Garibaldi, Giuseppe
Generale e uomo politico (Nizza 1807 - Caprera 1882). Nato da una famiglia di marinai – il padre era un piccolo armatore e capitano di navi da cabotaggio – fu attratto fin da giovane dalla passione per il mare e, abbandonati gli studi, cominciò a viaggiare per il Mediterraneo e il Mar Nero. Durante i suoi ripetuti viaggi venne in contatto con alcuni seguaci di Saint-Simon e nel 1833 in una locanda di Taganrog, sul Mar Nero, conobbe un affiliato alla Giovine Italia, che la tradizione identifica con Gian Battista Cuneo. Furono incontri decisivi: fu conquistato dagli ideali socialisti e umanitari dei sansimoniani e affascinato dal progetto patriottico e rivoluzionario dei mazziniani. Democrazia, socialismo umanitario e patriottismo furono gli ideali ai quali restò fedele per tutta la vita. Tornato in patria e affiliatosi alla Giovine Italia, alla fine del 1833 si arruolò nella marina sarda, con lo scopo di fare proseliti per la causa mazziniana e promuovere un tentativo insurrezionale a Genova che avrebbe dovuto facilitare la spedizione di Mazzini in Savoia. La spedizione fallì sul nascere e Garibaldi fu costretto a fuggire e riparò a Marsiglia, dove fu raggiunto dalla notizia della condanna a morte inflittagli dal tribunale militare di Genova. Si imbarcò allora per il Mar Nero; poi si arruolò nella flotta del bey di Tunisi. Ritornato alla metà del 1835 a Marsiglia, vi ottenne il comando in seconda di un brigantino diretto a Rio de Janeiro, dove giunse fra il dicembre 1835 e il gennaio 1836. Qui, a stretto contatto con la folta colonia di emigrati liguri, fra cui molti militanti mazziniani, consolidò la sua formazione politica. Nel 1837 accettò col suo amico Luigi Rossetti di far guerra di corsa a favore dello Stato di Rio Grande do Sul ribellatosi al governo brasiliano, e ne comandò poi la flotta da guerra. All’inizio del 1841 fu costretto a riparare a Montevideo; con lui c’era Anita, al secolo Anna Maria Ribeiro da Silva, che aveva abbandonato il marito per seguirlo. Garibaldi la sposò nel 1842, dopo che era rimasta vedova, e insieme ebbero tre figli: Menotti, Ricciotti e Teresita. Nel frattempo aveva ripreso a combattere, coinvolto nella guerra civile che lacerava l’Uruguay, dove si contendevano la presidenza della Repubblica Fructuoso Rivera e Manuel Oribe, quest’ultimo sostenuto dal dittatore argentino Juan Manuel de Rosas. Schierato con Rivera, nel 1843 Garibaldi creò la legione italiana, che adottò come uniforme la camicia rossa, e alla sua guida riportò una brillante vittoria a S. Antonio del Salto, l’8 febbraio 1846. L’anno successivo gli fu affidato il comando generale della difesa di Montevideo. Fu in quegli anni che nacque il mito dell’eroe dei due mondi e la sua fama cominciò a circolare anche in Europa. Nell’aprile del 1848, giuntagli la notizia della rivoluzione di Palermo, fece ritorno in Italia con una sessantina di seguaci. Sbarcato a Nizza, proseguì per Genova e, dopo il rifiuto di Carlo Alberto di accoglierlo nell’esercito sardo con la sua legione di volontari, offrì il suo aiuto al governo provvisorio di Milano. Battutosi eroicamente a Luino (15 agosto) e a Morazzone (26 agosto), fu poi costretto a ritirarsi e riparò in Svizzera. Tornato in Italia, dopo la fuga di Pio IX a Gaeta fu eletto deputato all’Assemblea costituente romana e fu tra i fautori della proclamazione della Repubblica. Nel febbraio del 1849 gli fu affidata la difesa di Roma. Sconfisse ripetutamente francesi e borbonici, prima di essere costretto ad arrendersi. Lasciò Roma con 4.000 uomini nell’intento di recarsi a Venezia, dove la repubblica di Daniele Manin ancora resisteva. Braccato dagli eserciti nemici, a San Marino fu costretto, al termine di una marcia entrata nella leggenda, a sciogliere la sua colonna. Qualche giorno dopo morì Anita, che, come sempre, lo aveva seguito, nonostante fosse incinta. Riuscì poi a eludere la caccia della polizia austriaca, pontificia e toscana, e a espatriare nuovamente. Ospite dal 1849 al 1850 del console piemontese di Tangeri, poi operaio in una fabbrica di candele a New York, riprese infine a navigare. Si recò in America Centrale, Perù, Cina, Australia. A Londra, nel febbraio del 1854, rivide Mazzini dal quale però si dissociò apertamente, ormai conquistato dalla politica realistica del governo sardo. Nel 1856, con la mediazione di Giorgio Pallavicino e di Daniele Manin, entrò nella Società nazionale italiana ed ebbe il primo colloquio segreto con Cavour. Nel 1859, alla vigilia della guerra, si incontrò di nuovo con lo statista piemontese per accordarsi sull’organizzazione dei volontari e in quell’occasione conobbe Vittorio Emanuele II. Nominato generale dell’esercito piemontese, al comando dei Cacciatori delle Alpi sconfisse gli austriaci a Varese (26 maggio) e a San Fermo (27 maggio) ed entrò trionfalmente a Brescia (13 giugno). Deluso dall’armistizio di Villafranca, si dimise dall’esercito sardo e si recò nell’Italia centrale al servizio dei governi insorti. Comandante in seconda delle truppe della lega militare formatasi fra Toscana, Romagna, Parma e Modena, passò nelle Marche per estendervi il movimento rivoluzionario, ma richiamato dallo stesso Vittorio Emanuele depose il comando, ritirandosi a Caprera, dopo aver lanciato da Genova un manifesto di violenta critica alla politica di Cavour, ritenuto responsabile tra l’altro della cessione di Nizza alla Francia. Giuntagli nell’aprile del 1860 notizia della rivolta scoppiata a Palermo, col consenso tacito del governo, si pose a capo della spedizione dei Mille, che partì da Quarto nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860. Tappe dell’impresa furono: lo sbarco a Marsala (11 maggio), la battaglia di Calatafimi (15 maggio), la presa di Palermo (27 maggio), la battaglia di Milazzo (20 luglio), il passaggio dello Stretto di Messina (19 agosto), la trionfale marcia attraverso la Calabria, l’ingresso a Napoli (7 settembre), la decisiva battaglia del Volturno (1-2 ottobre), l’incontro col re a Teano (26 ottobre). Il 7 novembre entrò con Vittorio Emanuele a Napoli. Sacrificando ogni ambizione alla soluzione sabauda, che sentiva necessaria per l’unità, il giorno seguente consegnò al re i risultati del plebiscito e il 9 ripartì per Caprera, rifiutando la nomina a generale e le ricompense offertegli. Irremovibile nella decisione di liberare Roma, nel 1862 da Palermo lanciò un proclama contro la Francia, e al grido di «Roma o morte» marciò verso Roma; nell’Aspromonte (29 agosto) fu ferito e fatto prigioniero da truppe regolari. Amnistiato, nel marzo del 1864 si trasferì a Londra, accolto dall’entusiasmo popolare. Scoppiata la guerra del 1866, accettò nuovamente il comando dei volontari; entrò con essi nel Trentino e li condusse alla vittoria (Monte Suello, 3 luglio; Bezzecca, 21 luglio). Dopo l’annessione del Veneto, Garibaldi tentò nuovamente di conquistare Roma. Fermato a Sinalunga (24 settembre 1867) fu ricondotto a Caprera ma, sfuggendo alla sorveglianza della flotta italiana, ritornò sul continente e il 23 ottobre passò il confine con i volontari accorsi all’impresa: a Mentana (3 novembre) le truppe francesi e pontificie lo costrinsero alla ritirata. Arrestato a Figline e condotto nella fortezza del Varignano, il 25 novembre fu imbarcato, non ufficialmente prigioniero, per Caprera. La sua ultima impresa militare fu in favore della Repubblica francese, impegnata contro le truppe prussiane, sconfitte da Garibaldi a Digione (21-23 gennaio 1871). Negli ultimi anni della sua vita inclinò sempre più a un socialismo di tipo umanitario, si schierò in favore della Comune parigina e aderì all’Internazionale socialista. In questo periodo aggiornò le sue Memorie autobiografiche, cominciate a Tangeri tra il 1849 e il 1850, aggiungendovi una redazione in versi sciolti. Scrisse tre romanzi: Clelia o il governo del monaco (1870), Cantoni il volontario (1870), I mille (1874), e compose versi in lingua italiana e francese.