FRACCAROLI, Giuseppe
Nacque a Verona da Gabriele e da Antonia Bettini il 5 maggio 1849, in una antica e culta famiglia (era suo congiunto l'egregio scultore Innocenzo). Dopo aver frequentato le scuole medie austriache, s'iscrisse a Padova alla facoltà di giurisprudenza, laureandosi "in ambe le leggi" sul finire del 1870. Iniziata la carriera di notaio, ne fu presto distolto, oltre che dalla propria educazione poetico-letteraria, da alcuni professori della facoltà di lettere, il grecista E. Ferrai e il poeta G. Zanella. Al Ferrai il F. dedicherà le sue Odi (Bologna 1887) e allo Zanella l'una e l'altra edizione delle Odi di Pindaro (Verona 1894; Milano 1914).
L'esordio del F. fu poetico-letterario con un volume di Versi (Verona 1874), dedicato ad Aleardo Aleardi.
Aleardiana poteva sembrare la prima composizione del volumetto, Per la resa di Sedan, la quale, di fatto conforme al sentire dell'intelligentsia italiana durante la crisi europea del 1870, ma altrimenti dal sentire dello Zanella e, probabilmente, dell'Aleardi, ne usava i mezzi stilistici e gli artifici letterari per esaltare nella vittoria germanica il frutto d'una presunta serietà e superiorità morale sulla frivola immoralità della Francia bonapartista.
In realtà, di concerto con gli amici V. Betteloni, G.L. Patuzzi, B. Barbarani e il pittore A. Dall'Oca Bianca, il F. partecipava in nome del "realismo" all'eversione dell'"aleardismo". Del realismo poteva divenir maestro severo G. Carducci. Verona si avviava infatti a divenire una "colonia" carducciana, per merito di Lidia, la signora Carolina Cristofori Piva, amicissima del Betteloni, e più tardi del provveditore agli studi, il marchese Carlo Gargiolli, alla cui moglie, Dafne Nazari, il F. indirizzò una delle sue Odi. Il Carducci d'altronde, oltre che maestro dell'attività e dell'austerità letteraria, era all'epoca anche il poeta delle Barbare, donde derivavano il problema della metrica e la conseguente polemica, alla quale il F. non fu né insensibile né impartecipe.
La questione non solo era mal posta, ma anche inesistente: sia perché il Carducci, ben lungi dal perdersi in schemi e studi di tecnica della lirica greca, i suoi metri se li era costruiti confessatamente a orecchio, seguendo un'interna e personale armonia suggeritagli dalla sua ars dictandi oraziana e italiana; sia, e soprattutto, perché la metrica, barbara e non, non era né poteva mai essere concepita come un ricettario per scriver poesia senza ispirazione e senz'arte.
Consenziente il Carducci, il F. ne derivò due volumi ricchi di notazioni intelligenti ma viziati dal pregiudizio del ricettario: Saggio sopra la genesi della metrica classica (Firenze 1881) e D'una teoria razionale di metrica italiana (Torino 1887), che, come i coevi tentativi pindarici, piacquero al Carducci (si veda, per esempio, Lettere, XV, pp. 283 s., da Bologna, 23 dic. 1885).
Quasi contemporanea è la prima prolusione accademica del F., professore straordinario di lettere greche nell'università di Palermo: Del realismo nella poesia greca (Verona 1887), mentre la presentazione prima (1885) e poi l'energico intervento del Carducci presso gli Zanichelli (1886: Lettere, XVI, p. 43) assicuravano la stampa delle Odi (Bologna 1887).
Prive d'ogni valore poetico, nella storia culturale le Odi risaltano per la patina stilistica mediocremente carducciana, per lo scarso impegno in fatto di metrica barbara, per il superstite aleardismo che si esprime nella contrapposizione del vecchio poeta veronese ai "veristi", per le copiose citazioni dai classici (diligentemente raccolte in un'appendice di Note), infine, per un'ode A Ruggero Bonghi, quando annunciò la sua traduzione di Platone, animosa rivendicazione dei propositi spiritualistico-antiveristici del volgarizzamento bonghiano.
Se le Odi chiudono un periodo, la prolusione palermitana rivela quella che da allora alla morte fu una delle costanti del F., e che egli, un po' impropriamente, chiamò "realismo", con una formula - o un preconcetto - destinati a immeritata fortuna. Realismo, infatti, è per il F. l'antiretorica, l'antitesi dell'artifizio stilistico, della pompa agghindata, dello stile aulico proprio di tanta parte della letteratura latina e, per imitazione o per tradizione, dell'italiana. Se per realismo si intende la poesia spontanea, popolare, immediata, realismo è (a torto) sinonimo di grecità e di poesia greca, la quale non conosce né modelli né orpelli (donde la sostanziale indifferenza o avversione del F. per la letteratura ellenistica, massime da quando il suo allievo Placido Cesareo individuò in Callimaco la controfigura di G. D'Annunzio). Può stupire infine che insieme con il "realismo" il F. favorisse, volgarizzasse e divulgasse Pindaro, del quale frattanto studiava lingua, cronologia compositiva e stile (peraltro anticipando con le sue analisi i risultati incontrovertibili della scoperta papirologica del cosiddetto "catalogo di Ossirinco").
Al "realismo" il F. amò contrapporre la "retorica ", alla cui esecrazione dedicò il discorso L'arte e le teoriche (Verona 1889) e la prolusione messinese Della retorica nelle sue origini e nei suoi effetti (Messina 189o).
Quant'era impreciso e contraddittorio il concetto di "realismo", altrettanto impreciso e contraddittorio era il concetto di "retorica". Se nell'età sofistica della Grecia la retorica oltre che elemento essenziale dell'educazione stilistico-letteraria, è sinonimo di "cultura", strumento efficace di azione politico-pratica, avviamento e conferma del regime democratico-rappresentativo, nella tradizione culturale-scolastica dell'Europa essa permane come una positività imprescindibile e, in ambito etico, un adiaphoron, un bene o un male a seconda di chi ne usa. L'aver sostanzialmente ristretto il divenire della storia fra i due poli del realismo e della retorica è prova dello scarso spirito dialettico del F., di un suo difetto di storicità, inevitabile d'altronde per la sua formazione meramente, o antiquatamente, "letteraria" da un lato, e astrattamente "positivistica" dall'altro (onde gli autori cui più s'ispira, pur combattendoli, sono H. Spencer, A. Bain, T.-A. Ribot e altrettali, solo tardivamente corretti con letture di G. Gentile e di B. Croce).
Con questi presupposti, o pregiudizi, ma con una forte dose d'umanità e generosi propositi di apertura o divulgazione oltre le barriere del magistero accademico, il F. combatté un'aspra battaglia per gli studi classici e per la scuola che, in ciò precorrendo i postulati della pedagogia gentiliana, volle sottratta alla "retorica" dei componimenti di descrizione o di fantasia e ricondotta all'insegnamento dei classici e della storia o all'interpretazione etico-estetica della poesia, soprattutto italiana (il F. fu dantista di vaglia, sebbene incline più all'esegesi delle quaestiones che della poesia). E, se può aver avuto torto, nelle circostanze del tempo suo, a oppugnare la nascita del cosiddetto "liceo moderno" e lo studio delle lingue straniere, volle maggiore l'impegno e più adeguato il salario degli insegnanti secondari, pur deprecandone l'irreggimentazione sindacale, da tenace avversario della politicizzazione del ministero della Pubblica Istruzione (così nel volume Il problema della scuola, Torino 1905, con una sostanziale coerenza, nonostante il "nazionalismo di guerra", dagli scritti del tardo Ottocento all'Educazione nazionale, Bologna 1918).
A questa visione unitaria dei classici e della scuola il F. sempre subordinò l'insegnamento, massime quando passò, nel 1895, da Messina a Torino. Diede alta prova di sé nelle Odi di Pindaro (Verona 1894), primo tentativo europeo d'interpretazione del meno compreso dei poeti greci, che il F. offrì anche in una versione poetica durissima e quasi illeggibile. Il volgarizzamento voleva servire a un'opera di propaganda ed espansione culturale, quanto più si avvertivano, anche in Italia, il desiderio, il bisogno e il gusto d'un ritorno in chiave moderna ai classici greci, in ispecie a Pindaro e ai tragici. Donde, a prescindere dalle meschinità del pettegolezzo e dai diverbi concorsuali, l'ostinata polemica con G. Vitelli, assertore irremovibile dello studio unicamente "filologico" e linguistico, con esclusione sistematica dell'intelligenza dell'antica poesia, cui si accompagnava (e la generava) l'inintelligenza della storia.
La polemica, iniziata con la stroncatura del Bacchilide di N. Festa (Riv. di filologia, XXVI [1898]) e proseguita a quasi ogni concorso universitario, massime quando il F. portò, contro Vitelli, E. Romagnoli (19o6) e contro Vitelli bocciò G. Pasquali (1913), s'invelenì durante la prima guerra mondiale colorandosi fittiziamente di germanesimo e di antigermanesimo, e durò fin oltre la morte del F., quando nella diversa temperie degli anni Dieci e Venti la sua antifilologia riscosse vasti consensi.
In realtà "antifilologo" il F. non fu mai; né accettò le aberrazioni di E. Thovez, demolitore della letteratura italiana in nome del "realismo" e del popolare, né le "sparate" belliche del pur amico Romagnoli, né le improntitudini dell'estetismo. Scriveva in una recensione (pubblicata postuma dalla Nuova Riv. storica, III [1919], pp. 469 s.): "La critica filologica ha i suoi difetti, ma la critica retorica è infinitamente peggiore. Ora il pericolo è questo: che, per combattere la critica filologica, si caschi appunto nella retorica…".
Il F. professò queste idee con una certa fortuna, massime dopo il trasferimento a Torino, dove ebbe una scuola devota e fedele e da dove data il meglio dell'opera sua, tra cui non è, però, il più celebre e meno leggibile dei suoi volumi, L'irrazionale nella letteratura (Torino 1903) che, pubblicato all'indomani dell'Estetica crociana, ne parve a molti il prodotto e l'epigono.
L'irrazionale servì, comunque, a ricondurre una certa misura di ragionevolezza nella filologia classica, soprattutto nella critica omerica, che ancora non conosceva né la tecnica dell'oralità formulare, né la scoperta della lineare B. Tra i moltissimi esempi (greci, danteschi e romanzi) addotti dal F., parecchi sono azzeccati e aiutano a intendere l'arte e le strutture, l'intima logica di un'opera d'arte.
Per invecchiata che fosse quest'opera, non lo era il suo magistero nell'università e nella città (lasciate per un'oscura tragedia domestica nel 19o6, quando rinunziò alla cattedra e si trasferì, libero scrittore, a Milano, donde tornò all'insegnamento nel 1915, spostandosi a Pavia). La sua autorità emerge anzitutto nella nuova amicizia (e nella polemica omerica) con G. De Sanctis, che gli affìdò la revisione stilistica dei primi due volumi della Storia dei Romani (Torino 19o6-1907: si vedano le lettere nell'Introduzione di S. Accame a Storia dei Romani, I, 3, Firenze 1979, pp. XIV ss.). E al F. si deve l'origine, la direzione e lo sviluppo della collana "Il pensiero greco", la più significativa testimonianza dell'attività classicistica in Italia fino alla fine del primo conflitto mondiale.
Collana essenzialmente di traduzioni, ma traduzioni o di testi difficilissimi (e debitamente commentati), come il Timeo (e altri dialoghi platonici) del F., o traduzioni d'arte, come l'Aristofane del Romagnoli, o d'alta cultura storico-filosofica, quali l'Empedocle di E. Bignone (che dal F. derivò l'impulso e l'avvio agli studi di storia della filosofia greca, di gran lunga i suoi migliori), e il Giuliano di A. Rostagni. Testimonianza e risultato, dunque, dell'insegnamento del F., che a Torino aveva lasciato eredità di amicizie, affetto di allievi e profondo rammarico per la sua partenza.
Da Milano il F. mandò al Bocca, per la sua collana, i due volumi dei Lirici greci (Elegia e giambo, Torino 1910; Poesia melica, ibid. 1913): mediocri le traduzioni, informati e generalmente eleganti i profili malgrado la scarsa storicità, aduggiata l'opera da preconcetti di genere letterario e dal pregiudizio d'una presunta identificazione di "generi" lirici e stirpi greche (con relativi dialetti). Eppure l'opera, cui giustamente il F. rivendicava il merito d'essere "un capitolo di quella storia della letteratura greca che ancor non abbiamo", incontrò il più vasto, aperto e critico consenso di giovani non devoti al dannunziano decadentismo o ribelli al codice della civiltà letteraria (E. Thovez, E. Serra, L. Siciliani e altri). Quasi contemporaneamente il F. dettava una parafrasi delle Ecclesiazuse di Aristofane in dialetto veronese (Le donne a Parlamento, Verona 1909), che il Valgimigli giustamente definì "un capolavoro". Invecchiando il F. seppe scoprire, apprezzare, consigliare i giovani, anche molto diversi da lui, anche innamorati di ciò ch'egli abborriva, purché di buon ingegno e di buoni studi. Favorì pertanto, non senza eventuali critiche severe, gli inizi di A. Ferrabino, del Rostagni e del Valgimigli, pur constestando al Ferrabino l'impianto metodico di Kalypso (si veda Riv. di filol., XLIV [1916], pp. 556-559) e pur rimproverando al Rostagni di non avere scelto a maestro dei suoi studi callimachei Placido Cesareo (ibid., pp. 562 s.). E, oltre o nonostante la solidarietà "bellica", la sua adesione alla Nuova Rivista storica e alle battaglie di C. Barbagallo tradisce un fermo proposito di ritrovarsi coi giovani e partecipare con essi a un'opera comune di educazione nazionale, d'un nuovo avviamento civile italiano (donde, nel suo ultimo libro, le copiose citazioni dal Gentile e dal Croce, il suo significativo consenso a Teoria e storia della storiografia, libro che agirà potentemente sulla successiva attività del De Sanctis e sulle reclute della sua scuola).
Sereni furono gli anni del magistero pavese (1915-1918), nonostante la paura che incuteva il severissimo professore.
Travolto da un carro a Milano, il F. vi morì il 23 sett. 1918. Lasciò i suoi averi alla città di Verona, nella cui Biblioteca comunale si conservano le sue carte e il suo archivio.
Fonti e Bibl.: Necr. di C. Pascal, in Riv. delle nazioni latine, III (1918), pp. 336 s., e di C.O. Zuretti, in Riv. di filologia, XLVII (1919), pp. 5 ss.; C. Barbagallo, G. F. e l'opera sua, Bologna 1919 (in appendice, pp. 111 ss., esauriente bibliogr. delle opere curata da V. Craici; su questo scritto si veda l'importante rec. di E. Bignone, in Riv. di filologia, XLVII [1919], pp. 488 s.). Inoltre G.A. Piovano, Gli studi di greco, Roma 1924, pp. 64 s.; G. Pasquali, in Leonardo, I (1925), p. 262 (poi in Scritti filologici, Firenze 1986, II, pp. 737 s.); S. Timpanaro, Il primo cinquantennio della "Rivista di filologia", in Riv. di filologia, C (1972), pp. 425 ss. Sui Lirici greci vedi L. Siciliani, Studi e saggi, Milano 1913, pp. 176 ss., 251 ss.; R. Serra, Scritti, II, Firenze 1938, pp. 484 ss.; E. Thovez, Il pastore, il gregge e la zampogna, a cura di A. Cajumi, Torino 1948, pp. 203 ss. Su L'irrazionale, oltre la memorabile rec. di B. Croce, in Conversazioni critiche, I, pp. 29 ss., G. De Sanctis, Ricordi della mia vita, Firenze 1970, pp. 99 s.; Id., Scritti minori, III, Roma 1972, pp. 126 ss. Sull'Educazione nazionale, vedi G.A. Piovano, in Athenaeum, VII (1919), pp. 1 ss. Due ritratti in A. Rostagni, Cinquant'anni di vita culturale italiana, I, Napoli 1950, pp. 402 ss., e in R. Simoni, Le fantasie del nobilomo Vidal, Firenze 1953, pp. 236 ss. Per le polemiche "fiorentine", vedi G. Vitelli, Il signor G. F. e i recenti concorsi di letteratura greca, Firenze-Roma 1899; Per l'italianità della cultura nostra, a cura di C. Barbagallo, Milano 1918, passim; E. Pistelli, in Atene e Roma, XXI (1918), pp. 2 ss., mentre è solo uno sguaiato libello l'opuscolo di G. Munno, Lirici greci e traduttori italici, Roma 1914. Infine, sull'ambiente veronese, C. Calcaterra, in Giorn. stor. della lett. italiana, CXI (1938), pp. 315 ss.; CXII (1938), pp. 307 ss.