BELLI, Giuseppe Gioachino
Nacque a Roma il 7 sett. 1791. Il padre, Gaudenzio, di professione computista, apparteneva a famiglia benestante; la madre, Luigia Mazio, a famiglia agiata che "attese sempre ai traffichi di banca" (Mia Vita, scritta in età giovanile e diretta all'amico Filippo Ricci; cfr. Lettere Giornali Zibaldone, pp. 5-22). Ebbe tre fratelli: Carlo, morto a diciotto anni; Flaminia, che nel 1827 vesti l'abito delle adoratrici del SS. Sacramento; il terzo, morto poco dopo la nascita.
D'indole taciturna e riservata, il B. si dette presto a letture disordinate; la curiosità e la sete di sapere lo portavano a interessarsi di ogni cosa, anche nel campo scientifico. Imparò persino a suonare il flauto. Ebbe anche doti di attore sia pur dilettante: il che gli giovò quando dovette recitare i suoi sonetti romaneschi nei salotti degli amici (ne saranno testimoni il Gogol nel salotto della principessa Wolkonski a palazzo Poli, Domenico Gnoli in casa del proprio padre, Giuseppe Verdi in casa Ferretti).
Nel 1798 i genitori avevano ospitato un parente, il generale Gennaro Valentino, fedele suddito del Borbone. La famiglia del B. fu perciò costretta a lasciare la città all'arrivo dei Francesi e a riparare a Napoli. Rientrato il pontefice a Roma, il padre otteneva una lucrosa carica nella darsena di Civitavecchia, ove si trasferì con la moglie e i figli nel marzo 1800. Due anni dopo, accorso tra i galeotti della darsena colpiti da epidemia, moriva in pochi giorni, lasciando nella miseria la famiglia che, tornata a Roma (marzo 1802), abitò in uno stabile di via del Corso (demolito più tardi per l'apertura di via del Parlamento). Nella stessa casa abitava Francesco Spada, il primo tra gli amici del B., epigrafista, erudito e modesto poeta.
Nel 1807 moriva la madre, che si era risposata con tal Michele Mitterpoch, l'anno prima. Gli orfani furono ospitati per breve tempo prima dallo zio paterno Vincenzo, poi da una zia paterna; subirono umiliazioni d'ogni genere finché il B., interrotti gli studi iniziati all'archiginnasio romano, ottenne un posto nella computisteria di casa Rospigliosi, per passare poi in quella degli Spogli ecclesiastici e infine nell'ufficio del demanio, donde uscì nel 1810 con una pensione irrisoria. Seguirono anni di miseria avvilente, di traviamenti, di disavventure: per vivere fu costretto a impartire lezioni di lingua italiana, geografia, matematica. Per due volte trovò alloggio in una stanzetta del convento dei cappuccini presso piazza Barberini, ove divenne amico del futuro cardinale Ludovico Micara; più tardi fu accolto in casa di Filippo Ricci, uno dei suoi più cari amici. Nel 1812-1813, come segretario, alloggiò nella fastosa dimora del principe Stanislao Poniatowski, ma di lì a qualche mese lasciò l'ufficio per dissapori con la concubina del padrone, tale Caterina Beloch. Per sbarcare il lunario si adattò a copiare, su commissione, alcune opere inedite di Bemardino Baldi, conservate nella biblioteca Albani.
Al 1805 risale la prima manifestazione della sua vocazione letteraria, con le ottave La Campagna (Roma, Bibl. Naz. Vitt. Emanuele, ms. 697, 1), un centone di luoghi comuni tradizionali sulla bellezza e i benefici effetti della natura; all'anno seguente risale la Dissertazione intorno la natura e utilità delle voci (ibid., ms. 1232, 1).
È il più antico tra i saggi "scientifici" del B., composti tutti in giovane età, il più interessante anche perché non vi si discorre di scienze naturali ma di problemi linguistici; fu letto, come annota il poeta, alla scuola di logica e metafisica dell'archiginnasio romano nel 1806. Il B. si cimenta con il Saggio sull'origine delle conoscenze umane del Condillac, cercando di penetrarne e chiarirne, attraverso esemplificazioni, quei concetti sul linguaggio che tanto avevano influenzato le teorie linguistiche italiane del Settecento, compresa quella del Cesarotti svolta nel Saggio sulla filosofia delle lingue. Se lo scritto non va più in là d'un volenteroso quanto ingenuo elaborato scolastico, va osservato come il B. sia stato in particolar modo colpito dalla funzione primaria della parola, come prodotto delle facoltà elementari dell'intelletto e strumento di passaggio dalla sensazione alla riflessione. Un attento spirito di osservazione della realtà spinse il B., sin dai primi anni, verso questi interessi. Manifesterà poi sempre viva curiosità per le scoperte e le invenzioni, da quella della macchina a vapore alla fotografia, nonché per i problemi di fisica e di chimica. Le dissertazioni giovanili sullo zolfo, la luce, l'idrogeno e l'acqua, la teoria delle combustioni, i metalli, il diamante (ibid., ms. 1232), non sono che esercitazioni le quali peraltro testimoniano quanto il B. fosse osservatore curioso d'ogni novità, attento a registrarle con lo scrupolo e la serietà del suo temperamento riflessivo.
Il nome del B. cominciò a circolare negli ambienti accademici nel 1807, allorché compose i nove canti - cinque in versi sciolti e gli altri di vario metro - delle Lamentazioni, poemetto che rivela preponderanza di influenze arcadiche.
Nelle Lamentazioni, polimetro in versi sciolti alla maniera del Cesarotti, confluiscono tutti i motivi dell'Arcadia lugubre che ebbe i suoi modelli in Varano e Monti, e dalla quale il B. si libererà più tardi attraverso l'Arcadia giocosa. Sono prime testimonianze di questo suo cambiamento le ottave bernesche La Morte della Morte del 1810 (ibid., ms. 1233, 28), una specie di parodia dell'inferno con la morte finale della Morte stessa; numerosi sonetti in lingua composti tra il 1810 e il '20; le epistole in sciolti o in terzine in cui pone in burletta la vita provinciale delle cittadine e dei paesi marchigiani da lui visitati; le ottave Istoria bellissima di Ernesto ed Alice del 1820 (ibid., ms. 697, 22), dove il poeta-cantastorie imita il linguaggio strampalato della letteratura popolaresca; la novella mondana in settenari Il Festino di Citera del 5 luglio 1825 (ibid., ms. 694, 18); la satira in quinari contro il teatro di moda del suo tempo Che tempi ! ossia Il Teatro del 15 luglio 1825 (ibid., ms. 694, 19), nella quale egli manifesta tutta la sua simpatia per la commedia dell'arte che "cacciava il ridere / da le budella", vale a dire per il comico elementare e schietto di stampo popolare.
Nel 1812 il B. venne accolto col nome di Tirteo Lacedemonio nell'Accademia degli Elleni. L'Accademia, fondata nel 1805 dal topografo romano Antonio Nibby, ebbe da principio un indirizzo prevalentemente erudito, ma ben presto divenne strumento di influenza e controllo della cultura da parte dell'Impero. Proprio da parte di chi, insofferente della dominazione straniera, desiderava in cuor suo il ritorno del papa, fu promossa la scissione (9 apr. 1813) e poi fondata una nuova accademia, la Tiberina. Ne fu primo presidente lo storiografo, Antonio Coppi; tra i fondatori troviamo, col suo amico Giacomo Ferretti, anche il B., che nel 1818 sarà accolto in Arcadia col nome di Linarco Dirceo.
Le adunanze della Tiberina, specie le solenni, dovevano anche servire a mettere in contatto gli accademici - in gran parte non solo uomini di lettere ma medici, avvocati e funzionari - con la classe dirigente prelatizia e nobilesca. Pur nel dominante conformismo i "frondisti" dell'Impero avevano bene appreso certi metodi per non applicarli nella nuova situazione venutasi a maturare durante la Restaurazione: sicché, accanto a uomini di caute e moderatissime idee liberali, troviamo, tra gli accademici amici del B., rivoluzionari come Pietro Sterbini e Felice Scifoni, ma anche i nomi di don Mauro Cappellari, futuro papa Gregorio XVI, del principe di Metternich e del duca di Ventignano, che dovevano essere una garanzia per il governo temporale. Come testimoniano le memorie dello Scifoni, la fronda continuò per anni e anni nelle riunioni accademiche. Il B., dimessosi nel 1828, tornerà un anno dopo la morte della moglie a far parte dell'Accademia al solo scopo di ricercare appoggi e amicizie influenti che gli potessero assicurare un impiego. Che le acque del mondo accademico romano non fossero proprio stagnanti come da più parti si è affermato, è prova nelle pagine dei Ricordi del d'Azeglio, frequentatore anche dell'ambiente che era stato al centro dello scisma ellenico, pagine nelle quali la società letteraria di Roma è descritta come quella cui il regime napoleonico sembrava aver "fouetté le sang".
Le fatiche letterarie del B. si susseguirono con regolarità e impegno. Al 1807 appartengono la Battaglia Celtica, centone di luoghi comuni ossianeschi sulle orme del Cesarotti, e il Bajazette (ibid., ms. 697, 3); al 1812 le terzine del Convito di Baldassare ultimo Re degli Assirj, piatto poemetto d'influsso montiano in due canti (il secondo incompiuto), e quelle del Diluvio universale. Agli stessi anni risalgono il capitolo in terzine L'Eccidio di Gerusalemme, le ottave La sconfitta de' Madianiti e i Salmi tradotti in versi sciolti (ibid., ms. 697, 4). Tra le prime cose poetiche a stampa furono i tre canti in terzine La Pestilenza stata in Firenze l'anno di nostra salute MCCCXLVIII (De Romanis, Roma 1816). Tra il 1812 e il '14 compose una collana di sonetti "berneschi" dedicati a Francesco Spada, Della Proverbiale (Roma, Bibl. Naz. Vittorio Emanuele, ms. 1233). Nel 1815 e nel '16 pubblicò sulla Biblioteca Teatrale e sulla Galleria Teatrale, dirette da Giacomo Ferretti, tre lavori francesi: il primo non è che un rifacimento d'una farsa di ignoto, I finti commedianti; il secondo, la traduzione d'un patetico dramma di Pelletier-Volméranges, I fratelli alla prova; il terzo, un rifacimento d'una commedia di ignoto, Il tutor pittore. Nel '17 pubblicò il canto in terzine d'ispirazione vagamente dantesca, A Filippo Pistrucci Romano (Salviucci, Roma); nel '18 le ottave al cardinale Alessandro Lante in una miscellanea di "fiori poetici" curata da Giacomo Ricci (De Romanis, Roma); nel '23 i due canti Nella Passione del Signore, il primo in ottave e il secondo in terzine; nel '25 una Canzone composta per le discordie che divisero in due partiti gli accademici della Filarmonica Romana (Nobili, Pesaro).
Tra il 1824 e il '40 circa va posto lo Zibaldone (Roma, Bibl. Naz. Vitt. Eman., ms. 1258), che comprende 4525 voci o "articoli" numerati progressivamente, oltre a un altro cospicuo numero di voci senza numerazione, in undici grossi volumi manoscritti.
Lo Zibaldone riflette gl'interessi culturali e le letture del B., ma è raro trovarvi una osservazione personale, limitandosi egli a trascrivere passi di libri, a sunteggiare articoli e volumi di carattere storico, a compilare indici delle cose notabili in fatto di costumi, etimologie, curiosità erudite. Numerose le citazioni dai classici e la trascrizione di aneddoti, fatti e notiziole lette nei giornali o nelle riviste; i ricordi di viaggi; le schematiche impressioni riportate da visite a mostre d'arte; le statistiche; gli appunti di matematica, fisica, chimica, nonché le descrizioni di nuove scoperte scientifiche. In genere l'interesse del B. si volge alla narrativa edificante, alla poesia didascalica, alla letteratura scientifica e storica, a quella illuministica, anche per il fatto che, almeno inizialmente, il monumentale e farraginoso zibaldone avrebbe dovuto assumere il carattere d'una enciclopedia e servire all'educazione del figlio.
Nell'agosto 1816 il B. entrò nell'ufficio del Bollo e Registro. Il 12 settembre di quell'anno sposò Maria Conti, vedova del conte Giulio Pichi, nata intorno al 1780, appartenente a ricca famiglia originaria di Terni. Dopo le nozze il poeta andò ad abitare in casa dei genitori della sposa, in un lussuoso appartamento di palazzo Poli. Nel '17 visitò Rovigo, Venezia e Ferrara. Avevano inizio i lunghi viaggi estivi del poeta soprattutto per l'Italia centrale e poi settentrionale, che si concludevano verso l'autunno con un lungo soggiomo a Termi, dove egli curava di persona gli affari e gl'interessi della moglie. Mete preferite dei suoi viaggi erano Ripatransone, ospite del letterato Giuseppe Neroni Cancelli, e Morrovalle, dove risiedeva la marchesina, Vincenza Roberti alla quale il B. dedicherà una collana di sonetti, composti probabilmente tra il 1822 e il '24 (cfr. G. G. B., Canzoniere amoroso alla marchesa Vincenza Roberti, integralmente pubblicato a cura e con prefazione di A. Canaletti Gaudenti, Albano Laziale 1930).
Di evidente derivazione petrarchesca, o meglio filtrati attraverso la mediazione dei lirici cinquecenteschi, raziocinanti e discorsivi, questi sonetti in lingua risultano alla lettura stucchevoli e monotoni, benché tra stanche ripetizioni e immagini d'accatto non manchino scenette di sapore realistico che si ricollegano alla costante tendenza del B. a rappresentare le cose viste.
Nel 1823 fu a Napoli, nel '24 a Firenze. Nella prosa incompiuta sul soggiorno fiorentino egli tenterà di descrivere tutto ciò che lo aveva incantato, e di mettere in luce specialmente la rispondenza tra le bellezze della città e la sua florida vita culturale, economica e civile (cfr. G. G. B., Lettere Giornali Zibaldone, pp. 35-44). Nel dicembre del 1826 fu collocato a riposo su sua richiesta dall'ufficio del Bollo e Registro. Il 1827 fu un anno decisivo per il poeta: partito da Roma, giunse il 12 agosto a Milano. Visitò la città e i dintorni in compagnia dell'amico milanese Giacomo Moraglia, noto architetto, lesse e s'entusiasmò per le poesie di Carlo Porta.
Decisivo fu l'incontro con la poesia del Porta, cioè di colui che per il B. rappresentava il maestro di realismo non solo nell'adozione del dialetto, pari in valore a qualsiasi altro idioma, ma anche nella tematica antiaristocratica e anticlericale, nonché nel riconoscimento di una profonda serietà artistica della poesia comica, al di sopra del giocoso tradizionale confinato sino allora tra i generi minori. Dalla lettura del Porta, che il B. comprese con l'aiuto degli amici milanesi, specialmente del Moraglia, egli trasse l'idea di comporre un poema dedicato alla plebe di Roma.
A Milano, per il tramite del Moraglia, conobbe pittori, artisti ed eruditi come Girolamo Luigi Calvi, Giovanni Labus, Carlo de Paris, Giovanni Edoardo de Pecis, Giuseppe Longhi, Pelagio Pelagi, Giuseppe Molteni, Agostino Comerio, Giovanni Aldini, Pompeo Marchesi; si recò all'atelier di Francesco Hayez, conosciuto a Roma; occupò le giornate dei tre soggiorni milanesi a visitare musei, gallerie, teatri, monumenti e chiese; lesse, oltre al Porta, Tommaso Grossi; si recò infine due volte in casa di Adelaide Bono Cairoli malata.
Tornò a Milano anche nei due anni seguenti (cfr. Journal du Voyage de 1827, Journal du Voyage de 1828, Journal du Voyage de 1829, scritti parte in un francese approssimativo e parte in italiano, in Lettere Giornali Zibaldone, pp. 52-106).
Nel carnevale del 1828, travestitosi da ciarlatano, recitò in pubblico una sua strampalata ed estrosa filastrocca intitolata Ciarlatano, nella quale il cerretano Gambalunga enumera i prodigiosi miracoli operati da un suo magico farmaco che guariva ogni sorta di malanni. Alla cicalata, che forse ispirò al Donizetti il celebre recitativo del dottor Dulcamara nel Don Pasquale, seguì l'umoristico elenco di ricette e rimedi per ogni specie di malattia fisica e spirituale (Ricette per mascherata da medico o ciarlatano). Soprattutto nel finale del Ciarlatano la fantasia del B. esplode in una girandola d'immagini e d'invenzioni, degne dell'estro d'un Bruno o d'un Aretino. Paradossale diceria settecentesca infarcita di strafalcioni di lingua e di scienza, composta solo per dar spettacolo e per divertire, questa prosa è ben superiore per compattezza e inventività a una commedia di quell'anno, Lo Androtomofilo, satira farsesca in cui il protagonista, il medico Messer Ruguma, è fatto oggetto delle beffe piuttosto insipide da parte della sua "ancilla" e della figlia. Il B. finge che sia opera nientedimeno di Aristofane, "translata" da un immaginario "Franco Laurentii" e ricopiata da lui il 19 maggio 1828 (Roma, Bibl. Naz. Vitt. Eman., ms. 1232).
In questi anni ha inizio per il B., dapprima timidamente, il tirocinio poetico nel dialetto romanesco. Già qualche suo sporadico tentativo risaliva a periodi anteriori: le ottave romanesche dirette alla madre di Francesco Spada, Caterina Biagioni, del 23 febbr. 1817; il sonetto Lustrissimi: co' questo mormoriale degli anni 1818-1819; il sonetto A Pippo De R...del 1820; i due composti per nozze Turpini-Longhi del 1827; ecc.
Con il sonetto Pio VIII del 1º apr. 1829 ha il suo incipit, dice il Vigolo, la "commedia umana" del Belli. Con il 1830 il poeta, preso da una specie di sacro furore, comincia a comporre centinaia e centinaia di sonetti romaneschi, che raggiungeranno, con l'ultimo del 21 febbr. 1849, il cospicuo numero di 2280. In essi il B., come dichiara nell'introduzione del 1831, ha voluto rappresentare il quadro della vita morale e civile della plebe romana del tempo, prendendone in prestito la lingua.
Il B. impone a se stesso, sin dall'inizio, una scrupolosa fedeltà alla schietta parlata degli infimi e alla forma chiusa del sonetto. I principi romantici hanno certamente influito sulla poetica belliana del vero e sul concetto d'una poesia popolare oggettiva, ispirata dalla vita quotidiana e perciò interessante per tutti. Il carattere di giornale, che raccoglie fatti e avvenimenti del giorno, è presente in parte del poema romanesco, e diviene, predominante nella produzione poetica in lingua. L'ambiente dei più bassi strati sociali, con il parlare sboccato, le miserie morali e materiali, i bisogni elementari, l'ignoranza, la superstizione, attrae il poeta perché rappresenta l'antitesi netta di quello in cui egli vive. Lo infastidiscono le ipocrisie e i falsi rapporti sociali, mentre la simpatia va tutta al mondo primitivo della plebe, sebbene non ne nasconda i difetti. Il mondo del volgo romano sembra come immerso in un'aura d'incantesimo magico, in attesa della rovina imminente. Lo sfondo favoloso creato dall'immaginazione popolare, la presenza e l'angoscia della morte e del mistero che ci circonda, sono motivi romantici che il B. fa suoi perché congeniali al suo temperamento. Dietro la descrizione d'una società arida ed egoista, e quella dei vizi e delle colpe dell'uomo, affiora in questa poesia una decisa esigenza moralistica: l'aggressivo sarcasmo, la rivolta aperta contro la finzione, l'inattesa affermazione di principi morali, la denuncia della menzogna che pare regolare la vita terrena, ne sono gli indizi. Nel poema romanesco sono sfiorati tutti i motivi e le tonalità, dalla elementare comicità schietta e spontanea, dalla satira carica di fiele, dall'invettiva amara contro persone e istituzioni, alla risata sfrenata, al sarcasmo cupo, al dramma e alla elegia, infine alla rappresentazione trepida e insolitamente raccolta. Giustamente la critica più recente ha additato nel B. uno dei maggiori poeti dell'Ottocento europeo, precorritore persino di fermenti e idee che troveranno una soluzione artistica nella seconda metà del secolo.
Nel primo Ottocento il dialetto della plebe romana non aveva alcun precedente letterario né prossimo né remoto, in quanto non si possono ritenere tali i letteratissimi poemi eroicomici in dialetto del Seicento, né l'arcadica e stucchevole poesia del Micheli, né i tentativi sporadici, in un vemacolo approssimativo, di Giovanni Giraud. Nella introduzione al corpus dei sonetti - scritta agli inizi del periodo più fecondo dell'attività poetica in dialetto - il B. espone i motivi che lo avrebbero indotto a lasciare un "monumento" di quello che era al suo tempo il volgo della sua "Romaccia", vissuto ai margini della civiltà e perciò "spontaneo", "vivo" ed "energico" in ogni sua manifestazione di vita. Al B. piace innanzi tutto la sincerità dei modi, delle abitudini, dei "lumi" (termine significativamente settecentesco) e del linguaggio dei suoi popolani proprio perché quella schiettezza estrema stava a rappresentare l'antitesi violenta d'una società fondata sull'ipocrisia e l'artificio. Il primitivo proponimento del B. era stato quello del linguista, che aveva come scopo il ricavare "una regola dal caso e una grammatica dall'uso" studiando le origini e gli sviluppi storici della favella d'un popolo per poi riprodurla "senza omamento, senza alterazione veruna, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza". Al senso della prospettiva storica quindi s'accoppia in lui il rispetto assoluto per lo strumento espressivo scelto, il romanesco, che però non sarebbe un dialetto tra gli altri, ma una lingua - "una favella tutta guasta e corrotta", "una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca" - deformazione e corruzione dell'antica parlata latina, di limitate possibilità espressive e sintattiche, destinata a scomparire se non interviene il poeta a darle una durevole fisionomia, a farne strumento d'arte. Senonché il B. non è un pedissequo ripetitore della parlata plebea della sua città né si limita a riprodurla fedelmente come era nelle sue intenzioni, ma al contrario interviene, se con chiara coscienza o meno resta difficile dirlo, nel fatto linguistico. Usa termini e locuzioni di sua invenzione che hanno un preciso carattere funzionale; non disdegna di adoperare, se artisticamente necessari, arcaismi tratti dal Berneri e dal Peresio, espressioni gergali e furbesche, vocaboli dotti che serbano il loro pregnante valore etimologico. E non esita talvolta a dare ad alcune voci un diverso valore e una diversa funzione semantico-espressiva.
Sono note le premure e le cure costanti che il B. ebbe sempre per l'educazione prima, per l'avvenire poi del figlio Ciro, nato nel 1824. Accompagnatolo al Collegio Pio o della Sapienza in Perugia nel 1832, ogni anno il B. lo andrà a visitare per seguirne i progressi negli studi, come è testimoniato nelle numerose lettere alla moglie di quegli anni. Nel '34 il B. riprese a frequentare con assiduità l'ambiente teatrale romano, scrivendo sonetti e capitoli per attori, cantanti e autori. Sino al '36 collaborò al quindicinale romano Lo Spigolatore, diretto da Giacomo Ferretti, con poesie, prose, recensioni, cronache teatrali. Tra le altre, la Vita di Polifemo, Un pensiero a Bellini, Una buona notizia e Quattro e quattro, otto (le ultime due composte in occasione del ritorno a Roma della poetessa estemporanea Rosa Taddei Mozzidolfi). Nel giornale infine appaiono gli scritti entusiastici per l'attrice di prosa Amalia Bettini, cui il B. fu legato da una devota e amorosa amicizia: ne sono prova i numerosi sonetti italiani e romaneschi a lei diretti e il fitto carteggio (cfr. G. G. B., Lettere Giornali Zibaldone, pp. 309-359).
La Vita di Polifemo è uno scherzo ricco di estro e d'inventiva, un colorito divertissement nel quale il B. fa sfoggio della sua erudizione non senza però una punta di sottile ironia specialmente laddove discorre con tono, solo in apparenza serio, di bizzarre e inverosimili etimologie. Non vi mancano frecciate satiriche contro certe mode e la parodia dei metodi pedagogici e del teatro del tempo. Il racconto rivela il gusto per un linguaggio composito, sapiente impasto di arcaismi, di costrutti e termini dotti, di dialettalismi. Scritto in tempi diversi per mantenere l'impegno preso con il periodico che pubblicava le singole puntate, il racconto non ha carattere unitario e ogni capitolo sta a sé, presentandosi come una variazione su tema obbligato, oscillante tra il tono fiabesco e il realistico, tra il caricaturale e il grottesco, tra la parodia sorridente e la satira sferzante.
Durante una sua permanenza a Perugia presso il figlio, il B. apprese la notizia della grave malattia della moglie, che morì il 2 luglio 1837 senza che egli l'avesse potuta assistere. Si trovò a dover fronteggiare una situazione economica criticissima perché l'eredità della moglie risultava gravata da debiti e ipoteche. Lasciato il ricco appartamento di palazzo Poli, il B. andò ospite in casa dei parenti Mazio, in via Monte della Farina. L'anno appresso rientrò alla Tiberina, da cui s'era allontanato dieci anni prima. Nel 1839, a spese di monsignor Vincenzo Tizzani e a cura di amici, vide la luce la prima raccolta a stampa di componimenti poetici in lingua del B.: Versi di G. G. B. Romano, Salviucci, Roma 1839. Tornò di nuovo a dare ripetizioni private, a copiare e curare un'opera in corso di stampa, probabilmente il Thesaurus historiae ecclesiasticae del Tizzani, ricavandone un piccolo compenso, e a esercitare l'ufficio di segretario della Tiberina. Nel 1941 entrò come collaboratore presso l'ufficio di corrispondenza al dicastero del Debito Pubblico e vi rimase tre anni. Nel '43 alcuni amici provvidero alla stampa d'una seconda raccolta di componimenti poetici in lingua di vario metro: Versi inediti di G. G. B. Romano, Giusti, Lucca 1843. Nel '46 il B. passò dei mesi interi al capezzale del figlio gravemente malato. Le rivoluzioni del '48, gli avvenimenti romani del novembre di quell'anno, l'assassinio di Pellegrino Rossi, il sangue, sparso nella difesa della Repubblica romana, contribuirono in parte a irrigidire e far prevalere gli orientamenti conservatori che nel B. coesistevano con altre e diverse opinioni. Aveva sempre avversato la violenza, vagheggiando negli anni giovanili e nella maturità l'indipendenza del paese, ma sotto la guida temporale del papa; aspirava a veder attuate riforme sociali, ma dall'alto e gradualmente, e senza peraltro l'intervento e l'imposizione della piazza. È perciò naturale l'atteggiamento assunto nei confronti d'una rivoluzione che aveva come fine il rovesciamento dell'autorità legittima.
Nella primavera del '49 il B. s'affrettò così a dare il suo consenso alle nozze del figlio con Cristina Ferretti, perché potesse essere congedato in virtù d'una legge repubblicana che decretava la mobilitazione parziale della guardia civica, con esclusione dei soli ammogliati.
Non è facile tracciare un quadro lineare delle idee politiche del B., non solo perché egli non ha mai chiaramente manifestato le sue opinioni al proposito nelle lettere, nello Zibaldone e, tanto meno, nella poesia, ma anche perché in lui sono coesistiti sentimenti e orientamenti politici contraddittori. È vero che nel periodo più poeticamente fecondo della sua vita, tra il 1830 e il '37 circa, egli sembra accostarsi sentimentalmente ai moti insurrezionali europei, mostrando qualche viva simpatia per le nazioni oppresse e attento interesse ai fatti di Francia. Senonché, sostanzialmente uomo d'ordine e amante della pace e della quiete familiare, perché nemico della violenza e delle angherie, rimase in sostanza sempre fedele al trono e all'altare, quantunque non disdegnasse a un tempo di porgere l'orecchio alle nuove voci di libertà e di progresso sociale che d'ogni parte d'Europa giungevano anche nella Roma papale. È significativo a tal riguardo il sonetto in lingua La libertà del 25 febbr. 1839, composto per il figlio Ciro, che si conclude polemicamente con l'affermazione che il mondo smarrito dietro l'errore deve sapere che la "soave libertà" "figlia de la Croce" in quanto col Cristo la "condusse in terra / quando affrancò il suo codice d'amore / gli schiavi de la pace e de la guerra" - va ricercata soltanto "nel Sangue del Signore". Tale concezione è totalmente subordinata a presupposti religiosi, ma non vi manca quel sentimento largamente umanitario, fondamentale nel B., per cui la libertà non si conquista mai con lo spargimento di sangue e l'imposizione violenta. Il suo animo era certamente combattuto tra le tendenze liberali e progressiste e la sua condizione di onesto suddito dello Stato pontificio, che desiderava non tanto la fine d'un regime per tanti aspetti anacronistico, quanto un suo radicale rinnovamento morale e sociale. Su questo tormentato atteggiamento ebbero una forte influenza non solo seri scrupoli religiosi, ma anche lo schietto sentimento di lealtà verso quel regime. L'impostazione data alla sua opera in dialetto nella Introduzione, che risale al 1831, è di natura moralistica perché l'ideale cui il poeta rimase sempre coerentemente fedele è la "Santa Verità", che per lui è tutt'uno con la ragione, l'onestà e la giustizia.
Epistole ed altre rime è il titolo di una nuova raccolta di versi italiani del B. che avrebbe dovuto veder la luce nel 1852, se non fosse intervenuta la censura ecclesiastica a vietarne la stampa. La prefazione era stata scritta da Francesco Orioli. Questi versi saranno poi pubblicati, con 876 sonetti romaneschi, in Poesie inedite di G. G. B. Romano, Salviucci, Roma 1865-1866 (5 voll.). Tra il '52 e il '53 il B. ebbe la carica di censore per la morale politica: in tale veste espresse giudizi su melodrammi di Verdi e di Rossini, tragedie di Shakespeare, commedie di Scribe (cfr. G. G. B., Lettere Giornali Zibaldone, pp. 399-417). Nel '53 pubblicò per il Salviucci le Litanie della Vergine in terza rima, da lui volgarizzate e in seguito musicate dal marchese Domenico Capranica; tre anni dopo la traduzione degli Inni ecclesiastici secondo l'ordine del Breviario romano, a spese dell'erario e con dedica a Pio IX. Negli ultimi anni di vita, lasciato da parte il dialetto, continuò a poetare in lingua: nel 1852 portò a termine dodici epistole moraleggianti in terza rima, indirizzandole a scienziati e letterati suoi amici. Tra il '51 e il '59 il B. compose un ragguardevole numero di sonetti, ottave, sermoni, capitoli in terzine, che verranno in gran parte accolti nell'edizione postuma del 1865-1866. Morti in tenerissima età tre nipotini, perduta la nuora nell'ottobre 1859, colpito da vari malanni, il B. si chiuse sempre più nella sua cupa e desolata misantropia. Era nato per vivere nella quiete del focolare domestico, accanto ai famigliari e a pochi amici fedeli che avessero con lui comunanza d'affetti e d'ideali, in compagnia dei libri, lontano dal tumulto della vita pubblica. Le disavventure della prima giovinezza, la miseria patita da ragazzo, la perdita in tenera età del padre e della madre idolatrata, la morte della moglie, la morte nella vecchiaia dei nipoti, della nuora, degli amici, contribuirono in larga misura a render più aspro e pungente il suo carattere, già incline per natura alla melanconia tetra e al pessimismo.
Il B. morì d'apoplessia il 21 dic. 1863.
Dopo i riconoscimenti della grandezza del B. "dialettale" da parte del Gogol e del Sainte-Beuve (cfr. Sainte-Beuve, Premiers Lundis, Paris 1884, III, p. 25; E. Colombi, Zenaide Wolkonski e palazzo Poli, in Orazio, Diario di Roma, VI [1956], pp. 33-36; D. Borghese, Gogol a Roma, Firenze 1957, pp. 127 s.; G. Orioli, Gogol a Roma, in Idea, Roma, XIII [1957], pp. 2-3), la critica tacque per decenni, finché il padre Daniele Olckers compilò una grammatica del dialetto romanesco, destinata al ginnasio Massimiliano di Monaco, giovandosi in particolare di alcuni sonetti belliani (Alcune poesie in dialetto romanesco di G. G. B. scelte ed illustrate dal P. D. Olckers o.s.b., Monaco 1878). Seguirono saggi assai importanti di filologi tedeschi (H. Schuchardt, P. Heyse, J. Schumann, K. Vossler), svizzeri (E. Bovet), francesi (E. Haguenin), mentre in Italia - nonostante gli studi per molti aspetti pregevoli di L. Morandi, D. Gnoli, D. Silvagni e più tardi di A. Momigliano, P. Spezi e altri - la poesia del B. tardò a imporsi per vari motivi. A una più larga, concorde e attenta popolarità di questa poesia nel mondo della cultura italiana nuoceva in primo luogo il dialetto non facile, appesantito dalla scrittura adottata dallo stesso poeta per renderne graficamente la pronuncia; e poi - nonostante le polemiche romantiche sulla libertà dell'artista creatore del suo linguaggio contro il canone classicistico d'una lingua tradizionale alla quale invece quell'artista dovrebbe rimanere fedele - era ancor vivo in Italia il pregiudizio sull'appartenenza della poesia in vernacolo a un genere minore, considerata per questa ragione tutt'al più quale passatempo e distrazione e quindi non degna di critico interesse. Un altro e ben più grave impedimento per un'analisi spregiudicata e nello stesso tempo per una valutazione in sede estetica della poesia belliana era rappresentato dall'opposizione decisa di strati sociali particolarmente timorosi, che condannavano l'oscenità di parecchi sonetti, l'abuso delle "care parolacce", la violenza dell'invettiva antipapale, la visione desolante e cruda d'un mondo diviso nettamente tra i due "generi umani", quello dei ricchi dominatori e sopraffattori e quello dei poveri e reietti. Bisogna risalire agli anni tra le due ultime guerre per trovare in Italia i primi riconoscimenti della grandezza del B. da parte degli uomini di cultura; il merito principale va a G. Vigolo. La storia della critica belliana si è notevolmente arricchita negli anni del secondo dopoguerra, sino alla monografia di C. Muscetta, che per la prima volta ha studiato la cultura del poeta in rapporto con l'opera maggiore, e al volume Studi belliani, comprendenti gli atti del I Convegno di studi belliani, Roma 1965 (si veda per il capitolo sulla storia della fortuna del B.: L. Jannattoni, Lungo cammino della fama di G. G. B., in Studi romani, VII[1957], pp. 451-459, poi con varianti ne Il 'primo' Belli, Roma 1959, pp. 83-101; G. Orioli, Asterischi bibliografici belliani, in Strenna dei Romanisti, Roma 1960, pp. 115-126; Id., G. G. B., in Letteratura Italiana. I Minori, Milano 1961, III, pp. 2456-2466; Id., B. e i suoi critici, in Studi romani, XII [1962], pp. 549-561; L. Jannattoni, Da Gogol a Joyce, fama europea del B., in Letteratura, Roma, XI [1963], pp. 6-13).
Scritti: Una prima sistemazione dei manoscritti del B. fu curata, dopo la morte, dal figlio Ciro, dal cognato di questo Luigi Ferretti, da mons. Vincenzo Tizzani e da Francesco Spada. Alla morte di Ciro, le carte belliane insieme con gli autografi dei sonetti romaneschi furono prese in consegna da Luigi Ferretti, tutore degli orfani di Ciro, e a questi passarono dopo che raggiunsero la maggiore età. A Maria Teresa Belli, sposatasi più tardi con Giuseppe Jarini, toccarono le lettere di carattere più strettamente familiare; il resto andò a Giacomo Belli, che cedette quasi tutte le carte del nonno nel gennaio 1898 alla Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele di Roma, conservandone solo una minima parte per sé e donandone alcune a Luigi Morandi. Il fondo della Vittorio Emanuele comprende oltre cinquemila fogli, in quarantatré gruppi di manoscritti e più di mille lettere, duecento delle quali del Belli. Oltre al lascito di Giacomo Belli, questo fondo venne via via arricchito da altri acquisti (dai centoventuno sonetti romaneschi ritrovati da Pio Spezi tra le carte del Tizzani a S. Pietro in Vincoli, al centinaio di autografi ceduti dal Museo Centrale del Risorgimento di Roma, che li aveva acquistati dal libraio antiquario Nardecchia). Al lavoro di riordinamento procedette dal 1938 Egle Colombi, che sistemò e raggruppò le carte in quaranta segnature. Guglielmo Janni, pronipote del poeta, con testamento del 4 sett. 1953, lasciò alla Biblioteca Vaticana tutte le lettere autografe del B., e di altri a lui, in suo possesso, nonché i propri appunti e studi belliani o d'altra specie (lo Janni morì nel 1958, ma le carte pervennero alla Vaticana solo nel 1961). Altri manoscritti belliani trovansi nell'Archivio dei canonici regolari lateranensi della basilica di S. Pietro in Vincoli (settantanove lettere del B. al Tizzani, pubblicate da E. Colombi, in Nuova Antologia, ottobre-novembre-dicembre 1963, pp. 145176, 353-384, 495-512), nella Biblioteca Oliveriana di Pesaro, nella Biblioteca Federiciana di Fano, nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, nella Biblioteca Comunale di Lugo, nella Biblioteca Angelica di Roma, al Museo di Roma, nella Biblioteca Comunale Augusta di Perugia, nella Biblioteca A. Saffi di Forlì (raccolta Piancastelli), nella Biblioteca Comunale Mozzi-Borgetti di Macerata, nella Biblioteca Comunale Passionei di Fossombrone, nella Biblioteca Comunale dell'Archiginnasio di Bologna, nella Biblioteca Palatina di Parma. Altri autografi sono proprietà di privati (raccolte Ferretti, Spada, Ceccarius, Marolla).
Non esiste finora una storia del testo dei sonetti romaneschi, ma solo contributi parziali, con ricca documentazione. Segnaliamo in particolare la presentazione di E. Vergara Caffarelli a Li morti de Roma di G. G. B., Milano 1949, pp. 9-69; L. Silori, Le edizioni dei sonetti di G. B., in Belfagor, VIII (1953), pp. 394-423.
Edizioni: I sonetti romaneschi di G. G. B., a cura di L. Morandi, Città di Castello 1886-1889 (6 voll.); Sonetti, a cura di G. Vigolo, Milano 1952 (3 voll.); Lo "Zibaldone", a cura di G. Orioli, Firenze 1960; Le Lettere, a cura di G. Spagnoletti, Milano 1961; Lettere Giornali Zibaldone, a cura di G. Orioli, Torino 1962; Tutti i sonetti romaneschi di G. G. B., ordinati e commentati da R. Vighi, Firenze 1962 (l'opera consterà di 7 voll., di cui sono usciti i primi due); Tutti i sonetti romaneschi, a cura di B. Cagli, Roma 1964-65 (l'opera consterà di 5 voll., di cui sono usciti i primi tre); I sonetti, a cura di M. T. Lanza, pref. di C. Muscetta, Milano 1965 (4 voll).
Tra le numerose antologie belliane segnaliamo: Sonetti satirici, a cura di L. Morandi, Sanseverino Marche 1860; Duecento sonetti, a cura di L. Morandi, Firenze 1870; Sonetti scelti di G. G. B., a cura di L. Morandi, Città di Castello 1911; G. G. B., Sonetti romaneschi, a cura di G.Vigolo, Roma 1930-1931 (2 voll.); G. G. B., Er Commedione, a cura di A. Baldini, Roma 1944; G. G. B., Cento sonetti, a cura di A. Moravia, Milano 1944; G. G. B., Li morti de Roma, a cura di E. Vergara Caffarelli, Milano 1949; G. G. B., Er giorno der giudizzio e altri 200 sonetti, a cura di G. Vigolo, Milano 1957; R. Vighi, Roma del B., Roma 1963; Sonetti romaneschi di G. G. B., a cura di R. Vighi, Firenze 1963; G. G. B., Poesie e prose, a cura di G. Orioli, Bologna 1964.
Fonti e Bibl.: Roma, Bibl. Naz. Vitt. Emanuele II, ms. 92, II, F. Spada, Alcune notizie da servire di materiali all'elogio stor. che scriverà del fu G. G. B. l'avv. Paolo Tarnassi (v. Lettere Giornali Zibaldone, pp. 583-600); P. Tarnassi, Elogio stor. di G. G. B., Roma 1864; H. Schuchardt, G. G. B. und die römische Satire, in Beilage zur allgemeinen Zeitung, Augsburg, nn. 164-167, 1871 (poi in Romanisches und keltisches-gesammelte Aufsätze, Berlin 1886, pp.150-179); Alcune poesie in dialetto romanesco di G. G. B. scelte ed illustrate dal P. D. Olckers o.s.b., Monaco 1878; V. Imbriani, Appunti critici, Napoli 1878, pp. 1251-60; D. Gnoli, Il poeta romanesco G. G. B. ed i suoi scritti inediti, in Nuova Antologia, XXXVI, 1877, pp. 785-807; XXXVII, 1878, I, pp. 29-57; II, pp. 454-499 (poi con correzioni e aggiunte in Studi letterari, Bologna 1883, pp. 3-175; e in miscell. G. G. B., Roma 1942, pp. 13-82, con note e integr. di L. De Gregori e E. Colombi); P. Heyse, G. G. B., ein römischer Dialektdichter, in Deutsche Rundschau, Berlin, XVII (1878), pp. 136-160; G. Zaccagnini, G. G. B. poeta romanesco, in Vite di Romani illustri, Roma 1891, IV, pp.207-264; Bibl. di G. G. B. compilata da G. Fumagalli, ibid., IV, pp. 267-284; P. Heyse, G. G. B. noch einmal, in Deutsche Rundschau, Berlin, LXXVI (1893), pp. 348-366; E. Bovet, Le peuple de Rome vers 1840 d'après les sonnets en dialecte transtévérin de G. G. B., Rome 1898; E. Haguenin, Un poète romain: B., in Revue des deux mondes, 1º apr. 1902, pp. 674-708; A. Zacher, Narrenspiegel der ewigen Stadt. Ausgewählte Lieder und Satiren von G. G. B., Leipzig 1906; A. Momigliano, Goldoni, Porta, Manzoni, B., in Il Marzocco, XII (1907) (poi in Saggi goldoniani, Venezia-Roma 1959, pp. 107-109); K. Vossler, Letteratura ital. contemp. dal Romanticismo al Futurismo, trad. di T. Gnoli, Napoli 1916, pp. 90-93; G. Vigolo, La poesia di G. G. B., in Il Mondo, Roma, 1º febbr. 1924; P. Orano, I Moderni, Milano 1926, V, pp. 1-37; F. Hayward, Le dernier siècle de la Rome pontificale, Paris 1928, pp. 174-215; A. Baccelli, Da Virgilio al Futurismo, Milano 1931, pp. 267-306; M. Camugli, Les événements de la monarchie de Juillet et leurs répercussions italiennes, vus à travers les sonnets de G. G. B., in Revue des études italiennes, I (1936), pp. 342-357; Mostra di manoscritti e lettere autografe di G. G. B. nel 150º anniversario della sua nascita (catal.), a cura di E. Colombi, Roma 1941; S. Negro, B. maggiore, in La Lettura, XLI (1941), pp. 1129-1136 (poi con qualche variante in Seconda Roma, Milano 1943, pp. 239-248 e 449-451); G. G. B. (miscellanea), Roma 1942; S. D'Amico, Tragedia di G. B., in Bocca della verità, Brescia 1943, pp. 1961; R. De Mattei, Cronista dei romani: G. G. B., in Ritratti di antenati, Firenze 1944; C. E. Gadda, Arte del B., in Poesia, I (1945), pp. 60-68; A. Momigliano, Introduzione ai poeti, Roma 1946, pp. 205 ss.; L. Cecchini, B. e il teatro, in G. G. B. (miscellanea), Roma 1947 (2 ed.); G. G. B. e A. Bettini. Lettere di amorosa amicizia, a cura di P. P. Trompeo, in Nuova Antologia, novembre-dicembre 1948, pp. 221-242 e 333-357; A. Del Monte, Temi interpretativi della poesia del B., in Belfagor, IV (1949), pp. 582-588; L. Jannattoni, G. G. B. Bibliografia dei sonetti romaneschi, Roma 1950; P. P. Trompeo, B. e le donne, in Quaderni A.C.I., I (1950), pp. 23-44; E. Clark. G. G. B.: Roman Poet, in The Kenyon Review, Gambier (Ohio), XIV (1952), pp. 21-39; E. De Michelis, Il dialetto del B., in Rass. di cultura e vita scolastica, VI (1952), pp. 4-5; G. Valentini, I mondi di G. G. B., in Nuova Antologia, maggio 1953, pp. 65-72; G. Orioli, Considerazioni sul mondo poetico belliano, in Studi Romani, I (1953), pp. 521-533; Id., G. G. B., in Arcadia Linarco Dirceo, in Atti e Mem. d. Accad. dell'Arcadia, II, 4 (1954), pp. 222-234; Id., Lo Zibaldone di G. G. B., in Arcadia, s. 3, III (1956), pp. 35-68; L. 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