GARIBALDI, Giuseppe
Nacque in Nizza Marittima il 4 luglio 1807, secondogenito di Domenico, un piccolo armatore e capitano di navi da cabotaggio, e di Rosa Raimondi, che forse più del padre comprese l'animo del figliuolo, come il suo dotato d'infinita bontà. Vano riuscirebbe il tentativo di precisare quale corso di studî egli facesse: sin dall'infanzia, più che dall'amore per i libri, conquistato dalla passione del mare e coraggioso sino alla temerità, fu dominato dall'ardente brama di tentare avventure eroiche e meravigliose, e finì per farsi accontentare. Da mozzo, compi il suo primo viaggio su di un brigantino diretto a Odessa; successivamente, fu con il padre a bordo della sua tartana; poi tornò in Oriente e a Costantinopoli, dove a lungo lo trattenne la chiusura dei porti per la guerra russo-turca; infine, raggiunto il grado di capitano, poté avere una nave ai suoi ordini. In tal modo, l'amore per l'indipendenza, proprio dei marinai, fu rafforzato dalla visione della libertà dei mari da lui solcati; le lunghe e perigliose navigazioni gli accesero nell'animo il desiderio di sfidare sempre nuovi pericoli e accrebbero la sua fiducia nella propria fortuna; la forzata permanenza in Costantinopoli, dove si trovò solo e senza mezzi, lo rese esperto nella dura lotta per l'esistenza. Contemporaneamente, fortunate circostanze fecero nascere e alimentarono in lui accanto a quella per le avventure marinaresche la passione politica, educandogli l'animo e la mente a ideali che saranno poi quelli di tutta la sua vita. Le utopie di sansimoniani, da lui incontrati in un porto del Levante e accolti a bordo della sua nave, lo scossero profondamente, perché appagavano la sua accesa sensibilità e la sua fantasia romanzesca, che nelle pause della lotta gli facevano sognare una pace infinita come il suo mare, da godere come agricoltore nella sterminata distesa dei liberi campi. E, poco dopo, ecco arridergli un nuovo meraviglioso ideale, nel quale forma più concreta parve dovesse prendere il precedente. Già lo aveva scosso nell'intimo la visione di Roma (1825), della quale aveva rivissuto fantasticamente tutta la passata grandezza pur nella misera situazione del momento; ora, in un giorno del 1833, in una locanda di Taganrog, nel Mar Nero, dalla bocca di un genovese, G. B. Cuneo di Oneglia, ebbe una viva descrizione delle tristi condizioni dell'Italia e precisa notizia del superbo compito assuntosi dal Mazzini; e "iniziato così ai sublimi misteri della patria", come affermò egli stesso, decise fermamente di venire in suo aiuto. Ma, sebbene divenisse subito predominante, la passione italiana, educata dalla propaganda mazziniana e mai regolata da organiche teorie politiche, non gl'impedì di continuare a nutrire l'amore per ogni causa giusta, di concepire fantastici piani di riforme religiose e sociali, di sperare sino all'ultimo d'esser chiamato a collaborare a una del tutto innovatrice trasformazione della vita politica e sociale dell'umanità, sulla base di una nuova religione, della fratellanza dei popoli, della pace universale.
Ritornato in patria, alla fine di luglio dello stesso anno si recò a Marsiglia per conoscere il Mazzini, ed entrò a far parte della Giovine Italia con il nome di Borel. Poi, desideroso di prender parte all'ideata rivolta della flotta militare del regno di Sardegna - rivolta che avrebbe dovuto facilitare la spedizione di Savoia - il 26 novembre per far proseliti nelle ciurme si arruolò nella marina da guerra come semplice marinaio con il nome di Cleombroto, e ottenne di far parte dell'equipaggio della fregata Des Geneys. Ma il moto, che sarebbe dovuto scoppiare il 4 febbraio 1834, non ebbe esito alcuno; e G. fu costretto a fuggire, travestito da contadino, la sera del giorno dopo. Riparò a Marsiglia, dove apprese che il governo sardo, su denunzia di un suo conterraneo, lo aveva condannato a morte (3 giugno). Assunto il nome di Giuseppe Pane, si imbarcò per una crociera nel Mar Nero; successivamente si arruolò nella flottiglia del bey di Tunisi, e, ritornato alla metà del 1835 a Marsiglia, fece da infermiere durante un'epidemia colerica; alla fine ottenne il comando in seconda di un brick diretto a Rio de Janeiro.
Giunse a Rio de Janeiro tra il dicembre 1835 e il gennaio seguente, annunziando il suo arrivo con un articolo incendiario contro Carlo Alberto nel giornale Paquet du Rio; ed ebbe la fortuna di trovarvi un gruppo d'Italiani, esuli ancor essi e per di più mazziniani come il Cuneo, e, primo fra tutti, il genovese Luigi Rossetti, che divenne suo fraterno amico e che doveva morire combattendo nel 1841. Questi, creata una piccola società di navigazione per il cabotaggio tra Rio de Janeiro e Cabo Frio, affidò a G. il comando di uno dei legni: la nave si chiamava Mazzini, sulla flottiglia sventolava il tricolore, in città erano i locali della Giovine Italia, sui quali nei giorni di festa s'inalberava una bandiera con la scritta: "Repubblica Italiana"; e dai marinai si mirava anche a disturbare il traffico dei bastimenti sardi. Intanto, in Porto Alegre scoppiava la rivolta dei farrapos ("cenciosi") contro il governo imperiale, e il Rio Grande del Sud si organizzava a repubblica: G. e il Rossetti, invitati da Livio Zambeccari, che aveva avuto grande parte nel movimento, accettarono di fare una regolare guerra di corsa contro il Brasile. Seguirono anni di romanzesche avventure e di eroici ardimenti. In uno scontro G. è ferito da una palla che gli attraversa il collo, e a Gualeguay, nei territorî argentini governati da M. Rosas, dove ripara per curarsi, è sottoposto alla tortura da un Leonardo Mella, governatore della provincia; assume il comando della piccola flotta da guerra dell'eroica repubblica, e nei continui urti con il nemico, che decima le sue schiere e distrugge le sue navi, miracolosamente scampa la vita; infine, per la prima volta, da marinaio si trasforma in cavaliere, combattendo nelle sterminate pianure americane con accanto la donna del suo cuore. Ma poi, al principio del 1842, è costretto ad abbandonare il teatro della lotta, peraltro ormai prossima a finire: come premio non portava con sé che Anita, la sua vera compagna in vita e in morte, "il suo tesoro - come poi la chiamò - non men fervida di lui per la sacrosanta causa dei popoli e per una vita avventurosa"; mentre nell'animo celava il rimpianto per i compagni caduti al suo fianco e negli occhi conservava l'immagine di Bento Gonçalves, lo sfortunato presidente della Repubblica, ricco delle qualità che dovevano poi essere anche le sue e che ricordava nelle proprie Memorie siccome suo glorioso maestro.
Riparò a Montevideo; ma poté riposare soltanto per breve tempo perché ben presto fu chiamato a prendere parte all'aspra lotta che lacerava l'Uruguay, ove si contendevano la presidenza della repubblica Fructuoso Rivera e Manuel Oribe, quest'ultimo sostenuto dal dittatore argentino, il Rosas. Dal partito del Rivera accettò il comando di una corvetta e di due altre piccole navi, con l'incarico di raggiungere Corrientes e di sostenervi l'insurrezione che sembrava vi fosse scoppiata: impresa pressoché folle perché si trattava di navigare per circa seicento miglia nell'Estuario e lungo il Paraná, superando pericoli e ostacoli di ogni sorta, attraverso un paese infido, ma che egli affrontò con leggendario ardimento; finché, raggiunto dalla flotta argentina, molto più forte della sua, fu costretto, dopo un'epica lotta presso Nueva Cava (15 agosto 1842), a cercare scampo a terra. Seguivano la disfatta del Rivera e l'inizio dell'eroico assedio di Montevideo, che, minacciata nell'indipendenza dal sempre più attivo intervento del Rosas, insorse unanime in difesa della propria libertà. G., che per l'ospitalità ricevuta considerava ormai quella città come sua seconda patria, non solo accettò il comando di una nuova flottiglia, ma organizzò anche una legione italiana. Poi, allorché la minaccia argentina fu allontanata per l'intervento in favore di Montevideo della flotta anglo-francese me bloccò il Rosas nella sua capitale (agosto 1845), G. ebbe ordine di risalire il Plata e di penetrare nell'Uruguay con la flottiglia, con parte della legione e con altri piccoli contingenti, per riaccendervi la rivolta e riunire le disperse truppe repubblicane. E fu allora, l'8 febbraio 1846, che a San Antonio del Salto i soldati italiani insieme con il loro condottiero si ricoprirono di gloria sostenendo eroicamente l'urto della soverchiante cavalleria di Servando Gómez. Restò al Salto ancora alcuni mesi e poi fu richiamato a Montevideo (settembre 1846); ma il periodo epico della resistenza era ormai finito perché in città eran scoppiate le lotte civili; ed esse attutirono l'entusiasmo nell'animo di G., mentre dall'Italia gli giungeva la notizia che stavano maturando tempi propizî per la libertà.
Alessandro Walewski, che il Guizot aveva mandato in missione nell'Uruguay e nell'Argentina, di ritorno aveva detto che G. "era un genio capace di ogni impresa e tale da riuscire uguale a uno dei migliori marescialli dell'Impero". B. Mitre, che lo conobbe nel 1843, affermò poi che sin dal tempo del suo servizio presso la repubblica di Rio Grande egli aveva acquistato "fama romanzesca per il suo coraggio e la sua elevatezza morale", sì che lo avvolgeva "una specie di mistero morale". In Italia si era aperta una sottoscrizione nazionale per offrirgli una spada ed era sorta la speranza che un giorno egli potesse dare il suo braccio per la difesa della causa della libertà italiana. "G. è un uomo di cui il paese dovrà un giorno giovarsi per l'azione", scriveva il Mazzini, che aveva seguito le sue vicende, il 22 ottobre 1843; e il 9 maggio 1845: "La nostra legione italiana e G. fanno prodigi; gl'Italiani sono amati e stimati dalla popolazione come salvatori della città. Il modo con cui quegli uomini, bottegai il giomo prima, si battono, è tale da far arrossire i nostri Italiani dell'interno, che hanno opinioni patriottiche e che nondimeno stanno quieti"; e ancora il 20 ottobre dell'anno seguente: "Se potrò stendere una breve storia della legione, circolerà ugualmente e farà bene. Giova, oltre la lode da darsi al merito, che la legione e il nome di Garibaldi diventino un'influenza morale in Italia; e farò che sia".
Ormai egli non era più lo sconosciuto marinaio del 1836: la leggenda aveva cominciato a impadronirsi delle sue imprese, alcune delle quali, come lo scontro di San Antonio, erano di rinomanza europea, e la fama delle sue gesta si era diffusa anche in Italia. zaq
D'altro canto, G. mai aveva dimenticato la patria lontana; si era mantenuto in rapporti epistolari con Mazzini; con passione nazionale e con la speranza di poterla condurre un giorno in Italia aveva organizzato la legione, e dai suoi meravigliosi successi aveva ricavato sempre maggiore fiducia nelle forze dei suoi seguaci e nell'avvenire della comune patria. Il Mitre afferma che egli, infiammato da sogni grandiosi, pensava di sbarcare sulle coste calabresi e di dare il segno della rivolta italiana, risoluto a morire ove non fosse riuscito a piantar la bandiera della redenzione sul Campidoglio. Il 12 ottobre 1847 offrì al nunzio apostolico Bedini a Rio de Janeiro il braccio degli esuli italiani per la redenzione della patria e, giunta la notizia della rivoluzione di Palermo, il 15 aprile 1848 G. partì da Montevideo con parte della legione, diretto verso l'Italia.
Sin dalla fine dell'anno precedente il Mazzini si era mostrato sicuro dei sentimenti repubblicani di G. "G. è veramente eccezionale uomo per noi - aveva scritto. - Il di lui nome in Italia comincia ad essere una potenza. Tutto è inteso tra G. e me da molto tempo". Ed il 20 febbraio 1848 G., che aveva intenzione di ottenere dal granduca di Toscana il comando delle sue truppe e di sbarcare con i proprî uomini tra Viareggio e Piombino, gli aveva mandato il Medici con l'incarico di mettersi d'accordo con lui. Ma la realtà fu ben diversa: al passaggio dello stretto di Gibilterra avuta la notizia che Milano era in rivolta, che gli Austriaci erano in fuga e che il re di Sardegna era deciso a intervenire in favore della causa italiana, deliberò di approdare a Nizza, ove giunse il 21 giugno; e appena sbarcato, dichiarò "di non essere repubblicano, ma Italiano, pronto a versare l'ultima goccia del suo sangue per il re e per l'Italia". Quattro giorni dopo fece una pubblica dichiarazione di fede monarchica. E tale dichiarazione ripeté il 2 luglio in Genova: "Io fui repubblicano; ma quando seppi che Carlo Alberto si era fatto campione d'Italia, ho giurato d'ubbidirgli e di seguire fedelmente la sua bandiera. In lui solo vidi riposta la speranza della nostra indipendenza. Carlo Alberto sia dunque il nostro capo, il nostro simbolo. Gli sforzi di tutti gl'Italiani si concentrino in lui. Fuori di lui non vi può essere salute". Mazzini ne fu amaramente sorpreso. A spiegare la sua conversione, in apparente contraddizione con il suo precedente atteggiamento, i mazziniani dissero "che l'America era stata sì per G. un'eccellente palestra per l'educazione militare, ma non una buona scuola d'istituzione politica": giudizio che poi dovevano ripetere anche alcuni pavidi seguaci della monarchia, sebbene da un altro punto di vista, timorosi delle conseguenze delle imprese da lui compiute senza il manifesto consenso e anche contro la volontà del governo. Ma la contraddizione era soltanto apparente, e fu fortuna per l'Italia che l'America le avesse restituito un G., per così dire, cattivo politico.
A odiare le contese di partito e tutti i maneggi e le sette G. era tratto dalle vicende delle repubbliche che egli aveva servito, nelle quali la nobiltà delle lotte da esse sostenute e l'opera dei loro disinteressati difensori erano state distrutte da intrighi e da contese personali. E appunto in nome dell'unità degli spiriti di fronte al comune nemico aveva spinto gl'Italiani ad accettare come loro unico condottiero Carlo Alberto, affermando: "Guai a noi se, invece di stringerci tutti fortemente intorno a questo capo, disperdiamo le nostre forze in conati diversi, inutili; e peggio ancora se cominciamo a spargere tra noi i semi di discordia". D'altro canto, se pure nella sua memoria si era attutito il ricordo dell'inutile congiura di Genova, che gli aveva fruttato la condanna a morte, a riprovare i sistemi mazziniani era tratto dalla persuasione dell'inutilità delle piccole sommosse mal preparate e mal dirette, nelle quali invece sembrava che il Mazzini riponesse tutta la sua fiducia, e dell'opportunità di trarre profitto della secolare politica italiana della casa di Savoia e del suo ben munito esercito nella guerra contro l'Austria. Ma la sua adesione alla monarchia non era una piena e definitiva dedizione. Le imprese d'America, consistenti più che altro in ardimentose azioni di sorpresa, nelle quali aveva modo di trionfare il valore del combattente, lo avevano persuaso anche del primato dell'ardimento bellico di fronte alle trattative politiche, e della necessità di sostituire al momentaneo e particolare interesse di politica interna ed estera quello supremo e ultimo della patria. E d'altro canto assoggettarsi a un indirizzo o ad un'autorità che non fosse quella della propria volontà, sarebbe stato impossibile per G., nel quale l'indipendenza del comando aveva educato il senso dell'iniziativa, e a cui i fortunati successi avevano dato sterminata fiducia nella forza del braccio suo e dei suoi seguaci. Perciò in seguito egli avrebbe agito anche contro le direttive di governo della monarchia, fermamente persuaso della bontà della sua opera; e, talvolta con non poca rudezza, avrebbe attaccato i suoi maggiori uomini, pur essendo pronto ad allearsi con essi nel momento opportuno, e con meraviglioso disinteresse, per rendere utile il frutto delle sue imprese. Ora, tutto ciò poteva sembrare conseguenza di un'imperfetta educazione politica, intesa nel senso tradizionale; ma forse nulla fu mai tanto utile per l'Italia. E non soltanto perché da alcune delle miracolose imprese garibaldine, come la spedizione dei Mille, essa ricavò immensi vantaggi, sibbene ancora perché l'opera di G., anche quando non rientrava nei quadri della politica costruttrice dei ministri sabaudi, la integrava continuamente, precedendola e preparandola, e teneva desta, in tutto il suo fervore, la passione italiana. La convinzione che la sorte avesse affidato a G. compiti ultra umani, era propria a tutti coloro che lo seguirono, e finì per conquistare buona parte dell'Europa; e il suo intervento nelle vicende italiane valse a fondere gli animi e a distruggere antagonismi personali e differenze di partito. Del che sin dal 1848 era stato buon profeta l'Anzani, che gli era stato accanto in America, il quale sul punto di morte aveva detto: "G. è un predestinato; gran parte dell'avvenire d'Italia è nelle sue mani".
Avrebbe voluto organizzare un forte corpo di volontarî per combattere accanto all'esercito regolare; ma le sue offerte furono accolte freddamente. Allora si recò nel Milanese, ove ebbe il comando dei volontarî raccolti tra Milano e Bergamo; ma seguirono i dolorosi rovesci dell'esercito sardo, l'ingresso degli Austriaci in Milano, l'armistizio; e G., costretto alla ritirata, si batté a Luino (15 agosto), entrò in Varese, che però dopo poco dovette abbandonare, resistette eroicamente a Morazzone (26 agosto), e poi, premuto dalle soverchianti forze austriache, dovette riparare in Svizzera. Tornato a Nizza e raccolte alcune centinaia di volontarî, il 24 ottobre si rimise in moto per recarsi in Sicilia, invitato da Paolo Fabrizi; ma poi si fermò in Toscana (25 ottobre-8 novembre); e infine, entrato nello Stato Pontificio e raggiunto a Ravenna dalla notizia degli avvenimenti romani, offrì a Roma il suo braccio. Dapprima tenuto in disparte a Macerata, che lo nominò deputato alla Costituente (e in tale qualità partecipò alle discussioni per la proclamazione della repubblica) e poi a Rieti, fu chiamato nella capitale soltanto quando i Francesi mossero contro di essa; ma anche allora non ebbe il comando supremo delle truppe, affidato a P. Roselli dal Mazzini, che sembrava avesse perduto l'illimitata fiducia che già aveva riposto in lui. Seguirono l'eroico scontro del 30 aprile 1849, la breve campagna contro l'esercito napoletano, la meravigliosa e sfortunata giornata del 3 giugno, il radioso periodo dell'assedio di Roma, una delle più belle pagine del Risorgimento italiano. Poi fu necessario partire (2 luglio). Circondato da ogni lato dai Francesi, dagli Spagnoli, dagli Austriaci, dai borbonici, sfuggì all'accerchiamento, mentre la schiera di coloro che lo seguivano si assottigliava; costretto a riparare a San Marino (31 luglio), non accettò le condizioni offertegli dagli Austriaci e per mare tentò di fuggire a Venezia, ancor libera. Ma, attaccato dalle navi austriache, dovette sbarcare sulla costa di Magnavacca (ora Porto Garibaldi); e nel tragico inseguimento la morte gli tolse Anita (4 agosto). Con il cuore sanguinante attraversò fuggiasco Romagna e Toscana, e il 5 settembre sbarcò a Porto Venere, in territorio piemontese. Ma il governo sardo, preoccupato per la presenza di tanto uomo, che, odioso alla Francia e all'Austria e pericoloso all'interno per l'enorme fascino che esercitava, poteva peggiorare la situazione già particolarmente grave nella quale si trovava lo stato dopo la disfatta di Novara, non poté dargli ospitalità. Forse con il proprio consenso, fu subito arrestato; certamente nulla fece contro il governo e non trasse profitto dell'ascendente di cui godeva il suo nome e della protesta formulata dalla Camera dei deputati sarda, la quale a maggioranza dichiarò "il suo arresto e la minacciata sua espulsione dal Piemonte lesioni dei diritti consacrati dallo Statuto e dei sentimenti di nazionalità e della gloria italiana"; e accettò di partire. Cominciava il suo secondo esilio (16 settembre).
Condotto a Tunisi, il bey non permise il suo sbarco; a Gibilterra gli furono concessi soltanto pochi giorni di sosta; e allora egli accettò l'ospitalità offertagli dal console piemontese di Tangeri, ove si trattenne dal novembre 1849 al 3 giugno 1850, e prese a scrivere le memorie della sua vita nell'America del Sud. Poi s'imbarcò per l'America del Nord. A New York visse come operaio in una piccola fabbrica di candele creata a Staten Island dal suo compatriota Antonio Meucci; dipoi riprese a navigare. Successivamente fu nell'America centrale, ove poco mancò che non fosse ucciso dalla malaria, nel Perù, in Cina, nell'Australasia; e ritornò a New York nell'autunno del 1853, per ripartirne per l'Europa ai primi di gennaio dell'anno seguente al comando di una nave diretta in Inghilterra e a Genova. Ma nel suo animo sempre desta era stata la passione italiana. "Che vi dirò dell'errante mia vita? - aveva scritto ad A. V. Vecchi nel 1853 - Io ho creduto con la distanza poter scemare l'amarezza dell'anima, ma fatalmente non è vero, ed ho trascinata un'esistenza assai poco felice, tempestosa e inasprita dalle memorie. Sì, anelo sempre all'emancipazione della nostra terra e non dubitate che questa vitaccia sarebbe onoratissima, se dedicata, anche logora com'è, ad una causa così santa". Nel febbraio 1854 toccò le coste inglesi; e pochi giorni dopo, a Londra, rivide il Mazzini. Questi tornò a illudersi di potersi servire di lui per le imprese che meditava, e specialmente per una spedizione in Sicilia, che credeva matura; ma, come narra A. I. Herzen, che fu presente al colloquio, a Mazzini, che gli esponeva il progetto di una repubblica italiana, G. fece notare che "non sarebbe stato bene offendere il governo piemontese, perché il principale obbiettivo era di rompere il giogo dell'Austria; e com'egli fortemente dubitasse che l'Italia fosse matura per la repubblica". Poi, ritornato a Genova e a Nizza, ove questa volta fu tollerato - e durante uno dei suoi viaggi nel Tirreno, sorpreso dal fortunale e costretto a riparare alla Maddalena, ebbe l'idea, subito tradotta in pratica, di acquistare una parte dell'isola di Caprera come sua dimora - fu conquistato dalla politica realistica del governo sardo. Informato che si faceva il suo nome nei tentativi repubblicani compiuti nella Lunigiana e nel Parmense, pubblicamente smentì ogni sua partecipazione (4 agosto 1854). Si limitò ad accettare di far parte di una spedizione che avrebbe dovuto liberare il Settembrini dalle carceri di Santo Stefano, ma che non fu condotta a termine (1856). Invece, contrariamente al Mazzini, approvò l'idea di mandar truppe in Crimea; e bene interpretando almeno la parte più appariscente della politica cavourriana, affermò: "L'Italia non dovrebbe perdere nessuna occasione per spiegare la sua bandiera sui campi di battaglia e per ricordare alle nazioni europee il fatto della sua esistenza politica. Poi, il 13 agosto 1856 ebbe un colloquio segreto con il Cavour, che seppe definitivamente conquistarlo; e pubblicamente dichiarò di voler mettere a base dell'unità italiana la monarchia e Vittorio Emanuele. Seguì la sua adesione alla Società nazionale, di ben chiaro indirizzo monarchico; e il suo gesto ebbe enorme importanza, perché doveva essere imitato da moltissimi ex-mazziniani. "Bisogna profittare di questo fatto - scriveva G. Pallavicini a D. Manin - che ci assicura le simpatie e, all'uopo, il concorso di tutta la gioventù italiana" G. non l'accettò di capitanare la spedizione poi diretta da C. Pisacane, cosi motivando alla White Mario il suo rifiuto: "In Piemonte vi è un'armata di quarantamila uomini e un re ambizioso; sono questi elementi per un'iniziativa ed un successo, in cui la maggior parte degl'Italiani ora crede. Mostri il Mazzini di poter fornire simili elementi e un po' più di pratica di quanto non ha saputo dimostrare finora, e noi lo benediremo e lo seguiremo con fervore. D'altra parte, se il Piemonte esiterà o si mostrerà non idoneo alla missione alla quale noi crediamo sia chiamato, allora lo ripudieremo. Insomma: che qualcuno incominci la guerra santa anche con temerarietà, e voi vedrete il vostro fratello pel primo sul campo di battaglia... Ma... io non dirò mai agl'Italiani: Sorgete! proprio per far ridere le canaglie" (3 febbraio 1856). La guerra non tardò a scoppiare. Il 20 dicembre 1858 di nuovo s'incontrarono G. e Cavour, che per un momento aveva pensato di affidargli la direzione di un moto da far scoppiare nel Carrarese, che avrebbe dovuto provocare la guerra con l'Austria. Si videro di nuovo il 2 marzo dell'anno seguente per mettersi d'accordo sul modo come organizzare i volontarî che affluivano da ogni parte; e fu allora che, presentato da Cavour, G. conobbe Vittorio Emanuele. Gli fu affidato il comando dei cacciatori delle Alpi, corpo con fine politico più che strategico, e quindi composto di non molti reparti, che assolse eroicamente il suo compito, vincendo K. Urban sotto Varese (26 maggio 1859) e a San Fermo (27 maggio), proteggendo i fianchi dell'esercito degli alleati ed entrando trionfalmente in Brescia (13 giugno). I quadri del futuro esercito garibaldino erano ormai formati.
Gli avvenimenti che seguirono alla pace di Villafranca raffreddarono i rapporti tra G. e il governo sardo. Alla fine di settembre G., lasciato l'esercito sardo e già divenuto comandante della divisione toscana, fu da M. Fanti nominato comandante in seconda delle truppe della lega militare formatasi fra la Toscana, le Romagne, Parma e Modena. Un mese dopo, diffusasi la voce di un'incursione dei pontifici, fu messo alla testa delle due divisioni romagnole con il compito di diffondere la rivoluzione anche nello stato confinante. Tale decisione spaventò i moderati e il governo piemontese, timorosi di una nuova rottura con l'Austria e di una guerra con la Francia; si tentò persuadere G. a recedere dal suo proposito; ma questi preferì ascoltare i rivoluzionarî, che gli dicevano imminente lo scoppio della rivolta nelle Marche e lo incitavano a non tollerare gl'intrighi di Napoleone, contrario all'impresa, e decise di varcare il confine nella notte del 12 novembre. Allora le truppe ebbero ordine di non muoversi; Vittorio Emanuele chiamò presso di sé G. (16 novembre) e ottenne che egli deponesse il comando. G. lo stesso giorno partì, e il 19 lanciò da Genova un manifesto agl'Italiani, nel quale violentemente attaccava la politica piemontese. Per la prima volta cozzavano tra loro le volontà del condottiero e del governo: l'uno subordinava l'azione a possibilità d'ordine interno, l'altro d'ordine internazionale; ma fin d'allora ebbe modo di rivelarsi tutto il valore della suadente parola del re, nella sua ardente e leale natura di uomo d'azione fatto apposta per intendersi con G. e perciò atto a persuaderlo della necessità di tener conto delle regole di politica che come sovrano egli non poteva trascurare, anche se a malincuore. G. restò monarchico. Nello stesso proclama del 19 egli scriveva: "Il giorno in cui Vittorio Emanuele chiami un'altra volta i suoi guerrieri alla pugna per la redenzione della patria, io ritroverò un'arma qualunque ed un posto accanto a' miei prodi commilitoni". Pochi giorni dopo a richiesta del re sciolse la nuova società, La Nazione armata, a programma rivoluzionario, da lui creata dopo aver abbandonato la Società nazionale (4 gennaio 1860). E poi, con l'animo in pena, e per questi avvenimenti e ancora per la penosa conclusione che ebbe il matrimonio celebrato il 24 gennaio con la marchesina Giuseppina Raimondi, si ritirò a Caprera. (Sciolto il 14 gennaio 1880, questo matrimonio, G. poté sposare il 26 Francesca Armosino, da cui aveva avuto i figli Clelia e Manlio). Ai primi d'aprile presentò alla Camera un'interpellanza sulla cessione di Nizza alla Francia ma ivi gli giunse notizia della rivolta scoppiata in Palermo il 4, e acconsentì subito ad accorrere in aiuto degl'insorti. Dapprima domandò uno o due reggimenti di fanteria al re, che gli furono rifiutati per giuste ragioni di politica estera. Si diede allora a raccogliere un corpo di volontarî, che per un momento pensò di dirigere su Nizza per distruggere le urne del plebiscito che avrebbe deciso le sorti della città. Dopo qualche incertezza, determinata dalle notizie contraddittorie che venivano dalla Sicilia - e G. non intendeva partire senza la sicurezza che nell'isola ardesse la rivoluzione, - non senza almeno il tacito consenso del governo, la spedizione partì da Quarto nella notte dal 5 al 6 maggio 1860. Meravigliose tappe dell'impresa, la più grande e la più eroica che il G. compisse mai nei due mondi, furono lo sbarco a Marsala (11 maggio), la battaglia di Calatafimi (15 maggio), la presa di Palermo (27 maggio), la battaglia di Milazzo (20 luglio), il passaggio dello stretto di Messina (19 agosto), la trionfale marcia attraverso le Calabrie, mentre la rivoluzione si propagava in tutta la parte continentale del regno delle Due Sicilie, l'ingresso in Napoli (7 settembre) donde la corte borbonica si era allontanata da poche ore, la decisiva battaglia del Volturno (1-2 ottobre) ove bersaglieri piemontesi combatterono accanto ai garibaldini, a conferma che, fra l'intrecciarsi dei maneggi cavourriani e mazziniani per assicurare alla monarchia o alla repubblica il frutto della conquista quasi miracolosa, G. aveva mantenuto fede alla monarchia. L'arrivo del re, e a Teano avvenne il famoso suo incontro (26 ottobre) con il vittorioso generale, impedì la marcia dei garibaldini su Roma; il 7 novembre G. accompagnò il monarca nel suo ingresso in Napoli, il giorno seguente gli consegnò i risultati del plebiscito che approvava l'unione del regno alla monarchia sabauda, e il 9, rifiutati tutti gli onori, parti di nascosto, non portando con sé come ricompensa che poche centinaia di lire, un sacco di legumi, un altro di sementi e un rotolo di merluzzo secco.
Pur dopo le amarezze provate specialmente negli ultimi tempi dell'impresa, G. si mantenne fedele all'ideale che aveva abbracciato. Appena giunto a Caprera in un proclama agl'Italiani affermava: "Vittorio Emanuele è il solo indispensabile in Italia; colui attorno al quale devono rannodarsi tutti gli uomini della nostra penisola, che ne vogliono il bene". E in nome dell'unità italiana finì per riconciliarsi anche con il Cavour - che, come egli disse, lo aveva fatto straniero all'Italia e che aveva attaccato con terribile violenza in parlamento il 18 aprile 1861 -, riconoscendo tutto quello che aveva fatto per l'Italia e sottomettendosi alla sua volontà: "Sia Vittorio Emanuele il braccio dell'Italia e lei il senno, signor conte" - gli scrisse il 18 maggio, quasi a raddolcirgli quelli che dovevano essere gli ultimi giorni della sua vita - "e formino insieme quell'intero potente che solo manca oggi alla penisola". Ma il grande statista moriva lasciando incompleta l'opera sua; nei mesi seguenti parve che si allontanasse il giorno del compimento dell'unità italiana; e allora G. tornò a essere rivoluzionario.
Ottenuta dal Rattazzi la direzione del Tiro a bersaglio, ne approfittò per preparare in Sarnico un'invasione nel Trentino (maggio 1862) e, posto nell'impossibilità di attuarla per le misure prese dal governo, si recò a Palermo (28 giugno) lanciò un proclama contro la Francia, e, non tenendo nessun conto delle insistenze fatte per indurlo a recedere dal proponimento, al grido di "Roma o morte" mosse verso la città eterna: ad Aspromonte (29 agosto) era fermato e ferito dai soldati italiani comandati dal colonnello E. Pallavicini di Priola. L'impressione fu enorme in tutta Europa, ove il nome di G. destava entusiasmi popolari ed era simbolo di lotta; e ne fu prova l'accoglienza che gli fece nell'aprile 1864 l'Inghilterra; ma il triste episodio, mentre valse a mostrare quanto tenace fosse la passione italiana, non ruppe i rapporti tra il governo monarchico e G., il quale, dal Varignano, dove era prigioniero, in un proclama non solo scusava in nome della disciplina militare l'ufficiale che aveva ordinato il fuoco, ma affermava anche "di non aver egli in nulla alterato l'antico programma e di essere risoluto a non alterarlo a qualunque costo". E infatti, scoppiata la guerra del 1866, accettò il comando dei volontarî, con i quali entrò nel Trentino, e che in quella disgraziata campagna condusse alla vittoria (Monte Suello, 3 luglio; Bezzecca, 21 luglio); e poi, fedele alla consegna militare, accolse con la famosa parola: "Obbedisco" (9 agosto) l'ordine di sospendere le operazioni e di abbandonare il territorio occupato, che il sangue versato dai suoi soldati aveva reso doppiamente italiano e che per il momento era negato all'Italia. Ormai soltanto Roma mancava per completare l'unità; e con rinnovellato fervore a Roma rivolse tutta la sua passione, non solo promovendo un'attiva propaganda per costringere il governo all'azione, ma prendendo le armi. Dapprima fermato a Sinalunga (24 settembre 1867) e condotto a Caprera, sfuggendo alla sorveglianza della flotta italiana ritornò poi sul continente, e il 23 ottobre passò il confine; ma a Mentana (3 novembre) invano tentò di vincere le truppe francesi e pontificie e fu costretto alla ritirata. Arrestato a Figline e condotto al Varignano, il 25 novembre fu imbarcato per Caprera. Doveva ritornare nel continente soltanto nel 1870 per prendere le armi in difesa della Francia, alla quale avrebbe regalato con la battaglia di Digione (21-23 gennaio 1871) una delle poche vittorie di quella sua sfortunata guerra contro la Prussia, e l'unica bandiera tolta al nemico.
Negli ultimi anni della sua vita, che si chiuse in Caprera il 2 giugno 1882, fu ripreso dai suoi giovanili sogni di cosmopolitismo e di fratellanza universale, senza per altro riuscire a dare ordine alla sua inquieta attività; e tentò divenire scrittore, aggiornando le sue Memorie autobiografiche, alle quali volle aggiungere una redazione in versi sciolti; compilando tre romanzi 1873-74): Clelia o il governo del Monaco, Cantoni il volontario, I Mille; e componendo versi italiani e francesi. Ma la poesia egli l'aveva nell'anima, e la sua vita era stata il suo vero canzoniere.
Garibaldi condottiero. - Le prime imprese di G. furono compiute sul mare. E in esse si manifestò subito uomo di pronta concezione e di singolare ardimento, ma nello stesso tempo avveduto nell'adeguare i mezzi al raggiungimento dello scopo. A torto critici e avversarî vollero fare di lui un avventuriero più pronto allo sbaraglio che all'azione meditata.
Digiuno di studî tattici si rivela capitano in Brasile. Nel 1837, proclamata a Porto Alegre la dittatura di Bento Gonçalves, costui affida a G. la guerra di corsa contro le navi brasiliane. In varie occasioni si trova a rischio d'essere catturato, ma con sottili astuzie riesce sempre a colpire l'avversario o a sfuggirgli. Passato poscia agli ordini del generale Canabarro, opera nella laguna di S. Catharina con due golette contro la squadra brasiliana e simulando di essere sorretto da artiglierie terrestri (mentre si trattava invece di due piccoli cannoni da lui postati e mascherati sulla costa) riesce a ottenere la resa di un nemico assai preponderante di forze e di mezzi. Quando più tardi l'esercito repubblicano fu costretto a ripiegare verso l'interno, la parte assegnata a G. di proteggere dal mare la marcia, fu da lui disimpegnata in modo mirabile. Al combattimento di S. Vitoria l'uomo di mare si trasforma in abilissimo comandante di truppe. Nella campagna del Paraná, con abili manovre e con mezzi inadeguati tiene più volte in scacco il nemico, ingannandolo e molestandolo con una guerriglia continua, fino al suo richiamo alla difesa di Montevideo.
Nel 1843, G., riunita una legione di 500 Italiani, si accinge a fronteggiare le truppe del generale M. Oribe che marciavano su Montevideo, e nella sortita del 28 marzo conferma la sua fama di capitano, già chiaramente apparsa nelle azioni dal 1837 al 1841, impossessandosi di sorpresa della chiave delle posizioni nemiche e obbligando gli oribeani alla fuga. Più tardi, posto alla retroguardia, salvava con uno stratagemma l'esercito uruguayano, caduto in un'imboscata al Saladero (24 aprile 1844). Con queste vittorie, cui si aggiungeva poi l'altra di San Antonio del Salto, G. nobilitava il nome dei volontarî italiani ed elevava ad arte la guerriglia.
Combattente ostinato e maestro d'energia, sicuro nell'apprezzamento del terreno e delle qualità degli uomini, s'era fatto ormai compiuto uomo di guerra. L'educazione marinaresca gli aveva insegnato la rapidità delle decisioni, mentre il suo ascendente personale gli aveva consentito di chiedere ai suoi uomini ogni sforzo e ogni sacrificio. I suoi combattimenti, le sue ritirate non si assomigliavano mai: condottiero originalissimo, se non aveva letto mai Montecuccoli e Jomini, sapeva come pochi sfruttare le caratteristiche del terreno, gli errori dell'avversario, le doti dei seguaci.
Non minore abilità di quella dimostrata in America G. dimostra in Italia nell'ultima fase della campagna del '48. Inviato a Bergamo e poi richiesto d'urgenza dal comitato di difesa di Milano, giunge a Monza, dove ha notizia dell'armistizio Salasco. Si rifugia allora in Svizzera, donde su alcuni barconi si porta a Luino per molestare gli Austriaci sul territorio lombardo. Il generale D'Aspre con cinque brigate muove a dare la caccia alla colonna garibaldina; ma G. non aspetta d'essere accerchiato, manda G. Medici a occupare Ligurno e Rodero ed egli col grosso per Valganna si getta alle spalle del nemico, arriva a Morazzone, dove, attaccato dagli Austriaci, li respinge (26 agosto) e riesce poscia a sfuggire all'accerchiamento con marcia abilissima e a riparare di nuovo in Svizzera. Pur senza voler cercare nella rapidissima campagna (dodici giorni di continuo movimento e d'incessanti schermaglie) un piano organico, che non vi fu, si può riconoscere che con un piccolo nucleo G. aveva tenuto in moto dal 15 al 26 agosto 5000 Austriaci ed era riuscito tre volte a ingannarli sulle sue intenzioni. Il suo avversario, il D'Aspre, riconoscendogli qualità superiori di condottiero, ne avrebbe fatto questo elogio: "L'uomo che avrebbe potuto essere utile agl'Italiani nel 1848 era G. e lo disconobbero". Giudizio non dissimile da quello che alla fine del '49 diede Alfonso La Marmora: "Fu grave errore non servirsene. Occorrendo una nuova guerra è uomo da impiegare".
Chiamato a Roma l'anno dopo, alla vigilia dell'attacco francese, vi assumeva il comando della prima brigata, circa 2500 uomini, cui era stata affidata la difesa delle mura tra Porta San Pancrazio e Porta Portese. Contro i Francesi avanzanti il 30 aprile, G. fece massa sul loro fianco e riuscì a sfondarlo, obbligandoli a retrocedere. In questo fatto d'armi fu il solo capo che intuisse la necessità d'incalzare l'avversario in ritirata verso Castel di Guido. Ma il triumvirato si oppose.
Di risoluta audacia e di rapido intuito diede anche prova nel breve scontro di Palestrina contro i borbonici (9 maggio 1849), e se nel successivo combattimento di Velletri (19 maggio) non avesse dovuto in parte dipendere dal troppo cauto Roselli, avrebbe forse conseguito una decisiva vittoria. I borbonici si erano già disposti alla ritirata sul territorio napoletano, ma assaliti dalla sola avanguardia romana comandata dal Marocchetti, con la quale G. s'era spinto pericolosamente innanzi, fecero bravamente testa e con gli ussari del Colonna misero a rischio lo stesso G., travolgendo i lancieri di Masina che gli erano di scorta. G. mandò allora ad avvisare Roselli, procedente col grosso da Valmontone, perché affrettasse la marcia, ma il generale in capo gli rispose redarguendolo per avere iniziato il combattimento senza avere atteso i suoi ordini. L'improvvisa azione dell'avanguardia, forse troppo temeraria, aveva però turbato il nemico, inducendolo ad accelerare la ritirata su Terracina, che si compié ordinatamente nella notte. G., perduta la speranza di poter piombare sul fianco borbonico, oltrepassò il confine napoletano, ma fu poco dopo richiamato dal triumvirato. L'accusa rivolta a G. di avere impedito con azione prematura l'accerchiamento del nemico regge solo in parte, perché si può replicare che il risultato negativo fu conseguenza non solo di una disobbedienza garibaldina, ma anche della troppa cautela del Roselli, del ritardato accorrere del grosso all'appello di Garibaldi e della mancata successiva azione contro la retroguardia nemica. Si era insomma manifestato, come spesso accade, un contrasto di vedute fra chi aveva l'immediata sensazione delle circostanze e ad essa adattava l'azione, e chi - da lontano - rimaneva fermo nell'attuazione di un piano preconcepito e non più rispondente alla situazione.
Più che capitano, soldato si rivelò nella giornata del 3 giugno a Porta San Pancrazio e nei successivi episodî della difesa di Roma. E l'eroismo del combattente fece dimenticare la sanguinosa inutilità di qualche disperato assalto. Abilissima fu poi l'epica anabasi che seguì la caduta di Roma. L'Oudinot aveva lanciato contro di lui una colonna verso Albano, il borbonico Statella gli moveva alle spalle dal Tronto, gli Spagnoli del verboso minor Consalvo lo aspettavano a Rieti, gli Austriaci del D'Aspre gli chiudevano la via dell'Umbria. Ma G., maestro negli stratagemmi di guerra, abilissimo nell'impiego della sua poca cavalleria, favorito anche dall'esiguità delle sue forze, eluse i quattro eserciti e distaccando opportunamente i suoi uomini, riuscì ora con l'astuzia ora con le armi ad aprirsi una via e a giungere con i suoi più fidi a San Marino. I distaccamenti austriaci, affannantisi a rincorrerlo da San Sepolcro a Città di Castello, da Sant'Angelo a Macerata Feltria, ricevevano appena informazioni su di lui che già egli era sfuggito. E anche quando nei pressi di Pietra Rubbia fu accerchiato, si mostrò ardito e intelligente manovriero, e scambiati pochi colpi col nemico riuscì a sottrarsi per i boschi all'inevitabile cattura. Né meno arditamente astuto apparve pochi giorni dopo, quando sul mare si salvò dalla crociera austriaca e, presa terra, con accorgimenti mirabili e sopportando dolori e fatiche sovrumane, ripassò l'Appennino, scese in Maremma e toccò, salvo, la costa di Liguria.
Dieci anni dopo, riaccesasi la guerra contro l'Austria, G. guidò i cacciatori delle Alpi. Incaricato di presidiare il castello di Verrua, riconobbe come quella località fosse inadatta a guardare la strada Casale-Torino e chiese di portarsi sulle alture di Brozolo: scelta di posizione che il Cialdini lodò. Destinato poco dopo a marciare su Vercelli, compì questa manovra sul fianco degli Austriaci con abilità non meno grande di quella dimostrata nella successiva marcia da Sesto a Varese, con la quale ingannò sapientemente il nemico, che credendo Sesto sempre occupata, fu costretto a guardare quella località. Principale preoccupazione di G. in tutta questa campagna fu quella di proteggersi alle spalle e sui fianchi, sua mira costante quella d'ingannare l'avversario sulle sue mosse per sorprenderlo in condizioni d'inferiorità. Concetti facili a enunciare, ma solo un manovriero ardito come G. poteva tradurli così felicemente in realtà. Il passaggio del Ticino, la marcia successiva, il combattimento di Varese (modello d'intuizione del terreno e di spirito aggressivo), la pronta decisione di riprendere all'indomani l'offensiva, la dimostrazione su Olgiate, diretta a mascherare l'attacco principale di S. Fermo, e infine l'improvvisa determinazione di scendere su Como, presa durante il combattimento, come i successivi campeggiamenti sullo Stelvio contro l'ardito e tenace Urban, provarono ancora una volta le sue qualità di capo e consolidarono la sua fama. Il Rüstow scrisse che G. fu l'unico condottiero apparso nella guerra del '59.
Tutta la campagna del 1860, da Calatafimi "battaglia di soldati" alle operazioni che condussero alla presa di Palermo, è una meraviglia di ardimento e di sapienti accorgimenti. La manovra di Palermo e lo stratagemma della diversione affidata a V. Orsini, per la quale il modesto carreggio e i miseri cannoncini dei Mille si avviarono per Corleone alla volta di Sciacca, ingannando le truppe del von Mechel e del Bosco, sono significativi esempî del sicuro intuito strategico di G. E nuove prove delle sue qualità di comandante sono l'impiego tempestivo delle riserve a Milazzo per indurre i borbonici a spostare la resistenza sulla sinistra, mentre i volontarî attaccavano la destra; le disposizioni per lo sbarco di sorpresa a Melito; gli ordini perché i volontarî avviati per mare precedessero nelle varie località della costa la colonna principale che risaliva dal sud alla conquista di Napoli.
Ma dove il genio di G. rifulse maggiormente fu alla battaglia del Volturno, quando, incuneatesi tra S. Maria e S. Angelo le divisioni borboniche, apparve inevitabile la rottura della linea garibaldina. G., che aveva studiato il terreno e disposto un opportuno schieramento e una ben calcolata dislocazione della riserva, apparve perfetto manovratore. Otturata la falla, decise la grande giornata e all'indomani, mirabilmente coadiuvato dal Bixio, oppose a Caserta Vecchia una seconda resistenza alla colonna Perrone che minacciava le sue spalle e, a sua volta, l'accerchiava e la costringeva ad arrendersi. E non solo con le abili mosse G. trionfò al Volturno, ma anche perché, non impressionato dal minacciato aggiramento, rimase sul posto.
Per quanto si riferisce alla campagna del '66, è soprattutto degno di ricordo che a G., posto a capo dei volontarî, fu anche richiesto il parere sul piano di guerra. Il concetto di agire sul Po per aggirare il Quadrilatero, distraendo l'attenzione degli Austriaci con azioni dimostrative sul Mincio, gli parve buono; ma, convinto della necessità di operare a massa, insistette perché la maggior parte delle forze venisse concentrata sul Po, lasciando sul Mincio solo alcune divisioni incaricate più di manovrare che di combattere. Opportuna gli parve invece una diversione nell'Istria per prendere di rovescio Trieste. Simile in parte al piano attribuito al Moltke, la sua idea era meno vaga e meglio intonata agl'interessi italiani. La seconda fase delle operazioni nelle valli trentine fu un'altra chiara conferma del genio tattico di G., che in quindici giorni si pose in grado di prendere quell'offensiva che l'avrebbe condotto a Trento, se non fosse stato fermato dall'armistizio di Cormons. Notevole nel 1866 fu anche il saggio uso della sua poca artiglieria.
Gli ordini a Menotti per la marcia da Monterotondo a Tivoli, alla vigilia di Mentana, nella breve campagna dell'Agro Romano (2 novembre 1867) sono un modello del genere. E le operazioni garibaldine in Francia dell'inverno '70-'71 mostrano come, sotto un capo come G., anche truppe mancanti di mezzi adeguati al fine potessero compiere prodigi di abilità e di valore. Quand'egli accorse generosamente dimentico in aiuto della Francia, gli fu affidato il cosiddetto esercito dei Vosgi, composto di 11-12.000 uomini d'ogni provenienza, franchi tiratori, marinai, doganieri, reggimenti di marcia e un compatto nucleo di volontarî italiani, riordinati in quattro brigate (due delle quali affidate a Menotti e Ricciotti G.) con il compito di otturare la larga falla tra Digione e Besanzon, minacciata dalle scorrerie tedesche. Le istruzioni date a Ricciotti per attaccare la colonna Zastrow, a Chatillac, gli abili spostamentí per fronteggiare il nemico sono nuovi tipici esempî della sua capacità manovriera e del suo senso tattico.
L'attacco notturno di Digione, frustrato dagli errori della brigata Bossack, che s'impegnò intempestivamente con gli avamposti prussiani, indusse G. a un rapidissimo mutamento del piano d'azione: minacciato d'aggiramento, aggirò a sua volta e si ebbe allora quello scontro di Pasques, nel quale la preponderanza dell'artiglieria nemica fu vinta dall'ardore dei garibaldini, che costrinsero i Prussiani a ripiegare.
L'arte di comando di G. fu tutta personale: essa dimostra come si possano applicare i principî fondamentali della guerra anche senza averli appresi sui libri, quando si abbia istinto guerriero e ferma volontà di vincere. Realizzatore di tutte le possibuità che le circostanze consentivano, G. concentra le forze sul punto decisivo e nel momento più opportuno, con marce rapidissime, assalta rapido e deciso. Non si perde in diversioni, ma punta dritto allo scopo essenziale; cerca non le frequenti battaglie, ma la sicura vittoria. Milazzo è il tipo della battaglia garibaldina; la marcia su Palermo nel '60, quella da Como al Lago Maggiore nel '59 e la leggendaria ritirata del '49 sono degni esempî di marce manovrate. Tattico consumato e d'inesauribili risorse, agisce preferibilmente sul fianco dell'avversario, che stanca con continui assalti, e contro il quale sa impiegare tempestivamente le riserve. Ma il fascino mirabile che esercitò sempre sui suoi uomini, a lui votati anima e corpo, fu tra le cagioni prime dei suoi trionfi.
Garibaldi e la letteratura. - Si può dire che nessuno degli scrittori operanti in Italia nella seconda metà del sec. XIX, se se ne eccettui il vecchio e ormai sterile Manzoni, resisté alla tentazione di scrivere di G. Le composizioni anche dei migliori di essi non valgono molto: e sarà naturalmente per scarso valore degli scrittori. Ma alcuni produssero in altri campi cose assai più degne: onde forse è lecito pensare che nuocessero la stessa troppa "poeticità" dell'argomento che sembrava potesse dispensare da un ripensamento originale, e il rapido formarsi di un "mito ", cioè di un insieme di luoghi comuni letterarî, nei quali tutti convenivano e per mezzo dei quali era facile cogliere l'applauso.
A G. dedicarono scritti, per citare solo i maggiori di quella generazione, il Niccolini, il Maffei, il Prati, l'Aleardi, e soprattutto il Dall'Ongaro con una ricca serie dei suoi popolareggianti ma letteratissimi Stornelli, e il Guerrazzi dell'Assedio di Roma e del Secolo che muore. Accanto al garibaldinismo del Guerrazzi si ha l'antigaribaldinismo del padre Bresciani (La repubblica romana; Lionello; Don Giovanni, con vivace descrizione della morte di Anita: opere che vivono nello stesso clima letterario di quelle del Guerrazzi). Seguì il gruppo degli scrittori-soldati, Nievo, Mercantini, Abba, Guerzoni, Barrili; né la nuova generazione di scrittori fiorita verso la fine del secolo o ai primi del nuovo fu da meno. Della triade Carducci Pascoli D'Annunzio, il primo si costituì anzi cantore in titolo di Garibaldi ed elaboratore in forme letterarie della leggenda" garibaldina (A G. G.; Scoglio di Quarto; Discorso per la morte di G., ecc.); il secondo inclinò soprattutto verso un G. georgico e pacifista (Odi e inni; Poemi del Risorgimento); il terzo foggiò, tra i guizzi della sua sensualità eroica, il G. tolstoiano della Notte di Caprera. Accanto a essi l'oratoria in versi, in prosa, in epigrafi del Cavallotti, e le fortunate Rapsodie garibaldine del Marradi, di cui l'entusiasmo non compensa la superficialità. Ma siamo sempre in una più o meno felice letteratura: fuori di essa sono i sonetti di Villa Gloria in cui il Pascarella riesce a rappresentare l'episodio eroico riflesso nella semplice commozione di un popolano, e che, accanto alle Noterelle dell'Abba - diario di uno dei Mille originariamente non destinato alla pubblicazione - sono quanto di meglio la figura e le gesta di G. abbiano ispirato.
Ma a prescindere dagli scritti di G. (v. sopra) e da quelli su di lui, il garibaldinismo interessa la letteratura anche per sé stesso, in quanto rappresenta, sia nel suo complesso, sia nelle gesta e nei gesti di G. e dei garibaldini, uno degli aspetti del romanticismo, il romanticismo dell'azione e dell'atteggiamento, senza di cui il romanticismo letterario non può essere compreso a pieno.
Bibl.: La migliore biografia, sebbene un po' invecchiata, è ancora quella di G. Guerzoni, Firenze 1882. Inoltre si vegga: G. B. Cuneo, Biografia di Garibaldi, Genova 1850; A. V. Vecchi, La vita e le gesta di G. G., Bologna 1882; J. White Mario, G. G. e i suoi tempi, Milano 1884; A. Bizzoni, G. nella sua epopea, Milano 1905; G. M. Trevelyan, G. e la difesa della Repubblica romana, Bologna 1909; id., G. e i Mille, Bologna 1910; id., G. e la formazione dell'Italia, Bologna 1913; G. E. Curatulo, G. e le donne, Roma 1913: id., G., Vittorio Emanuele e Cavour nei fasti della patria, Bologna 1911; id., Scritti e figure del Risorgimento italiano, Torino 1926; id., Il dissidio tra Mazzini e Garibaldi, Milano 1928; A. Luzio, G., Cavour, Verdi, Torino 1924; L. Gasparini, Un amore di G., Milano 1932. Per le memorie autobiografiche di G., si vedano l'edizione diplomatica curata da E. Nathan, Torino 1907, e l'edizione nazionale, Bologna 1932. V. anche Scritti politici e militari raccolti da D. Ciampoli, Roma 1907. Fra gli studî particolari, assai accresciuti per la ricorrenza cinquantenaria del 1932 (e pei quali si vegga, oltre alla vasta bibliografia riportata dal Trevelyan nei suoi volumi, C. Quarenghi, Bibliogr. relat. al gen. G. G., in Riv. mil. ital., XXVII, 1882, pp. 123-127; A. Vismara, Materiali per una bibl. del gen. G. G., Como 1891; D. Guerrini, Saggio di bibliografia garibaldina, in Garibaldi e i garibaldini, Como 1910; F. Lemmi, Il Risorgimento, Roma 1926), ricordiamo: A. Cavacciocchi, Le prime gesta di G. in Italia, in Riv. militare, 1907; R. Belluzzi, La ritirata di G. da Roma nel 1849, Roma 1899; E. Loevinson, Garibaldi e la sua Legione nello Stato romano, Roma 1902-1907; D. Guerrini, in Rass. stor. del Risorgimento italiano, 1908-09; G. Cadolini, I Cacciatori delle Alpi, in Nuova Antologia, 1° luglio 1907; J. della Chiesa, Noterelle Varesine, Varese 1906; A. Falconi, Come e quando G. scelse per sua dimora Caprera, Cagliari 1902; C. A. Vecchi, G. a Caprera, Bologna 1910; C. Teyras, G. en France en 1870-71, Parigi 1891; A. Monti, La vita di G. giorno per giorno narrata e illustrata, Milano 1932. Per Garibaldi condottiero, vedi inoltre G. Cadolini, in Nuova Antologia, 1922; C. Nicolosi, in Rivista di fanteria, 1903; D. Guerrini, in Garibaldi e i garibaldini, Como 1910; F. Sardagna, Garibaldi in Lombardia 1848, Milano 1927; Ufficio storico dello S. M., Garibaldi condottiero, Roma 1901; N. Puccioni, Garibaldi nei canti dei poeti suoi contemporanei e del popolo italiano, Bologna 1912; G. A. Borgese, Studi di letterature moderne, Milano 1915; L. Russo, prefazione alla sua edizione di G. C. Abba, Da Quarto al Volturno, Firenze 1925; U. Biscottini, Poeti del Risorg., Livorno 1932, pp. 111-120.