comunisti bolognesi], Bologna 1954, pp. 5-15, 201-214; M. Sereni, Igiorni della nostra vita, Roma 1956, pp. 63 s., 68; R. Nicolai, Il sindaco e la città, Roma 1956, pp. 5, 7-16, 22, 33 s., 44, 134; Id., Realizzazioni della amministrazione democratica della città di Bologna, in Rinascita, XIII (1956), 3, pp. 150 s.; N. Matteucci, Dossetti a Bologna, in IlMulino, V (1956), 6, pp. 384, 386 s., 389; VIII Congresso del Partito comunista italiano. Atti e risoluzioni, Roma 1957, pp. 10-15; Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, a cura di G. Amendola, Roma 1963, pp. XII, XVIII, 23, 108, 160, 179; D. Lajolo, Il voltagabbana, Milano 1964, pp. 185 s.; R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino 1964, p. 180; Iprimi dieci anni di vita del Partito com. it., in Annali dell'Istituto G. Feltrinelli, VIII (1966), pp. 302, 544, 548, 550, 618 s., 621, 623, 643 s., 647; P. Secchia, L'azione svolta dal partito comunista in Italia durante il fascismo (1926-1932), ibid., XI (1969), ad Indicem; Archivio Pietro Secchia, Introd. di E. Collotti, ibid., XIX (1978), ad Indicem; G. 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