FENAROLI AVOGADRO, Giuseppe
Nacque a Brescia il 24 marzo 1760, penultimo di sei figli, dal conte Bartolomeo Fenaroli e da Paola Avogadro. Con il fratello Girolamo condivise dalla gioventù l'interesse per le novità d'Oltralpe, frequentando con lui, fino al 1792, il Casino de' buoni amici, il circolo dei giovani nobili bresciani che si acquistò fama di club giacobino. Nel 1795 fu nominato provveditore ai Confini della Serenissima lungo il fiume Oglio, membro della commissione mista - composta da rappresentanti veneti e della Lombardia austriaca - che aveva il compito di registrare ogni mutamento della linea confinaria e di sovraintendere al regime delle acque. Nel giugno 1796, inviato come delegato della propria Municipalità a Verona presso il provveditore generale N. Foscarini, il F. presentava invano le rimostranze per le requisizioni effettuate in territorio bresciano dai Francesi nel corso delle operazioni contro gli Austriaci. Nel luglio i Fenaroli ospitarono a Brescia il Bonaparte, quivi raggiunto dalla consorte Giuseppina; la contessa Paola, in quel frangente, non esitò ad accordare all'illustre ospite un ingente prestito. Napoleone, come ricorda F. Gambara (Prose, p. 51), "non dimenticò il beneficio avuto", ragione per cui in seguito al F. "versò ben meritati onori".
Dopo la rivolta di Brescia del 1797 il F., che era stato con altri nobili tra i capi degli insorti, entrò a far parte del governo provvisorio bresciano, tra i membri del comitato di Finanza; tuttavia, durante i nove mesi della Repubblica, ebbe modo di segnalarsi soprattutto per l'azione diplomatica e di mediazione svolta presso il Bonaparte. In aprile si recò con V. Uccelli a Leoben, dove fu accolto con simpatia dal generale, che si interessò personalmente per il rilascio dei prigionieri bresciani detenuti nelle prigioni venete. Ai primi di maggio compì insieme con G. Beccalossi una missione a Milano come rappresentante della Repubblica Bresciana.
In seguito alla decisione di Napoleone di separare la Valcamonica da Brescia si pervenne ad un accordo che demandava ad una commissione - di cui faceva parte anche il F. - la definizione della nuova linea confinaria lungo l'Oglio tra la Repubblica Bresciana e il Dipartimento del Serio. Il Beccalossi e il F. erano i portavoce di un governo che auspicava una repubblica italiana "una. e indivisibile", ma d'altro canto ribadiva in ogni occasione la volontà di salvaguardare la propria indipendenza. Nel frattempo bisognava mantenere buone relazioni con Napoleone e per "assediare il suo cuore" Beccalossi confidava nel collega Fenaroli.
Il trattato di Campoformio non solo segnava il destino della Repubblica di Venezia, che passava all'Austria, ma assegnava diversamente da quanto era stato previsto a Leoben, la Lombardia veneta alla Cisalpina, determinando la scomparsa della Repubblica Bresciana. Durante una brevissima sosta a Brescia del Bonaparte diretto ad Udine, il 24 agosto, il F. era stato l'unico ad avere un abboccamento con lui, e il 17 settembre egli stesso era partito alla volta del Friuli.
Il 30 settembre perveniva alle autorità bresciane una sua lettera, in cui assicurava che Napoleone aveva scritto al Direttorio cisalpino per l'unione di Brescia e di Mantova a quella Repubblica, perché "tali sono le misure che la Repubblica francese crede più opportuno per la nostra". La notizia era tuttavia già stata divulgata a Brescia da una lettera del ministro degli Esteri della Cisalpina, C. Testi. Ai primi di ottobre il F. rientrò per brevissimo tempo nella città natale, donde riparti, per portare al quartier generale francese a Udine la richiesta contribuzione di mezzo milione di lire.
In seguito egli si trasferì a Milano con un drappello di patrioti bresciani, prima per definire con Bonaparte le modalità dell'unione con la Cisalpina (21 novembre), poi per partecipare alla vita politica della Repubblica. Il governo bresciano lo aveva eletto tra i suoi rappresentanti al Corpo legislativo della Cisalpina; Napoleone, che volle decidere personalmente i primi incarichi, confermò la scelta, nominandolo nell'Assemblea degli juniori. In un primo tempo Bonaparte avrebbe preferito che il F. occupasse il posto lasciato vacante da G. G. Serbelloni nel direttorio, ma lo stesso F. propose in sua vece G. B. Savoldi, riuscendo a convincere con un esborso di denaro il generale, che riteneva il nuovo prescelto troppo modesto proprietario. Il mese seguente rinunciò anche alla nomina, fatta dal Direttorio, ad ambasciatore della Cisalpina a Vienna, incarico delicato assegnato poi a F. Marescalchi. A Milano il F. venne invece eletto primo presidente dell'Assemblea degli juniori.
Sia nel discorso inaugurale all'Assemblea, sia nei successivi interventi il F. fece grandi elogi del sistema rappresentativo e della costituzione repubblicana, mostrando posizioni apparentemente radicali e giacobine ("disingannare i sedotti per mezzo di una generale propagazione di lumi ... schiacciar le teste alle ... idre ... della religiosa ipocrisia") che celavano in realtà un orientamento moderato. Tra i suoi interventi si segnalò quello del 26 novembre contro la legge, sottoscritta da Bonaparte prima di lasciare Milano, che aboliva il ministero di Polizia, accorpandolo con quello della Giustizia. Egli considerava quel provvedimento contrario alla costituzione e all'esigenza di mantenere l'ordine pubblico (nel 1801 lo stesso F. sarà vittima di un'aggressione di ladri di strada); sulla necessità di un ministero di Polizia autonomo tornò anche nel discorso del 2 dicembre sulle commissioni militari e la sicurezza pubblica. Tuttavia la maggior parte degli interventi del F. riguardarono i mezzi per far fronte alle continue richieste del Direttorio per sovvenire ai bisogni dello Stato e alle pretese della Francia.
Nell'aprile del 1798, per essersi opposto al trattato di alleanza con la Francia, il F. fu espulso con altri colleghi dal Gran Consiglio e, con provvedimento del generale V.-E. Le Clerc, posto sotto sorveglianza e obbligato a risiedere tra Brescia e Radiano, antico possesso della sua famiglia. Non tornò alla vita politica neppure dopo il colpo di Stato di C.-J. Trouvè.
Durante la reazione austro-russa il F. non ebbe a subire le persecuzioni che, al contrario, colpirono il fratello Girolamo. Tra il 1799 e il 1800 soggiornò a lungo a Crema, ospite di casa Benvenuti, da dove scriveva alla cognata Barbara e all'amico avvocato Borghi perché fossero d'aiuto al fratello. Dopo Marengo, nell'aprile del 1801, ebbe l'incarico di recarsi a Parigi, col generale D. Pino e B. Oriani, per esprimere al Bonaparte la gratitudine della seconda Cisalpina per la pace di Lunéville. Corsero allora voci che in realtà fosse in atto una manovra del governo per sostituire il Marescalchi col F. nell'incarico di ambasciatore nella capitale francese (lett. di A. Aldini al Marescalchi del 20 marzo). La preoccupazione si rivelò tuttavia poco fondata: il F. si mostrò sempre restio ad assumere incarichi gravosi.
Nell'inverno il F. fu invitato a partecipare a Lione alla Consulta straordinaria cisalpina con i notabili del dipartimento del Mella; rinunziò tuttavia a presiedere la sezione degli "ex veneti" dell'Ufficio deliberativo. Quando Napoleone arrivò a Lione manifestò fin dai primi giorni al F. una benevolenza che il bresciano seppe ricambiare. Nominato membro della Commissione dei trenta - che avrebbe dovuto "concertare" con Bonaparte la nomina del nuovo governo - egli fu l'unico (secondo alcune "voci" raccolte da L. Brognoli) a non votare nella prima seduta per un candidato italiano, favorevole fin dall'inizio all'elezione di Napoleone. Al dire di L. Cicognara, un presidente italiano "avrebbe senza dubbio respinto" l'offerta di "un prestito ... per le finanze indirette" della Repubblica, che era stata invece avanzata al primo console da "una compagnia di speculatori" capeggiati da G. B. Sommariva, tra i quali figuravano anche il F. e A. Lechi (il nome del F. sarebbe tuttavia, secondo il Da Como, un'aggiunta della manipolazione delle memorie Cicognara fatta dal Malamani).
Eletto Napoleone presidente ùella Repubblica Italiana, il F. fu ricompensato con la nomina a membro della Consulta di Stato: una istituzione prestigiosa e che assicurava un onorario annuo di 30.000 lire, anche se di limitati poteri reali. Egli, che a Lione era stato inoltre nominato membro del Collegio elettorale dei possidenti, ritornò a Milano per partecipare, nel febbraio del 1802, al solenne ingresso del vicepresidente F. Melzi. Sempre coerente con il proposito di non accollarsi uffici scomodi, in quei giorni rifiutò, secondo la testimonianza del barone S. de Moll, la nomina a ministro di Polizia. La firma del F. compare, insieme con quella degli altri colleghi della Consulta. in calce al progetto di costituzione del Regno d'Italia presentato dal Melzi il 29 maggio 1804, che fu giudicato un audace attestato d'indipendenza nei confronti di Napoleone. Il vicepresidente diceva di esser riuscito in quell'occasione a "dirigere ... il voto" della Consulta, tuttavia rivelava al Marescalchi che alcuni membri potevano in seguito essergli d'ostacolo; in particolare il F. e C. Caprara, che sapeva in contatto con il generale in capo Gioacchino Murat, suo noto avversario (lett. del 21 giugno).
In alcune lettere del 1803 il Melzi avanzava il sospetto che il F. avesse avuto insieme con altri "bresciani" un ruolo poco chiaro nell'evasione dei sicario Borni, uno dei bravi del conte Galliano Lechi, che in seguito aveva offerto i suoi servigi a Fanny Lechi, amante del generale Murat. In un'altra occasione il vicepresidente riportò un giudizio tagliente che il primo console aveva dato a proposito del F. e del Caprara: "Il faut les placer dans la Consulte parce qu'ils ne savent ni lire, ni écrire". "Ora", lamentava, "son diventati i preferibili e ... non si cura nella gente d'aver uomini di carattere, di onore e di testa" (lett. al Marescalchi del 15 nov. 1804). Non molto dissimile era l'opinione espressa da G. Compagnoni ("Fenaroli, che poche cose conosceva, e conosceva poco gli uomini") e dall'anonimo autore delle Lettere cisalpine ("non sapeva nulla e aveva molte pretese"). Erano valutazioni severe che in parte risentivano dell'asprezza delle battaglie politiche di quegli anni. Più attendibile il giudizio che del F. ha lasciato F. Coraccini [G. Valeriani]: "uomo freddo, meticuloso e circospetto". Il profilo del F., che pure indugiava in una posa continua di diplomatico, che ostentava la parlata francese, si discostava tuttavia da quello di un Caprara, in cui il fasto celava la "bancarotta" di un'esistenza inutile. Agli inizi del secolo il F. e suo fratello Antonio, entrambi celibi, amministravano con oculatezza le ingenti proprietà familiari; secondo G. Brognoli, a Brescia molti in quegli anni avevano accumulato enormi fortune, ma solo i Fenaroli e pochi altri erano riusciti a non dilapidarle.
Nel 1805 il F. si recava a Parigi con gli altri membri della Consulta, nella delegazione di notabili che avrebbe dovuto dare legittimità costituzionale ad un nuovo progetto di Regno d'Italia.
In quel periodo il Melzi guardava con maggior circospezione, rispetto al passato, agli "intrighi" del F., in quanto il conte conosceva il Murat dai tempi del suo soggiorno bresciano del 1796, e poteva introdursi facilmente a corte, grazie all'antica familiarità con Napoleone e la sua consorte ("anche per la via delle toilettes si spera di giungere alle grandi dignità", commentava a proposito dei regali del Fenaroli). Stando ai rapporti del segretario di Stato L. Vaccari e del barone de Moll a Vienna, il F. fu a Parigi uno dei consultori che parteciparono alla fronda contro il Melzi, che si era trovato solo a sostenere il carattere "nazionale" del futuro Regno d'Italia.
Il 17 marzo il F. partecipava alla solenne cerimonia alle Tuileries, in cui veniva rimesso all'imperatore il voto della Consulta e della deputazione italiana che lo chiamava al Regno d'Italia. Durante la cerimonia d'incoronazione di Napoleone nel duomo di Milano ebbe l'onore di portare nel corteo lo scettro di Carlo Magno. L'imperatore, dal canto suo, nella distribuzione di cariche ed appannaggi ai dirigenti del nuovo Stato vassallo non dimenticava il F., che fu insignito nel 1804 della Legion d'onore, nominato nel 1805 gran maggiordomo maggiore e nel 1806 cavaliere della Corona di ferro.
Come dignitario, il F. sedette di diritto nel Consiglio di Stato, che era stato istituito nel 1805 per coadiuvare il governo elaborando i progetti di legge e fornendo pareri. Durante le prime sessioni, presiedute direttamente dall'imperatore, il F. si limitò ad intervenire perché si accordasse un aumento alla remunerazione del vescovo di Brescia: richiesta prontamente accolta. Qualche anno dopo s'interessò perché Brescia fosse scelta come sede di un tribunale d'appello. In virtù del decreto 19 febbr. 1809 egli entrò a far parte del Senato e il 12 aprile dello stesso anno venne infine insignito del titolo di conte del Regno.
Fra i ministri con i quali il F. intrattenne buone relazioni fu A. Aldini, segretario di Stato residente a Parigi, come è testimoniato dagli scambi epistolari avuti con lui fino al 1814. Come lo statista bolognese e molti alti funzionari dell'amministrazione napoleonica, anche il F. risulta essere stato affiliato alla massoneria. Già nel 1805 figura nella loggia milanese ed in seguito tra i dignitari onorari della loggia "Amalia Augusta" di Brescia. Dopo la caduta del Regno d'Italia il suo nome ricomparirà nell'elenco. dei franchi muratori milanesi di "prima classe" che A. Raab inviò a Vienna al presidente della polizia Fr. Haager von Altensteig. Ciò non pregiudicò tuttavia l'atteggiamento delle nuove autorità di governo, in primo luogo di H. J. Bellegarde, convinte che la massoneria del Regno Italico non avesse alcuno spirito rivoluzionario; Francesco I confermò infatti al F. gli onori e gli emolumenti di gran dignitario.
Una delle ultime apparizioni pubbliche del F. risale al luglio del 1814, a Vienna, quando ai margini del congresso la sua presenza fu segnalata dal plenipotenziario del re di Sardegna, marchese A. M. F. Asinari di San Marzano, che l'aveva incontrato presso il nunzio pontificio mons. A. G. Severoli. Dopo il ritiro a vita privata, ci resta di lui un documento nel quale chiedeva a Roma la riconferma della licenza per i libri proibiti; confidava in una risposta benevola, protestando che "anche ne' più torbidi e calamitosi tempi per nulla la lettura de' medesimi ha potuto contribuire a minorare il ... dovuto attaccamento e persuasione nella... Religione".
Morì a Brescia nel gennaio del 1825.
Scritti: Degli interventi del F. all'Assemblea degli juniori furono dati alle stampe il Discorso del primo presidente del G. C. Cisalpino, recitato nella seduta del giorno 3 Frimale anno VI Repubblicano, S. n. t.; il Discorso ... nella seduta quinta del G. C. del giorno 6 Frimale anno VI Repubblicano, S. n. t., e il Discorso nella seduta trigesimaseconda del G. Consiglio del giorno 10nevoso nell'atto che termina la sua presidenza, S. n. t., pubblicati anche in Assemblee della Repubblica Cisalpina, I, pp. 93, 129 s. 460.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Fondo Inquisitori di Stato, processi e carte politiche, b. 1244, fasc. 231 (segnalato da R. Zilioli); Arch. di Stato di Brescia, Fondo Avogadro-Calzaveglia-Fenaroli, cartt. 43, 44, 49, 50 (in quest'ultima cfr. cariche, inviti, corrispondenza privata degli anni 1804-1825); Fondo Cancelleria prefettizia superiore, Acque, cart. 7; Brescia, Bibl. Queriniana, Mss. Fé 31: G. B. Avanzini, Giornale dell'armata imperiale e francese in Italia, in partic. I e II, una lett. del F., datata Udine, 28 sett. 1797, autogr. (cart. 108/a); Arch. di Stato di Milano: nel Fondo Consiglio legislativo, cartt. 605 ss., si trovano i verbali del Consiglio di Stato (1805-1813); Arch. di Stato di Bologna, Fondo Aldini, bb. X e XI (lett. del F. allo statista bolognese). Lonato, Fondaz. Ugo Da Como, ms. 136: Diario degli avvenimenti politici di Brescia dal 9 marzo 1797 al 20nov. 1798;mss. 18/19 (temporaneamente depositati presso la Bibl. Queriniana di Brescia): G. 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