FANTUZZI, Giuseppe
Nato a Belluno il 10 ott. 1762 da Francesco e Bernardina de Castello, trascorse l'adolescenza e la prima giovinezza trasportando abeti e pini sul Piave e di questa sua origine da "un'ignobile famiglia di zatteri" si fece vanto per tutta la vita. A vent'anni fu inviato dal padre, che aveva assunto l'appalto del dazio dei vitelli, a Venezia a curare gli interessi dell'impresa: nella splendida capitale della Repubblica il F. si abbandonò ad una vita dissipata, "distinto" nel gioco delle carte, "più che eccellente" nel biliardo, ma poco attento agli affari della famiglia, che nel frattempo si era aggiudicata anche i lavori di riparazione della rotta del Piave a Quero; egli fece, comunque, fortuna e acquistò una casa in Riva degli Schiavoni. Richiamato a Belluno, si dedicò a studi di storia e fisica, si appassionò agli "enciclopedisti", frequentò i circoli colti e, spinto dall'amore per l'istruzione e dall'"odio per la tirannia", compì un lungo viaggio in Germania e in Russia. Tornato a Venezia, vi conobbe un principe polacco e lo seguì a Varsavia (1793), dove diventò amico di T. Kościuszko ed appassionato sostenitore dei "diritti del popolo"; combatté eroicamente e venne ferito nella battaglia di Praga (vicino a Varsavia) e guidò l'ultima disperata resistenza antirussa, poi, caduta la Repubblica polacca, fuggì travestito da donna a Vienna e rientrò a Belluno.
In una lettera al fratello Luigi, cui suggeriva di cercarsi un mestiere "non di lusso, ma utile alla società", ricordava la sua prima giovinezza trascorsa in un ozio degradante, narrava con ricchezza di particolari la sua partecipazione alla guerra antirussa e traeva una "grande e terribile lezione" da quelle vicende: "Avreste veduto da per voi quai sforzi è obbligato a fare un Popolo per acquistare la sua libertà una volta che l'ha perduta: sforzi degni dell'uomo, ma pur troppo sovente inutili" (Pellegrini, Tre lettere..., p. 11).
Passato "dal remo alla spada e da questa alla penna", promise di stendere le Osservazioni storico-politico-filosofiche sopra gli avvenimenti della Polonia, per presentare all'Europa il "grand'avvenimento della Polonia" "nel suo vero punto di vista", e forse le scrisse davvero negli ozi di Belluno e di Abano tra il 1795 e il 1796, ma sono andate perdute. Inebriato dalla "musica del cannone" (la vera "musica dell'uomo" non quella delle "opere buffe e serie"), trascorreva i suoi giorni tra Venezia e la città natale, tra lo studio e la fremente attesa di un'azione politica che desse concreta realizzazione ai suoi ideali "democratici". Nel gennaio 1795 stampò a Venezia, per i tipi di Antonio Zatta, il volumetto Dei fiumi in cui il "violento disprezzo verso la cultura astratta" si fondeva con "l'avversione ... contro tutti i governi tirannici ed assoluti, ammassi inerti dì leggi, pure teorie che un dispotico atto di arbitrio può sconvolgere a suo piacimento" (Berengo, La società veneta..., p. 217).
Nella dedica al padre egli rivendica con orgoglio la prima giovinezza trascorsa "in compagnia della zattera, dalla quale traeva il giornaliero suo vitto", l'ironico distacco da "quelle sublimi teorie delle quali fanno tanto strepito i dotti", dalle "belle frasi", e dai "barbarismi" della terminologia scientifica ufficiale ("linguaggio riservato solo ai semidei, ma ch'altro non ha però d'ammirabile se non l'ignoranza del popolo") e il valore pregnante e preminente dell'"infallibile natura" e della concreta "esperienza" della dura vita quotidiana, "la sola e vera maestra dell'uomo". Una appassionata e radicale esaltazione della natura ("madre saggia ed amorosa" dell'uomo, il quale "per seguire l'impulso sublime che lo toglieva al comune degli animali ... abbandonò l'aria libera e pura dei fruttiferi boschi, per respirare la fetida delle sterili e micidiali città, teatro della sua vanità, de' suoi disordini, e della sua miseria"), di evidente ascendenza rousseauiana, sorregge l'assunto tecnico dell'opuscolo: né "abile ingenere", né "celebre matematico", né "dotto accademico idrostatico", ma semplice "zattero" ("e che mi pregio di esserlo", aggiunge con fierezza), il F. indica un "mezzo semplice e naturale, onde sistemare una volta per sempre il mal regolato corso dei fiumi", secondando i principi della natura. Per prevenire le rotte dei fiumi veneti egli propone di dotare gli argini di sfiatatoi ("spandatoie") da aprire durante le piene per dar sfogo alle acque superflue: saranno inondate limitate estensioni di terre nelle vicinanze degli argini ma saranno salve le altre campagne. Egli non si illude che i proprietari delle terre situate lungo i corsi d'acqua accettino una proposta così audace e perciò propone per loro uno sgravio fiscale ma in realtà è sicuro che essi saranno comunque ostili al progetto, "coprendo di mille mendicati pretesti il sordido timore che li anima, unico loro oggetto, perché solo può saziare le basse loro passioni" (Dei fiumi, p. 51). Il libro si conclude con un'aspra invettiva contro i ricchi possidenti, immersi in un "lusso fastoso, che insulta la miseria del povero, corrompe il buon costume e fomenta i vizi che perdono le nazioni": davvero "un linguaggio insolito", osserva il Berengo, "da cui trapelava uno spirito di ribellione ben più esacerbato che non da una semplice carenza nell'organizzazione statale nel regime idrico dei fiumi" e nel quale "l'appello al "Principe illuminato" suonava assai più come un rimprovero che non come un atto d'ossequio, e la polemica contro il lusso - lontanissima da quel tono paternalistico che la rende comune a tanti scrittori del '700 - assumeva un'intonazione rivoluzionaria" (La società veneta..., p. 219).
Per il F., come per tanti altri "giacobini" italiani, l'ora dell'azione scoccò nel marzo 1796, quando i soldati di Bonaparte varcarono le Alpi; dopo aver inutilmente offerto alla moribonda Repubblica veneta un Piano di organizzazione militare di marcata intonazione "democratica" (cfr. Pellegrini, Tre lettere ...), egli ruppe gli indugi, abbandonò Belluno e, presentato a Napoleone da un generale polacco, si arruolò nell'armata francese, seguito nella sua avventura dal fratello Luigi, che da soldato semplice arriverà al grado di colonnello e morirà gloriosamente al passaggio della Beresina. Già da tempo sorvegliato dagli inquisitori di Stato il F. prevenne forse con la fuga un imminente arresto; tra l'estate del 1796 e i primi del 1797 come capo di battaglione della legione cisalpina partecipò alle battaglie di Lonato, Castiglione, Caldiero, Arcole e penetrò più volte clandestinamente in territorio veneto a tessere le fila di un'attività cospirativa.
Capelli e occhi neri, "di complessione forte e spiritosa", tutto "bersagliato la faccia dal vaiolo", sempre munito di guanti per celare le bruciature alle mani provocate dallo scoppio di un cannone a Varsavia, lo "scellerato" F. - così lo dipinge la spia Gio. Battista Malenza - "ha delle teste patrizie che lo scortano, e con le persone e con la borsa".
La sua attività non sfuggì ai "confidenti" degli inquisitori che ne informavano puntualmente il governo veneziano: si trattava, ha notato il Berengo, di un'azione a carattere prettamente "militare", "di affiancamento all'opera delle armate direttoriali" (La società veneta ..., p. 220), che mirava a sgretolare l'esercito veneto, organizzare comitati insurrezionali in varie città (Padova, Verona, Treviso, Bassano) e preparare il decisivo intervento dei soldati francesi.
In una lettera a Napoleone, scritta da Milano tra il 6 e il 19 genn. 1797 (giorno in cui cadde nelle mani del confidente Malenza: cfr. Inquisitori di Stato, b. 375), tracciava un nitido quadro dei suoi ideali politici e dei suoi progetti contro la Repubblica.
Il F. sottoponeva "al più vero amico degli Italiani" un progetto di costituzione di un'armata italiana (che intendeva presentare al Congresso di Reggio Emilia), che - formata da "patrioti illuminati" - avrebbe sottratto la penisola alla schiavitù dei "tiranni" al momento del ritiro dei Francesi, dei quali non sottaceva l'impopolarità presso la nazione italiana, corrotta, ignorante e superstiziosa". Offrendosi come "primo soldato" di questa armata, egli delineava un ambizioso piano per annientare le truppe austriache e quelle della Repubblica veneta: un contingente di soldati, imbarcato a Goro e sbarcato presso Trieste, avrebbe occupato Palmanova e corso tutto il Friuli, prendendo il nemico alle spalle, vi sarebbe stata anche la possibilità, se necessario, di occupare Trieste e Trento.
Nel chiudere la lettera, il F. pregava Napoleone, nel caso non volesse accogliere questa proposta, di volerlo nominare - per toglierlo dall'inazione - membro del Consiglio dei quaruntuno di recente istituito a Milano.
Ma non si può dire che in quei giorni egli stesse proprio inattivo a Milano. Oltre a stringere sempre più saldi legami con i "giacobini" veneti, il F. partecipò con un ampio Discorso filosofico-politico (stampato dal Veladini, Milano, anno 1° della libertà italiana) al concorso bandito il 27 sett. 1796 dall'amministrazione generale della Lombardia sul quesito "Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità dell'Italia".
Dedicato al cittadino Bonaparte, il trattatello esprime in forma organica, seppur talvolta retorica e faticosa, il pensiero "democratico" del Fantuzzi. Nell'introduzione egli dichiara apertamente il suo debito verso il "divino" Rousseau, suo "maestro" e "duce". Strappato dallo stato di natura, dove "regnava una perfetta eguaglianza", l'uomo è entrato nella società, regno dell'amor proprio, dell'ambizione, della cupidigia, della vanità e di quel "terribile diritto di proprietà" foriero della "perpetua ineguaglianza dei beni fra gli uomini"; è stato il possidente a proporre le regole e le istituzioni del corpo politico, a creare "il formidabile diritto del tuo e del mio" e quindi il "contratto sociale". Ostile ai nobili, il F. attacca anche il diritto di proprietà, proponendo che le terre, appartenenti alla nazione, siano concesse in usufrutto revocabile in caso di trasgressione delle leggi dello Stato. Tratti nettamente "robespierristi" del suo pensiero sono l'affermazione degli eguali diritti civili di tutti i cittadini e il culto dell'Essere supremo, che sostituirà la religione cattolica, cui il F. rivolge veementi attacchi: "noi non saremo mai liberi, fino a che resteremo cattolici. Libertà e cattolicismo non possono restare uniti; questi due vocaboli si escludono l'un l'altro. Per ogni dove sarà abolita la tirannia e stabilita la libertà, verrà distrutto fino dalle radici l'orribile ed empio sistema del prete" e sostituito da una religione nazionale".
Il sistema politico da lui proposto per l'Italia è macchinoso e a tratti utopico: la forma sarà di una "democrazia", fondata sulla divisione tra i poteri "legislativo" (lasciato interamente a tutto il popolo), e "sovrano", "esecutivo interno" ed "esecutivo esterno"; in concreto, la penisola sarà una "repubblica, unica, sola, ed indivisibile", ma distinta in dieci "parziali repubbliche" rette ciascuna da un Senato, cui spetterà il potere esecutivo, e coordinate da un Consiglio dei saggi, che guiderà la politica estera; un complesso sistema di garanzie e contropoteri (Magistrato tribunizio, contumacia, controlli incrociati, dittatura temporanea) mira ad impedire l'"usurpo" del potere esecutivo.
Nella parte finale del Discorso il F. si spinge a sognare l'unità dell'Europa, rigenerata in dodici nazioni rette dalla "demostocrazia", e quindi di tutto il mondo. Ma intanto il primo obiettivo è di creare un'Italia indipendente dalla Francia, baluardo contro l'Austria e la Russia, capace di abbattere definitivamente "l'idra abbominevole dell'aristocrazia". La sua esortazione vibra di furore libertario e rivoluzionario: "la libertà una volta perduta non si ricupera, se non si riacquista". Le rivoluzioni vengono preparate dai filosofi, le baionette le decidono. Se voi pensate Italiani di fare la vostra rivoluzione seduti ne' circoli, ne' caffè, ai sibariti banchetti, di molto v'ingannate", "un popolo accostumato al giogo, se non viene svegliato e diretto da quegli uomini nati a comandare, non farà che cambiare tiranni. Bisogna distruggere per riedificar".
Da questo momento il F. lasciò la penna e impugnò la spada per la redenzione dell'Italia: aiutante generale e poi capo di battaglione della legione cisalpina del generale G. Lahoz (promotore nel 1799 di un tentativo indipendentista "unitario") fu tra i primi a entrare a Bergamo ma anche a sperimentare i rischi e le delusioni di una "democratizzazione" imposta con le baionette francesi, col fragile supporto di esigui manipoli di "giacobini" locali, per lo più staccati dalle masse contadine, rimaste fedeli ai vecchi regimi. A capo di una colonna occupò Brescia, d'accordo coi nobili "democratici" di palazzo Lechi; quando nella vicina Salò i "giacobini" rovesciarono il Leone di S. Marco e insediarono una Municipalità democratica ben presto travolta da una controrivoluzione di contadini delle valli circostanti, egli guidò insieme con Francesco Gambara una spedizione nella cittadina lacustre per "remettre les choses dans l'ordre que les Salodiens avoient accepté", ma, dopo una breve trattativa con gli insorti, venne assalito a tradimento, ferito e fatto prigioniero, mentre duecento commilitoni caddero vittime del furore rusticano.
Il 9 apr. 1797 in una lettera a Napoleone dalla prigionia di Vicenza descriveva gli eventi, chiamando briganti, mostri, cannibali gli insorti (prima dell'attacco li aveva definiti fratelli da "éclairer et non pas détruire") e invocando la liberazione. Dopo la richiesta presentata in tal senso dai Francesi, gli inquisitori di Stato ricordarono maliziosamente ai rettori di Verona che i giacobini erano andati a Salò non con "ostentata filosofica intenzione" ma per forzare il libero voto dei più che volevano restare fedeli al governo legittimo, e dipingevano il F., "già suddito veneto", come "una testa riscaldata e sovvertitrice, piantata sul falso ed opposta alle massime di equità, di osservanza di neutralità e di buona corrispondenza"; ma di lì a qualche settimana cedettero alle pressanti richieste di Napoleone e lo liberarono. Il 1° giugno, ormai caduta la Repubblica, il F. "per puro civismo e zelo patriotico", si offrì di dirigere la guardia civica di Venezia. L'ideale "unitario", così lucido e ardente nel Discorso e nella lettera a Napoleone, gli ispirò una frenetica attività politica nei giorni decisivi che precedettero Campoformio: alle prime voci della possibile cessione del Veneto, fece pressioni per la costituzione di un comitato centrale veneto, "con funzioni di governo provvisorio che rappresentasse legalmente e tutelasse gli interessi politici di tutta la regione veneta" (Fasanari, Il Risorgimento a Verona..., pp. 10 s.); partecipò quindi al Congresso di Milano del 12 giugno e poi a quello di Bassano del 15-25, che dovevano preparare l'annessione della Terraferma alla Cisalpina e infine, nel settembre-ottobre, per incarico del presidente del Direttorio cisalpino Marco Alessandri, compì un'estrema missione segreta a Campoformio per ottenere l'annessione di Venezia e della Terraferma alla Cisalpina, premessa di una grande Repubblica italiana.
Dopo il trattato del 17 ott. 1797 si recò a Parigi come delegato al Direttorio, poi venne nominato capo della seconda divisione del dipartimento della Guerra della Repubblica Cisalpina (di cui fu cittadino attivo dal 24 genn. 1798) e compì due delicate missioni a Mantova e a Rimini per sedare l'ammutinamento di alcuni reparti, controllare la contabilità militare, ispezionare magazzini e forniture, indagare su disertori e ufficiali incapaci, dilapidatori e ostili al governo. Come commissario straordinario eseguì anche numerose ispezioni a depositi di viveri di Peschiera, Mantova, Ferrara, Forte Urbano, Orzinuovi, Cremona, Pizzighettone. Scoppiata la guerra della seconda coalizione, non tardò "un solo istante a gettare la penna per impugnare la spada" e, rassegnate le dimissioni dalla seconda divisione, rientrò nell'armata francese col grado di aiutante generale e poi di generale di brigata. Nel gennaio 1799 era a Lucca per collaborare alla "democratizzazione" di quella Repubblica aristocratica, ma ne ritornò disgustato delle spoliazioni francesi; il 5 aprile partecipò alla battaglia di Magnano e il 17-19 giugno cadde prigioniero in quella della Trebbia. Ma subito evase: riparò a Genova, quindi partecipò allo scontro di Novi e combatté eroicamente alla montagna dei Due Fratelli; infine, il 2 maggio 1800, morì durante l'assalto al forte La Coronata.
Nella festa inaugurale del foro Bonaparte in Milano il governo cisalpino gli assegnò un posto sulla tomba eretta nel bosco dei Campi Elisi; Ugo Foscolo, che con lui aveva combattuto ed era stato ferito all'assedio di Genova, meditò di scriverne una biografia e lo ricordò commosso nell'Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione ("E voi che dai ricuperati colli di Genova accompagnaste alla sepoltura degli Eroi lo spirito di Giuseppe Fantuzzi, gridate voi tutti: Forti, terribili, e a libera morte devoti furono i nostri petti; benché pochi, ignoti, e spregiati").
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Inquisitori di Stato, busta 131, disp. 9 apr. 1797; busta 375, disp. 27, 29, 30 e 31 dic. 1796; 3-4, 19 genn. 1796 m.v. [= 1797]; busta 605, disp. 7 ott. 1796; Arch. di Stato di Milano, Ministero della Guerra, cart. 1522; F. Gambara, Relazione del fatto di Benaco e della prigionia de' nostri fratelli d'armi, Brescia, anno I della libertà italiana [1796]; Gazzetta nazionale della Liguria, 3 maggio 1800, p. 878; F. Pellegrini, Tre lettere del generale G. F., Belluno1872; F. S. Orlandini, Cenni biografici di G. F., in U. Foscolo, Opere edite e postume. Prose politiche, Firenze 1850, p. 60; L. Carrer, Vita di Ugo Foscolo, Firenze 1853, pp. 270, 288; G. F., in Chi non risica non rosica. Annuario del 1856, II, Venezia1856, pp. 95-130 (la biografia anonima qui contenuta è ristampata in La Provincia di Belluno, V [1872], nn. 132-138); Due diarii inediti dell'assedio di Genova nel 1800, a cura di G. Roberti, in Atti della Soc. ligure di storia patria, XXIII (1890), p. 434; A. Buzzati, Bibliografia bellunese, Venezia 1890, nn. 620, 1073, 1535, 1661, 2428, 2485; L. Bossi, Diario dell'assedio di Genova del 1800, a cura di L. Massara, in Giorn. ligustico d'archeol., storia e lett., n. s., I (1896), pp. 353 s.; Assemblee della Repubblica cisalpina, II, a cura di L. Montalcini-A. Alberti, Bologna 1917, p. 180; Verbali delle sedute della Municipalità provvisoria di Venezia 1797, I, 1, Sessioni pubbliche e private, a cura di A. Alberti-R. Cessi, Bologna 1928, p. 86; F. Bettoni, Storia della Riviera di Salò, II, Brescia 1880, pp. 309-315; L. T. Belgrano, Imbreviature di Giovanni Scriba, Genova 1882, pp. 254 s., 257; L. Alpago Novello, Fantoni per F., in Antologia veneta, III (1903), 6; S. Pivano, Albori costituzionali d'Italia, Torino 1913, pp. 25 s.; D. Cantimori, Utopisti e riformatori italiani, Firenze 1943, pp. 80-83, 104, 117, 129; R. Fasanari, Gli albori del Risorgimento a Verona (1785-1801), Verona 1950, pp. 161 s., 174; Id., IlRisorgimento a Verona 1797-1866, Verona 1958, pp. 10 s., 14, 45; M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento. Ricerche storiche, Firenze 1956, pp. 139, 217-224, 299; R. Giacomini, Troppo poco un medaglione in gesso per il generale G. F., in Il Gazzettino, 23 nov. 1958 (ediz. di Belluno); E. Rota, Milano napoleonica, in Storia di Milano, XIII, Milano 1959, pp. 74, 92, 122; P. Berselli Ambri, L'opera di Montesquieu nel Settecento ital., Firenze 1960, pp. 138 s.; S. Rota Ghibaudi, La fortuna di Rousseau in Italia (1750-1815), Torino 1961, pp. 243 s.; F. Lechi, Il miraggio della libertà, in Storia di Brescia, IV, Brescia 1961, pp. 25, 28; A. Saitta, Alle origini del Risorgimento: i testi di un "celebre" concorso (1796), I, Roma 1964, pp. 215-262 (riproduce il testo del Discorso filosofico-politico); C. Zaghi, Potere Chiesa e società. Studi e ricerche sull'Italia giacobina e napoleonica, Napoli 1984, pp. 151, 265, 267; Id., L'Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, Torino 1986, pp. 53, 135, 140, 146 ss., 154, 157, 160, 167, 169, 170, 177, 491, 543; P. Preto, Venezia e le spartizioni della Polonia, in Cultura e nazione in Italia e Polonia dal Rinascimento all'Illuminismo, a cura di V. Branca - S. Graciotti, Firenze 1986, pp. 87 s.; Diz. del Risorg., III, p. 38.