GAUDENZI, Giuseppe
Nacque il 17 febbr. 1872 a Terra del Sole, piccola località a pochi chilometri da Forlì, che rientrava allora nel territorio della provincia di Firenze. Di famiglia benestante (il padre era commerciante di stoffe e piccolo proprietario di terra), si dedicò molto precocemente all'attività politica, tanto che già nel 1887 fu tra i fondatori della società operaia di San Varano e, tre anni dopo, fondò e diresse un settimanale, La Romagna, che si attestò su una linea di mazzinianesimo intransigente.
Dalle colonne di questo giornale, il cui primo numero apparve il 26 luglio 1890, il G. si scagliò contro le due correnti che stavano minando l'unità d'azione del movimento repubblicano, sia in Romagna sia sul piano nazionale: da un lato quella radicale e progressista, che a livello locale aveva avuto come antesignano A. Fortis e si riconosceva nella necessità di abbandonare la pregiudiziale antimonarchica; dall'altro quella collettivista, che faticava ormai a identificarsi nella dottrina sociale di Mazzini e in quel "patto di fratellanza" fra le associazioni repubblicane, che di essa era la principale espressione dal punto di vista organizzativo. La polemica investì lo stesso nucleo familiare del G., in quanto il fratello maggiore, Quinto (1869-1936), fu chiamato nel 1891 a ricoprire la carica di segretario della Confederazione repubblicana collettivista romagnola.
Il fallimento della Banca popolare di Forlì, nell'aprile 1894, indusse il G. a un duro atto di accusa nei confronti di L. Quartaroli, capo dei repubblicani forlivesi ma al contempo sostenitore elettorale del Fortis, ritenuto il principale artefice delle attività speculative e affaristiche che avevano portato al dissesto finanziario della banca. Il G., che fra l'altro nella vicenda aveva perso gran parte del suo patrimonio, subentrò allora al Quartaroli nella guida del Circolo Mazzini di Forlì e, poco dopo, ne raccolse l'eredità anche alla testa della Consociazione repubblicana romagnola. Quindi, il 27 maggio 1894, il congresso regionale collettivista approvò la fuoruscita delle proprie organizzazioni dal patto di fratellanza, del quale venne di fatto decretata la definitiva dissoluzione.
Al congresso della Consociazione, tenutosi il 24 giugno seguente, il G. riuscì a bloccare ogni tentativo di risollevare le sorti del patto e fece passare un progetto di riordinamento organizzativo che, richiamandosi alle idealità mazziniane, in specie quelle di natura economica e sociale, si proponeva la ricostituzione del Partito repubblicano d'Italia.
Il congresso affidò, pertanto, alla Consociazione e al suo segretario il compito di riannodare le fila delle varie organizzazioni repubblicane italiane: compito che fu assolto con impegno e che si concretizzò, il 21 apr. 1895, nella costituzione del Partito repubblicano italiano (PRI), la cui guida, fino al congresso nazionale di Firenze del maggio 1897, restò al Gaudenzi. Egli, e con lui la Consociazione romagnola, dette un forte impulso allo sviluppo e al radicamento del PRI attraverso un'intensa attività propagandistica; in questo periodo, si pubblicò a Forlì anche l'organo ufficiale del partito, Il Pensiero romagnolo, fondato dal G. nell'agosto 1894 dopo la scomparsa de La Romagna.
A questo periodico, peraltro, egli restò legato quasi tutta la vita, ricoprendovi le mansioni di direttore, amministratore e redattore (si firmava Miles, Fantasio, Vir). Sulle sue pagine e in altri interventi avversò fieramente la politica repressiva di F. Crispi nei confronti delle opposizioni, condannò l'avventura coloniale e sostenne la necessità, adesso che i repubblicani avevano rigorosamente definito le loro posizioni, di una alleanza con gli altri partiti popolari nelle comuni lotte politiche e amministrative. Contrario tuttavia alle candidature di protesta, nel 1897 si battè invano contro quella di A. Cipriani, presentata dai socialisti nel collegio di Forlì e sostenuta anche dai repubblicani.
Fin dal 1895 il G. era stato eletto, all'interno della lista concordata fra i comitati popolari, nel Consiglio comunale di Forlì, dove si limitò a svolgere un ruolo di opposizione nei confronti delle giunte di matrice radicalmoderata che furono alla guida dell'amministrazione locale in questi anni. Rieletto nel 1898, dopo i disordini del maggio, gli arresti, e la crisi che seguì lo scioglimento di tutte le organizzazioni di estrema sinistra, ebbe un ruolo decisivo nella successiva ricostituzione del PRI.
Rimasto fra i pochi dirigenti in libertà, oppure non costretti a rifugiarsi all'estero, riprese immediatamente le redini del partito, la cui sede centrale fu nuovamente trasferita da Milano a Forlì (dove il Pensiero romagnolo tornò a ricoprire la funzione di portavoce ufficiale e uscì anche in una edizione nazionale con il sottotitolo de Il Popolo sovrano).
Nel settembre 1899, perdurando l'impossibilità di tenerlo in Italia, il G. convocò a Lugano il III Congresso nazionale del PRI. In tale occasione fu deciso, fra l'altro, di trasferire definitivamente la direzione a Roma, dove il locale quotidiano L'Italia sarebbe subentrato al Pensiero romagnolo come organo ufficiale. Infine, venne dato mandato al nuovo comitato centrale - del quale il G. non entrò a far parte - di favorire, in occasione delle elezioni, la nascita di alleanze con gli altri partiti popolari.
Convinto assertore di questa strategia, che difese strenuamente anche al congresso delle associazioni repubblicane romagnole del settembre 1900, il G. vedeva l'ingresso nelle amministrazioni comunali come il primo passo verso la conquista dei poteri pubblici. Vinte le residue remore di quei compagni di partito che, restando immutato il regime monarchico e il correlato assetto politico-istituzionale, non volevano addossarsi responsabilità amministrative a livello locale, egli fu tra gli artefici del successo elettorale dell'ottobre 1901 che portò alla nascita, a Forlì, di una giunta di sinistra composta da repubblicani e socialisti. Con la nomina ad assessore, iniziò allora per il G. una lunga carriera di amministratore locale che avrebbe conosciuto fasi alterne e momenti molto significativi.
Da un lato egli fu infatti fra gli ispiratori dell'intenso programma di interventismo comunale che si manifestò attraverso numerose municipalizzazioni, la creazione di nuove infrastrutture, la costruzione di ospedali e case popolari, il sostegno dato alle cooperative e alle istituzioni sindacali. Dall'altro, in veste prima di assessore alle Finanze (1909), poi dal 1910 al 1914 anche in quella di sindaco (o meglio di prosindaco, per non sottostare all'obbligo del giuramento di fedeltà al re), fu chiamato a gestire la difficile fase dell'emergenza finanziaria, della politica di controllo del bilancio e di contenimento delle spese che la dinamica espansiva e la contabilità un po' superficiale del periodo precedente avevano reso indispensabile.
La crescente presenza sulla scena pubblica locale e nazionale gli dischiuse nell'aprile 1904, rimasto vacante il collegio di Forlì, la prospettiva dell'elezione a deputato. Sconfitto per soli 7 voti dal candidato moderato, il marchese A. Albicini, si rifece nelle elezioni del novembre successivo allorché riuscì vittorioso nel turno di ballottaggio anche grazie al decisivo apporto dei voti socialisti.
Confermato anche nelle due legislature successive, sedette alla Camera sui banchi dell'Estrema Sinistra e si distinse per la vivace oratoria e per il sostegno sempre dato alle iniziative di riforma sociale e alle tematiche anticlericali. Alle battaglie parlamentari e nazionali preferì sempre, tuttavia, l'impegno diretto e concreto nella realtà sociale romagnola e soprattutto in quelle campagne forlivesi che furono investite nei primi anni del secolo da frequenti ondate di agitazioni agrarie. Fedele ancora agli ideali di Mazzini, fu tra i più attivi promotori dell'associazionismo operaio, delle strutture cooperativistiche e sindacali, e in specie delle organizzazioni coloniche, che nella zona, visto il particolare assetto della produzione agraria, risultarono composte per lo più da mezzadri e non da braccianti. Si dovette in larga parte a questa sua intensa attività propagandistica e organizzativa se il PRI riuscì a incanalare il consenso del mondo contadino romagnolo e a gettare le basi di un'egemonia sui ceti popolari che né i cattolici né i socialisti sarebbero riusciti per lungo tempo a insidiare. Verso i socialisti, peraltro, l'atteggiamento del G. fu sempre conciliante e improntato alla ricerca di accordi e forme di collaborazione: lo si vide per esempio nel 1908, quando si impegnò perché le organizzazioni sindacali repubblicane aderissero alla Confederazione generale del lavoro e alla Federterra; oppure intorno al 1910, quando cercò di impedire che le divergenze fra repubblicani e socialisti circa la proprietà delle macchine trebbiatrici degenerassero in conflitto aperto.
Nell'autunno del 1911, nella fase di sbandamento ideologico che colpì il movimento repubblicano allo scoppio della guerra di Libia, il G. tornò a ricoprire posizioni di rilievo nella direzione nazionale del PRI; posizioni riconfermate dal congresso di Ancona del 1912, allorché riuscì a far approvare una linea di intransigente anticolonialismo.
Rieletto deputato, sempre nel medesimo collegio, nel 1913 - quando, nelle prime elezioni a suffragio semiuniversale, prevalse nettamente sul socialista B. Mussolini - si trovava a Roma impegnato nei lavori parlamentari allorché la Romagna, nel giugno 1914, fu travolta dall'inebriamento rivoluzionario della "settimana rossa". Di lì a poco, coerentemente con i convincimenti manifestati in passato, aderì solo con estrema riluttanza alla scelta interventista, fatta invece propria, con grande entusiasmo, dal partito repubblicano.
Sebbene condividesse le aspirazioni del movimento irredentista, il G. era, infatti, consapevole della netta contrarietà alla guerra delle masse operaie e contadine romagnole, alle quali era rimasto profondamente legato.
Alla fine della guerra svolse ancora per alcuni anni un ruolo di rilievo nella vita politica locale e nazionale. Sconfitto nelle elezioni politiche del 1919, riassunse in quel medesimo anno la guida del Comune di Forlì, che tenne fino al 30 ott. 1922 quando l'occupazione del municipio da parte dei fascisti gli impose le dimissioni insieme con quelle dell'intera giunta. Fin dall'inizio avversario del fascismo del quale, a differenza di parecchi repubblicani, aveva subito intravisto l'anima conservatrice e reazionaria, il G. nel 1924, dopo il delitto Matteotti, tornò ad assumere la segreteria politica del PRI, che conservò per tutta l'esperienza dell'Aventino e fino all'ultimo congresso del partito, tenutosi nel maggio 1925. Dopo il consolidamento della dittatura fascista si ritirò a vita privata nella capitale.
Morì il 10 luglio 1936 nel suo podere di Pievequinta, nei pressi di Forlì.
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