Ferrari, Giuseppe
Storico, filosofo della storia e teorico della politica, nato a Milano il 7 marzo 1811 e morto a Roma il 2 luglio 1876. Emigrato in Francia nel 1838, maturò posizioni democratico-rivoluzionarie; rientrò a Milano nel 1859 e fu deputato della Sinistra dal 1860 al momento della morte.
La riflessione sugli avvenimenti rivoluzionari del 1848-49 in Italia e sui coevi fatti di Francia portò F. a studiare il Quattrocento alla luce del pensiero machiavelliano. Dato che il «risorgimento» italiano dal Medioevo «fu preludio di tutte le rivoluzioni moderne» (Machiavel juge des révolutions de notre temps, 1849, trad. it. in Scritti politici, a cura di S. Rota Ghibaudi, 1973, p. 161; le successive citazioni sono da questa edizione), F. interpreta M. come filosofo, come legislatore, come storico e come politico. Il fine dichiarato è stendere «la storia postuma delle sue idee, facendolo giudice della rivoluzione che ha invocata» (p. 163). Il primo capitolo di Machiavel juge des révolutions de notre temps è dedicato a La religion de Machiavel; questa «consiste nel culto dell’intelligenza, fortificata dall’irreligione e dalla immoralità più assoluta» (p. 169). Il trionfo dell’intelligenza, identificata con la virtù, può essere raggiunto solo superando le leggi della morale e riconoscendo i veri interessi che agitano la storia. «Ottimo osservatore», ma chiuso in una dottrina individualistica nella quale non si tiene conto del fatto che l’individuo è creato dal suo secolo, M. concepisce un’arte del successo «arcana» e insufficiente, che non sa scegliere tra religione e riforma, tra monarchia e repubblica. In questa prospettiva F. legge le Istorie fiorentine, e ne ricava che, troppo legato a schemi greco-romani, M. non riesce a comprendere le lotte tra guelfi e ghibellini e nemmeno quelle tra principi e repubblica: «come storico ha falsato la storia» (p. 194). E nondimeno M. è il primo a indicare le condizioni storiche del ‘risorgimento’ italiano, che identifica nella lotta al papato e all’impero. In ciò F. riassume l’originalità e la grandezza di Machiavelli. Nel quarto capitolo, intitolato Machiavel politique (nel quale, tra l’altro, F. dimostra di ben conoscere sia le lettere private sia le corrispondenze pubbliche, consultate nell’edizione di Firenze del 1831), se da un lato gli scritti ‘di governo’ di M. vengono giudicati di scarso interesse, dall’altro, nel ricercare «l’arte del riuscire», cioè il successo, e nel descrivere ciò che è accaduto, M. tratteggia i caratteri salienti di ogni rivoluzione. Così F. riassume il metodo machiavelliano: «Avvenuto che sia il fatto, egli ne scandaglia tutta la materiale profondità; dipinge la situazione di Firenze e di tutti gli Stati italiani con meravigliosa chiarezza» (p. 214).
Ogni rivoluzione deve avere scopi precisi, basati su princìpi noti e diffusi, con l’indicazione e la pubblicizzazione dei mezzi per realizzarli. M. fonda gli uni e gli altri sull’«onnipotenza dell’individuo», e in ciò sta il suo errore di filosofo della storia, poiché
nessun popolo si è mai soffermato per difetto di capi: gli uomini escono dalle moltitudini e il loro genio si limita a dare una formula di inspirazione nazionale, non conducendo le moltitudini che al punto cui vogliono giungere (p. 129).
Si deve pertanto sostituire alla dottrina individualistica di M. una concezione collettiva della storia. L’attenzione posta da M. sulla necessità di un esercito nazionale non si collega a una visione dell’unità dell’Italia, ma al principio delle libertà individuali e all’idea di indipendenza italiana sorta con i Comuni medioevali. Una prima verifica storica – o, come scrive F., una prima applicazione – di queste idee, si ebbe in Germania con la Riforma, grazie alla quale ogni uomo divenne sacerdote e alla superstizione si sostituirono la religione e la libertà di pensiero, e nella Francia dell’Ottantanove, dove si può dire che i princìpi s’impadronirono degli avvenimenti. Tutto il settimo capitolo, intitolato La Révolution française selon Machiavel, è dedicato a mostrare come la vicenda francese convalidi le idee e i princìpi machiavelliani; gli accadimenti del febbraio 1830, la rivoluzione del popolo contro una borghesia che aderiva all’idea di libertà come prosperità professata da Luigi Filippo d’Orléans, confermano che la ‘teoria del successo’, senza il concomitante mescolarsi di idee, uomini, cose, può trasformarsi in poco tempo da strumento di democrazia in tirannia.
La via della rivoluzione pertanto è tracciata, e vale anche per la realtà italiana. Occorre dichiarare «guerra ai princìpi della servitù prima di combattere lo straniero» (p. 253). E si deve sconfiggere l’assolutismo del pontefice prima di combattere lo straniero. Qui F. fa parlare direttamente M.:
Tu non puoi essere indipendente – diceva egli all’Italia – se non per il dominio d’un principe e per quello d’una repubblica. Nessun principe ti farà indipendente, giacché tutti i principi moderni, minacciati dalla democrazia, fanno parte del sistema austropapale. Scegli dunque l’alternativa della repubblica; e quando l’avrai scelta, non ritornar più indietro (p. 253).
Le ultime righe del saggio sintetizzano il giudizio dell’autore su M.:
Presi ad esaminare Machiavelli con una specie di avversione; ora lo abbandono edificato da un provvidenziale ammaestramento. Nulla si compie nel mondo politico che possa scostarsi dalla teoria del successo indicata da Machiavelli (p. 268).
Le divisioni all’interno dei movimenti patriottici e democratici italiani, le vicende francesi e il sempre maggior peso politico di Luigi Bonaparte – che alla fine del 1852 sarebbe diventato imperatore dei francesi con il nome di Napoleone III – portarono F. a rivedere le proprie posizioni politiche, ma anche ad approfondire le proprie teorie, a staccarsi definitivamente dal mondo accademico francese e dalle correnti di pensiero legate a Victor Cousin, e ad avvicinarsi alle dottrine sansimoniane e proudhoniane. Nacquero così Les philosophes salariés (1849) e, soprattutto, Filosofia della rivoluzione (1851) e La federazione repubblicana (1851). M. è nominato sei volte ne La federazione repubblicana e undici in Filosofia della rivoluzione.
La Federazione ospita le pagine più antimachiavelliane di Ferrari. Nella lunga, contorta e contraddittoria analisi della teoria dell’unità nazionale, egli vuole confutare M., il quale «riconosce che l’Italia è dai principi divisa, soffocata, ruinata. Poiché i principi ci tradiscono […] togliamoli via, uniamo i popoli, formiamo un solo esercito, una sola nazione» (in Scritti politici, cit., p. 335). Ma ciò significa, secondo F., dissolvere Stati ancora più antichi della Francia per tentare di fonderli in uno solo, che non esiste: un’astrazione nella quale il principe teorizzato da M. assume le vesti di un tiranno e viene a giustificare le pretese dei Savoia. In questa polemica, F. accosta M. alle dottrine professate da Giuseppe Mazzini negli anni Trenta dell’Ottocento, quando il Cesare Borgia machiavelliano finiva per identificarsi con il re di Sardegna Carlo Alberto. Sia M. sia Mazzini, commenta F., hanno una concezione onnipotente dell’individuo e un’idea astratta dell’unità d’Italia.
Ben diversa è la figura di M. che emerge dalle pagine di Filosofia della rivoluzione. Qui le riflessioni di F. spaziano in orizzonti più ampi del contesto storico a lui coevo e della questione nazionale italiana, per investire le basi e i caratteri salienti di una filosofia politica e civile «chiamata a governare l’umanità» (in Scritti politici, cit., p. 409). M. viene paragonato ai grandi del pensiero, da Platone a Montesquieu e ad Adam Smith. Viene sostanzialmente accettata la sua definizione di ‘ordine’; inoltre, pur mitigata dalle influenze vichiane, la concezione machiavelliana del Medioevo diventa una pietra di paragone fondamentale nella ricostruzione storica e teorica dei legami tra politica, religione e vita quotidiana. Nelle pagine in cui si parla della dialettica scienza/carità, F. riconosce a M. di aver teorizzato che la scienza del legislatore non è altro che scienza dell’utile, poiché nella società agisce l’uomo dell’interesse e non l’uomo del dovere astratto, e il compito di chi comanda è quello di agire sapendo che
l’ordine è il calcolo dell’interesse, emergente dalla necessità di subordinare le nostre azioni allo scopo che si vuol raggiungere. Ma per sé, l’ordine non è la morale, è un calcolo; esiste nel bene, come nel male; nella libertà, come nella tirannia (p. 726).
Siamo di fronte al riconoscimento che M. ha indicato la strada per edificare una moderna scienza politica con proprie leggi, autonome da quelle di ogni altra scienza umana. Questa strada passa attraverso la ragione di Stato, la scienza che giustifica ogni sistema politico, ed è la premessa per conoscere e prevedere i movimenti della storia. Così un’altra opera di F., Histoire de la raison d’État (1860), si rivela il tentativo di stabilire una legge della storia fondata sulla contemporaneità e sulla ripetibilità degli avvenimenti e dei princìpi che vi stanno dietro. L’opera è divisa in due parti. La prima, con il titolo La politique des peuples, ricostruisce la vita degli Stati delineando costanti comuni nel tempo, indicate nel dualismo che mette i popoli in conflitto tra loro o al proprio interno, nel succedersi della forma monarchica a quella repubblicana e viceversa, in una specie di guerra eterna, come dimostrano le vicende d’Europa a lui coeve.
Nella seconda parte del libro, intitolata La politique des savants, F. espone e commenta l’avvicendarsi delle diverse dottrine politiche dal Duecento sino alla Rivoluzione francese, e rimarca la superiorità dei pensatori italiani e la loro influenza sul resto dell’Europa, a partire dal trattato anonimo Oculus pastoralis (prima metà del 13° sec.), considerato «il primo preludio della scienza di cui noi ci occupiamo» (p. 213), cioè della ragione di uno Stato.
In questa sezione dell’opera, a M. viene dedicato un intero capitolo, significativamente intitolato Dieu détrȏné. Riprendendo giudizi già espressi in precedenza, F. presenta M. come un nuovo titano che «propose di detronizzare Dio e di rimpiazzarlo con Satana nel governo delle moltitudini» (p. 240). In questa disamina, che pur non ignora l’attualità della questione italiana, M. diventa un uomo di puro intelletto che, seppur attribuisce troppo peso al tema della conquista straniera dell’Italia, riesce a fare tabula rasa dei vecchi modi di concepire la politica con la sua dottrina del successo e con il ruolo fondamentale assegnato alla ragione nel superare le alchimie della mitologia religiosa.
Su questi temi F. ritornò alcuni anni dopo nel Corso sugli scrittori politici italiani (1862), che contiene il testo delle lezioni da lui tenute all’Università di Torino nel 1862-63. Benché l’opera porti sul frontespizio la data 1862, in realtà le lezioni apparvero a dispense tra il 1862 (le prime diciotto) e il 1863 (dalla diciannovesima alla ventinovesima), e furono raccolte in un unico volume nel 1863. Il Corso ha l’intento «di cogliere, attraverso il travaglio intellettuale dei pensatori analizzati, una legge generale di comportamento che esorbitasse dall’ambito nazionale per investire il comportamento umano in quanto tale» (Rota Ghibaudi 1969, p. 301). Dal confronto delle diverse idee, teorie e dottrine degli scrittori politici italiani analizzati, la legge generale viene individuata nel contrasto e nella costante opposizione all’ordine costituito; e gli autori trattati diventano una specie di laboratorio, nell’intento pedagogico di ricostruire il percorso della politica nella storia italiana, come lotta e come teoria e ricerca dei diversi modelli del vivere in società.
In questa che è la prima storia delle dottrine politiche pubblicata in Italia, dall’amplissima trattazione emergono le due figure che F. più aveva studiato negli anni precedenti: M. e Tommaso Campanella. A entrambi sono riservate tre lezioni. Soffermiamoci su quelle dedicate a M., dove, a giudizio di Gaetano Mosca, «la psicologia di Machiavelli viene con maggior profondità analizzata» (Il Principe di Machiavelli quattro secoli dopo la morte del suo autore, in Id., Saggi di storia della scienza politica, 1927, p. 10). M., interprete della più grande crisi dell’Italia moderna, viene definito da F., nel suo Corso, «l’uomo destinato [...] a prendere sopra di sé il peso della scienza per sorpassare l’influenza di tutti gli scritti a lui anteriori» (p. 191). A unità nazionale raggiunta, attenuatasi la polemica con Giuseppe Mazzini e gli unitari, F. rilegge la storia politica del Paese, alla ricerca di quelle costanti nel rapporto tra uomo e autorità che consentano di costruire un pensiero politico in grado di superare gli errori delle vecchie scuole di pensiero e, soprattutto, l’errore consistente nell’ipotizzare uno Stato isolato, senza tenere conto delle vicende e delle aspirazioni delle altre realtà statuali. In questo, M. diventa prezioso, con il suo presentarsi come
il maestro dell’arte di raggiungere le diverse mete della politica offrendo i suoi precetti indifferentemente ai principi, ai repubblicani, ai profeti, ai capitani, ai condottieri; e non cessa egli di moltiplicare i suggerimenti più opposti rivolti ai combattenti che sorgono gli uni contro gli altri, ed ai governi che occupano le posizioni più contraddittorie (pp. 196-97).
Tale forma mentis lo porta a rimanere come storico e come studioso politico «nel fatto», e ciò è confermato dal non essere l’unità «il suo punto di partenza»: M. «non vi pensa mai tranne nella prima pagina dell’Arte della guerra e nelle ultime del Principe» (pp.199-200). È questo il vero M., non compreso e deriso dai contemporanei, quello che
da attore fatto spettatore descriveva ogni fatto compiuto con lucidezza incomparabile, e poi fatto da narratore legislatore della politica creava quella plastica dell’ambizione che forma la meraviglia della nostra letteratura (pp. 263-64).
Il confronto con le dottrine più antiche, in particolare con quelle di Dante Alighieri, porta F. a meglio apprezzare le novità e le peculiarità di M.; ma rimangono i punti critici già individuati. Il primo è il privilegio dell’individualità, il quale fa sì che «la sua dottrina chieda dei capi, dei capi, sempre dei capi» (p. 225). Il secondo è il fatto che M., come storico puro, «ha scritto una cattiva storia mal evocando il passato» (p. 237); con il sottolineare e chiarire le differenze fra le forme dei governi, la sua utopica analisi, esaltante «una terra, dove regnano gli Dei della ragione e delle forza, e dove vivono eterni gli Stati e [...] non si temono i peccati ma gli sbagli» (p. 238), diventa tuttavia strumento di giudizio degli avvenimenti reali e lo rende profeta dell’età delle rivoluzioni. In terzo luogo, quando si studia la biografia di M. e se ne leggono le opere, bisogna avvertire che egli non era uomo d’azione, ma di pensiero, in contrasto con le correnti allora dominanti. F. pone M. contro Dante e la sua esaltazione dell’impero e della Chiesa universali; l’unità agognata da M. non è «quella confusamente adombrata in Dante, in Petrarca o nell’Oculus pastoralis, ma l’unione romana creata dall’Unione dei due poteri e costitutrice di uno Stato» (pp. 224-25). Ritorna, da Machiavel juge des révolutions de notre temps, il contrasto fra i due geni di Firenze. Anche se la sconfitta del Rinascimento e la restaurazione dell’impero – con l’incoronazione di Carlo V in S. Petronio a Bologna (1530) – sembrano storicamente dare ragione a Dante, il 19° sec. ha reso profetica l’utopia unitaria di M., primo «vero», cioè concreto, pensatore politico italiano.
M. si colloca dunque tra le fonti metodologiche e ideologiche del pensiero di F. (al pari di Giambattista Vico, di Gian Domenico Romagnosi e di Pierre-Joseph Proudhon) come momento importante e propositivo nella ricostruzione dei legami tra la storia classica romana, quella universale di Vico e quella civile di Romagnosi. Mentre nel periodo più fecondo della sua attività, quello che va dal 1848 alla nascita dello Stato unitario italiano, F. insiste sulle carenze del metodo storico machiavelliano, dopo il 1860, perdute le speranze in una rivoluzione federale e socialista, recupera le parti della dottrina di M. dedicate alla sovranità del potere statale, non più subalterno ai dettami dell’autorità ecclesiastica. La figura di M. viene collocata nello scenario della questione romana nell’Italia postunitaria, vista in una continuità storica con il Rinascimento italiano, la Riforma protestante e la Rivoluzione francese. Qui il F. maturo recupera gli insegnamenti del suo primo maestro: quel Romagnosi le cui opere sono non poco permeate dal confronto con il metodo, le idee e le teorie di M. stesso. Come leggiamo nel testo di Romagnosi Della vita degli Stati (1833), alla fine del settimo capitolo del secondo libro, dedicato a identificare e ricostruire la natura e l’indole della «politica fisiologica» (cioè i rami vitali dell’amministrare la cosa pubblica e le maniere del governare), il dovere del filosofo e di chi studia la realtà è quello di «tessere la teoria della vita degli Stati traendo i suoi princìpi» dai corpi sociali (in I tempi e le opere di Gian Domenico Romagnosi, a cura di E.A. Albertoni, 1990, p. 387). Applicando questo metodo, Romagnosi riconsidera la storia dei Comuni e del Medioevo italiani ponendo in luce il contrasto tra unità e libertà e il ruolo delle autonomie cittadine. Tali concetti sono fatti propri da F. – rafforzato in ciò dalla lettura della Histoire des républiques italiennes du Moyen-âge (4 voll., 1807-1808) di Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi – e consolidano in lui la convinzione che gli Stati vadano ridotti ai loro princìpi, secondo quella legge storica ciclica che porta prima a innovare e cambiare i governi, poi a cercare di conservarli, come indica M. nei consigli dati a chi governa. Di conseguenza, la ricerca attorno alla congruenza tra ipotesi e realtà diventa lo studio della dialettica tra verità ed errore, nella quale ci soccorre la storia quando si spinge a meglio definire i problemi attraverso l’aritmetica (come F. avrebbe precisato negli ultimi scritti), lo strumento più adatto a conciliare le diverse prospettive del legame tra essere e pensiero. Certo M. non si è posto il quesito, ma ha trovato nella distinzione tra ragione e credenza i fondamenti della differenza tra l’osservazione passiva del mondo concreto e l’analisi critica della medesima, ricavandone, nell’ambito del rapporto tra uomo e potere e tra Stati e Stati, un modello che ha riassunto nella figura ideale, in quanto non ancora realizzata, del principe o di colui che detiene l’autorità.
F. identifica nel principe non tanto il singolo statista, quanto una personificazione dell’autorità. Chi studia o costruisce un modello da proporre o perseguire concretamente non deve macerarsi attorno all’idea di bello, di buono e di bene, ma deve sempre ricordare che i limiti della natura umana sono i limiti della storia, in quanto l’uomo è soggetto alla «legge della fatalità»; ciò gli permetterà di sconfiggere l’aspirazione della religione e della teologia a farsi filosofia, e di meglio definire un’arte della politica, mentre M. riusciva soltanto a delineare le cause della decadenza e del progresso degli Stati, limitandosi a indicare i mezzi idonei a conseguire il successo o il potere e a mantenerli.
La legge della fatalità richiama le figure della volpe e del leone come le due facce del potere, inteso al pari di un Giano bifronte. La volpe simboleggia l’insieme degli strumenti atti a mantenere il potere senza svelare gli arcana imperii; il leone, la forza del numero, o dei princìpi, nel causare il ricambio della forma di autorità, o delle figure stesse dei governanti. Il fine della politica, che M. pone nel conservare il potere il più a lungo possibile, diventa in F. una ricerca della perfettibilità, basata sulla consapevolezza che ordine e progresso debbono soddisfare bisogni e interessi concreti dei governati.
Di qui, si torna al tema dei rapporti tra storiografia e scienza politica. Come M., F. si affida al metodo storico ben sapendo che, più che occuparsi dei singoli fatti individuali e della memorialistica del particolare, esso deve cercare di cogliere le leggi dell’agire umano. Al pari di altri autori, come Campanella, Vico e Romagnosi, che segnano il pensiero civile e politico italiano, M. è un ‘genio’. Si erge a rappresentante di un’epoca, raccoglie il brusio del popolo come le voci del potere papale o imperiale, e riesce a trasformarli in un insieme di idee e concetti generali che sanno cogliere lo spirito di uno Stato, indicare la strada per soddisfare i bisogni e le aspirazioni solo di un’età, e ricavarne una legge generale dell’agire finalizzato a uno scopo. A tanto giunge M., secondo F., con le sue teorie anticipatrici delle rivoluzioni moderne, con la distinzione tra legge politica e morale-religiosa, con il delineare il fine della politica nella conquista e nella gestione del potere.
Sottolineando l’importanza assegnata da M. alla lotta per il potere e al ruolo di ristrette minoranze che influenzano e gestiscono la cosa pubblica, F. si pone come un precursore dei pensatori ‘machiavelliani’ del 20° secolo. Nel 1889 Alfredo Oriani (→) – che già nel suo La lotta politica in Italia. Origini della lotta attuale, 476-1887 (1892) aveva inserito, rimaneggiati, estesi stralci dell’opera di F. Histoire des révolutions d’Italie, ou Guelfes et Gibelins (4 voll., 1858) – nel saggio Niccolò Macchiavelli riconosce a F., «solo fra tutti», di aver saputo cogliere «tutti gli errori del M. come legislatore storico politico», e pure, in essi, la fonte di «tutte le verità della scienza politica moderna» (A. Oriani, Niccolò Machiavelli, 1889, ed. a cura di G.M. Barbuto, 1997, pp. 98-99). Gaetano Mosca (→), oltre a considerare il F. del Corso il primo storico italiano delle dottrine politiche, negli scritti dedicati a M. dimostra di ben conoscerne le opere e di accoglierne le analisi, quando declina nella dottrina della classe politica la concezione della storia e della sua funzione strumentale nei confronti della scienza politica. Anche l’altro grande elitista, Vilfredo Pareto (→), riprende quanto già affermato da F. nel considerare M. uno dei fondatori dell’analisi psicologica del potere e uno dei precursori della teoria delle élites.
Etichettato superficialmente come troppo italiano dai francesi e come troppo ‘infranciosato’ dagli italiani, per i suoi scritti su M. e per il Corso F. non appare più un isolato nella storiografia politica nazionale, e la sua produzione scientifica non è più confinata nella letteratura risorgimentale o protosocialista, ma viene considerata a pieno diritto uno dei momenti non secondari di riferimento nella storia della scienza politica europea, superando quell’oblio nel quale lo aveva fatto cadere la cultura italiana di fine Ottocento come avversario del mito unitario nazionale.
Bibliografia: Machiavel juge des révolutions de notre temps, Paris 1849 (trad. it. in Scritti politici, a cura di S. Rota Ghibaudi, Torino 1973); Les philosophes salariés, Paris 1849 (trad. it. Lecce 1988); Filosofia della rivoluzione, Londra [ma Capolago] 1851; La federazione repubblicana, Londra [ma Capolago] 1851; Histoire de la raison d’État, Paris 1860; Corso sugli scrittori politici italiani, Milano 1862; Teoria dei periodi politici, Milano 1874; Le più belle pagine di Giuseppe Ferrari scelte da P. Schinetti, Milano 1927, in partic. pp. 77-101 e 139-47; G. Romagnosi, C. Cattaneo, G. Ferrari, Opere, a cura di E. Sestan, Milano-Napoli 1957, pp. 1097-1153; Scritti politici, a cura di S. Rota Ghibaudi, Torino 1973; Scritti di filosofia e politica, a cura di M. Martirano, Soveria Mannelli 2006, in partic. pp. 109-224.
Per gli studi critici si vedano: C. Curcio, Machiavelli nel Risorgimento, Milano 1953, pp. 32-33; A. Levi, Scritti storici e politici, Padova 1957, pp. 585-652; F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Torino 1964, pp. 65, 87, 90; S. Rota Ghibaudi, Giuseppe Ferrari. L’evoluzione del suo pensiero (1838-1860), Firenze 1969; C.M. Lovett, Giuseppe Ferrari and the Italian revolution, Chapel Hill (North Carolina) 1979; Giuseppe Ferrari e il nuovo Stato italiano, Atti del Convegno internazionale, Luino 5-6 ottobre 1990, a cura di S. Rota Ghibaudi, R. Ghiringhelli, Milano 1992; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995, pp. 401-06; F. Della Peruta, Ferrari Giuseppe, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 46° vol., Roma 1996, ad vocem; G.M. Barbuto, Machiavelli e la cultura politica del meridione d’Italia, Atti del Convegno, 27-28 novembre 1997, a cura di G. Borrelli, Napoli 2001, pp. 247-60; Machiavelli nella storiografia e nel pensiero politico del XX secolo, Atti del Convegno, 16-17 maggio 2003, a cura di M. Bassani, C. Vivanti, Milano 2006, pp. 22, 71, 74; Machiavelli nel XIX e XX secolo. Machiavel au XIXe e XXe siècles, Atti delle giornate di studio, Lione 3-4 giugno 2003, Parigi 5-7 giugno 2004, a cura di P. Carta, X. Tabet, Padova 2007, pp. 76-77, 118-23; R. Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari, in Il contributo italiano alla storia del pensiero - Ottava Appendice. Filosofia, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012, pp. 457-64.