GANDOLFO (Gandolfi), Giuseppe
Nacque a Catania il 28 ag. 1792. Pur avendo manifestato sin da bambino una spiccata predisposizione per le arti figurative, fu avviato dal padre agli studi letterari e successivamente, a causa dei modesti risultati raggiunti, all'attività di orafo e cesellatore, che egli svolse con perizia per diversi anni, lavorando per un certo periodo anche a Messina (la sua prima opera di cui si ha notizia è un piccolo busto in bronzo del poeta catanese Domenico Tempio, oggi irreperibile) e frequentando anche episodicamente la bottega di Matteo Desiderato.
Abbandonato questo pur proficuo mestiere per seguire, nonostante le forti resistenze paterne, la sua inclinazione naturale per la pittura, nel gennaio 1819 il G. si recò a Roma, dove fu allievo di Giuseppe Errante; circa un anno dopo si trasferì a Firenze alla scuola di Pietro Benvenuti, uno dei protagonisti assoluti della pittura neoclassica. Sappiamo dai biografi (Longo; Brancaleone) che negli anni del suo apprendistato, seguendo i tradizionali insegnamenti d'impronta accademica, si dedicò a studiare l'antico e i capolavori dei maestri italiani del Cinquecento. Sono riferite a questo primo periodo della sua attività numerose copie, oggi disperse, soprattutto da Raffaello, da Tiziano e dal Correggio (ammiratissime e ampiamente descritte dalle fonti sono le sue copie della Fornarina e del Leone X di Raffaello) ma anche dal Sassoferrato e da Carlo Dolci.
Grazie alle sue doti artistiche e alla protezione accordatagli da Alessandro Oppizzoni, riuscì a conquistarsi una certa notorietà nell'ambiente fiorentino eseguendo anche diversi dipinti di soggetto sacro e mitologico (Apollo assiso sotto l'albero che suona la cetra, Telemaco presentato da Mentore a Idomeneo, perduti) per il fratello di questo, Carlo Oppizzoni arcivescovo di Bologna, e per la corte di Toscana.
Nel 1822, per gravi ragioni di salute, rientrò definitivamente a Catania, affermandosi, soprattutto nel genere del ritratto, come la personalità più rappresentativa della prima metà dell'Ottocento in ambito locale.
I ritratti del G., eseguiti in larga parte tra il 1834 e il 1854, si caratterizzano per la grande finezza esecutiva, per la cura minuziosa nella resa degli abiti e degli accessori e per le tonalità brillanti e traslucide dei colori, sebbene l'espressione del volto e la posa rigida dei personaggi effigiati rimangano convenzionalmente ferme ai moduli del neoclassicismo di stampo accademico. La ricca produzione di suoi ritratti di familiari, di personaggi illustri (Vincenzo Bellini, Domenico Tempio), e di esponenti dell'aristocrazia locale (Fernanda Grifeo di Partanna duchessa di Carcaci, Eleonora Guttadauro Emmanuel principessa di Carcaci, Lucrezia Tedeschi principessa di Biscari, il duca Mario Paternò di Carcaci, il barone Enrico Grimaldi di Serravalle, Roberto Paternò principe di Biscari, ecc.) si conserva tuttora in larghissima parte nelle collezioni private catanesi (per l'elenco completo, che comprende più di centocinquanta ritratti, si rimanda a Brancaleone, pp. 43-48). Alcuni di essi - Ritratto virile (1820), Ritratto di Carmelo Mirone (1839), Ritratto di Raffaele Zappalà Finocchiaro (1844), Ritratto di gentildonna, Ritratto della nipote Clementina, l'inconsueto Autoritratto in veste di contadino - si trovano al Museo civico di Castello Ursino di Catania, dove è pure un curioso quadro d'interni, Il refettorio, nel quale sono effigiati, travestiti da monaci, gli amici più cari del pittore.
Fra i dipinti di soggetto sacro del G., improntati a un freddo accademismo di vago sapore purista e di qualità decisamente più modesta, vanno ricordati il S. Giuseppe (Grammichele, chiesa madre), il Martirio di s. Sebastiano e il Miracolo di s. Isidoro (Giarre, duomo). Risulta inoltre da documenti d'archivio che nel gennaio 1842 il pittore si era impegnato "di fare il quadrone rappresentante l'Immacolata Concezione di unita a S. Lucia, S. Antonio Abbate, S. Agata e S. Biagio" per il duomo di Giarre, pala d'altare che però, per motivi rimasti ignoti, non venne mai realizzata e nel 1849 al suo posto fu collocato il Martirio di s. Lucia di Giuseppe e Francesco Vaccaro di Caltagirone.
Nella Pinacoteca dell'Accademia Zelantea di Acireale sono del G. un paesaggio notturno con i celebri faraglioni aciesi, dal titolo Chiaro di luna, da lui più volte replicato, e il Ritratto di Emanuele Rossi.
Il G. morì a Catania il 13 sett. 1855.
Fra i tanti suoi allievi vanno ricordati Giuseppe Sciuti, l'incisore Francesco Di Bartolo e il nipote Antonino Gandolfo. Sono scarsissime, allo stato attuale delle ricerche, le notizie sulle vicende biografiche e sull'attività artistica di quest'ultimo pittore, nato a Catania il 28 ott. 1841. Appresi dallo zio i primi elementi del disegno e della pittura, intorno al 1860 si recò a Firenze dove frequentò per un breve periodo lo studio di Stefano Ussi ed ebbe contatti con l'ambiente dei macchiaioli. Rientrato in patria, lavorò sempre a Catania, dove insegnò per alcuni decenni disegno e ornato alla scuola d'arte e mestieri.
Nella sua vasta e finora poco indagata produzione pittorica, che nel complesso si presenta piuttosto uniforme e finisce spesso per scadere nel bozzettismo e nella scena di genere, la predilezione per alcuni soggetti, tratti dal mondo degli umili e dei diseredati - Il pegno, L'addio, Musica forzata, La reietta (Catania, Museo civico di Castello Ursino), L'ultima moneta, L'usuraia, L'espulsa, La cieca, Monte di pietà, I proletari ecc. - e lo stile descrittivo, dai toni insistentemente patetici, appaiono allineati con il filone verista di denuncia sociale, per molti aspetti assai vicino agli esiti di Teofilo Patini e in parallelo con le tematiche di G. Verga, L. Capuana e F. De Roberto. I suoi ritratti invece, di acuta resa psicologica, realizzati con una pennellata densa e nervosa, rivelano in alcuni casi sorprendenti affinità con lo stile di Antonio Mancini; si vedano, ad esempio, le diverse redazioni del Ritratto della moglie presso gli eredi del pittore, una Testa di vecchio (1885) e l'intenso Ritratto di un monaco (1889), quest'ultimo proveniente dalla collezione dei benedettini, entrambi nel Museo civico di Castello Ursino di Catania (una seconda versione dello stesso soggetto, con minime varianti, è conservata nel Museo della cattedrale di Medina a Malta). Va segnalata inoltre una sua Testa di donna (Studio), databile intorno al 1888, donata nel 1971 dagli eredi alla Galleria nazionale d'arte moderna di Roma.
Nel 1882 prese parte alla Mostra artistica industriale didattica di Messina, nel 1891-92 all'Esposizione nazionale di Palermo e nel 1907 all'Esposizione di Catania.
Antonino morì a Catania il 20 marzo 1910.
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