GIUSTI, Giuseppe
Nacque a Monsummano, presso Pistoia, il 13 maggio 1809 da Domenico, agiato possidente di campagna di recente nobilitato, e da Ester Chiti.
A dodici anni, terminati gli studi elementari sotto la guida di un prete di campagna, cominciò la vita del collegiale: prima a Montecatini, poi all'istituto Zuccagni di Firenze, quindi al seminario di Pistoia e poi ancora al collegio dei nobili a Lucca. Nel novembre 1826 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza a Pisa, ma nel 1829 il padre, scontento della sua condotta, lo richiamò a Pescia, dove la famiglia si era da poco trasferita.
A quel punto i rapporti del G. con il genitore, da lui ritenuto avaro e sospettoso, si erano già deteriorati, tanto che spesso il giovane era dovuto ricorrere alla madre - cui lo legò sempre un vincolo di "amore" e di "gratitudine" (Epistolario, ed. Martini, I, p. 117) - per fare fronte, soprattutto negli anni pisani, alle esigenze di una vita che al padre appariva scriteriata: esemplare, in tal senso, il conflitto scoppiato tra i due nel 1833, quando il G., ancora studente a Pisa, fu coinvolto in una manifestazione politica a teatro e sospeso dall'esame di laurea per il periodo di un anno.
Di Pescia il G. fece un osservatorio dei costumi popolari e contadini toscani. Sapeva che la cittadina era in realtà "un paesucolo al quale era stato dato per corbellatura il nome di città" (ibid., IV, p. 20), dove spesso si sentiva vegetare rispetto a Firenze o a Pisa, legato com'era "alla biada casalinga" (ibid., I, p. 171), ma dove tuttavia poteva realizzare le sue passioni giovanili: la caccia, i cavalli, gli incontri, i giochi (carte e biliardo), gli amori, i balli: "caccia a tutto pasto; un giocare di ganasce continuo; una conversazioncina la sera, di quattro o sei possidentucoli, facendo a strippare un mazzo di carte passate di padre in figlio, al lume di una lucerna da morti, erano le mie dolci occupazioni" (ibid., IV, p. 55). Tra i luoghi deputati per questo tipo di sociabilità, cui il G. si sentiva portato dal fatto di essere "un gran tormentatore di se stesso" e insieme "un gran rallegratore delle brigate" (ibid., II, p. 243), c'era a Pescia il circolo borghese detto delle Stanze.
Non meno gradito gli risultava, però, mescolarsi al popolo, verso il quale egli sentiva un'istintiva simpatia. Una simpatia che gli derivava dal "gusto di linguaiolo, che sentiva nel parlare popolare le scaturigini perenni del linguaggio e molto anche dall'apprezzamento di quella saggezza popolare da lui ricercata e catalogata, nelle sue espressioni, nella Raccolta dei proverbi toscani (Sestan, p. 25); di qui, a fianco alle amicizie colte, anche quelle con persone semplici, come il fornaio Lorenzo Marini, o il calzolaio Benvenuto Chicchi: "Nel sarto, nel calzolaio, nel fornaio, nel contadino […] ritrovo i miei compagni di scuola di una volta e cerco di stare e di scherzare con loro più a lungo che posso, per rifarmi l'orecchio e il palato alle nostre maniere di dire" (Epistolario, I, p. 543).
In questo senso Pescia fu il polo stabile della sua vita sentimentale e familiare, ma dopo la laurea in legge, conseguita a Pisa nel giugno 1834, Firenze, dove si trasferì per far pratica presso uno studio d'avvocato, divenne la città dei suoi interessi letterari e mondani. Quei dieci anni, tra il 1834 e il 1844, li "mise a profitto non già nella carriera forense, bensì in quella di osservatore di costume e di critico della nuova società organizzata nel segno della restaurazione" (Baldacci, 1963, p. 37). Firenze gli fu prodiga di occasioni di svago, in privato e tra gli amici più che nei "divertimenti pubblici pochi e brutti" (Epistolario, I, p. 490).
Curava le amicizie, come quella di C. Bastianelli, di M. Tabarrini e di P. Papini. Frequentava il Gabinetto del ginevrino G.P. Vieusseux e la libreria Piatti. Trascorreva "la sera qua e là per le case di relazione" dove "grazie alle buscherate poetiche" si trovava "bene accolto" (ibid., V, p. 107). "Studio fino alle quattro, poi alla trattoria, in società di giovani allegrissimi; poi mi vesto in gala e vo alla Pergola per i palchi eleganti aristocratici; a mezza sera passo all'Alfieri nei palchi eleganti democratici; oppure ad altri teatri, o ai balli o all'accademie" (ibid., V, p. 77).
A Firenze fin dal 1843 il G. entrò in relazione sempre più stretta con G. Capponi, che lo accolse nella sua casa e offrì al poeta un trampolino di lancio sociale e letterario, tanto più che proprio in quel giro di tempo (1844-45) apparivano le prime stampe delle poesie giustiane.
Il 1843 fu per il G. un anno di svolta per più motivi: prima la perdita dello zio paterno, Giovacchino, a cui era molto legato, ebbe gravi ripercussioni sul suo equilibrio psichico; poi venne l'incidente del gatto, da lui ritenuto idrofobo, ad accentuare i suoi disturbi epatici e intestinali, che col tempo si sommarono al "mal di petto". Al manifestarsi di queste nuove inquietudini fu preso dal desiderio di muoversi oltre i confini della Toscana, di fare amicizie importanti e di far circolare le proprie opere. Dal 1843, infine, era diventato intimo amico di Luisa Maumary, già vedova Blondel, seconda moglie di Massimo Taparelli d'Azeglio, ormai da più anni separata dal marito. Ad ampliare la cerchia delle conoscenze del G. vennero i viaggi fuori della Toscana: a quello compiuto con la madre a Roma e a Napoli all'inizio del 1844, che lo aveva fatto entrare in contatto con A. Poerio, seguì nel 1845, proprio con la d'Azeglio e con Vittorina Manzoni, il viaggio a Milano, dove fu ospite del Manzoni, con il quale era da tempo in rapporti epistolari, e dove entrò in dimestichezza con gli scrittori che a lui facevano capo, in particolare con G. Torti e T. Grossi. Con loro discusse le questioni più vive, come quelle relative alla lingua, ma ciò lo predispose ad andare oltre il piano puramente specialistico, fino a politicizzarsi e a legarsi "al carro dei moderati con i quali la sua iniziale vocazione di poeta (cioè di puro osservatore del costume) non aveva niente in comune" (Baldacci, 1974, p. 65).
Con il favore che ottennero, le poesie satiriche giustiane contribuirono sicuramente a rendere popolare la riforma di Manzoni, che se ne avvantaggiò nel suo sforzo di unificare la lingua italiana. Nel 1846, quando il male, come confidò all'amico L. Capecchi (Epistolario, I, p. 488), lo teneva lontano dallo scrivere "specialmente versi", il G. pubblicò con Le Monnier a Firenze, premettendovi un'ampia prefazione, un'edizione delle opere di Parini (Versi e prose di G. Parini con un discorso di G. G. intorno alla vita e alle opere di lui) che era sua convinzione avrebbe stupito i signori di "scuola" e fatto "strillare classici e romantici", perché egli pensava di scrivere "alla gente che legge guidata dal buon senso", e perché cercava di essere nella prosa "quale si era mostrato nel verso".
Intanto la vita politica registrava la fase che preludeva alle riforme del 1847 ed esaltava l'ispirazione eroico-risorgimentale del G., che si era volto a considerare le deplorevoli condizioni d'Italia, immersa nello squallore e corrotta nello spirito dai "tedeschi", dai "birri", dai "preti", dai "sovrani", ma anche dalla corruzione dei ceti dominanti e dei loro accoliti, pronti a lisciare i perdenti e a salire sul carro dei vincitori di turno; come scrisse ne Lo Stivale, non voleva in Italia stranieri dominanti, né si aspettava salvezza dagli stranieri: "E qualche gamba da gran tempo aspetto / che mi levi di grinza e che mi scuota; / non tedesca, s'intende, né francese; / ma una gamba vorrei del mio paese" (Poesie, ed. Sabbatucci, 1962, I, p. 58). Aveva affermato che dal clero non ci si poteva aspettare che danni: "il più gran male me l'han fatto i preti, / razza maligna e senza discrezione". Così come aveva parlato degli effetti corruttori di Leopoldo II, il "Toscano Morfeo". Eppure ora era pronto a dar credito a Pio IX e Leopoldo II e a sperare nelle riforme per il bene del popolo (A Leopoldo II, in Poesie, II, p. 378). Poco prima aveva pubblicato a Firenze presso i successori della tipografia G. Piatti il ditirambo Il congresso dei birri. A presentare il manoscritto all'esame della censura, troppo severa, secondo il poeta, con chi scriveva in poesia e invece di manica larga con chi scriveva in prosa (Epistolario, III, pp. 7 s.), era stato su suo incarico L. Galeotti. In effetti i censori sapevano bene che le satire in versi si propagavano anche fra il popolo con una velocità e una larghezza incomparabili rispetto alle prose, perché più facilmente ritenute a memoria e, quindi, ripetute di bocca in bocca. Sempre per questo motivo abbondavano le stampe abusive dei suoi versi, tanto che il G., pubblicando una raccolta di Nuovi versi "un po' serotini" (Tip. Baracchi, successore di G. Piatti, Firenze 1847), fu costretto a denunciare l'abuso: "parecchi fra stampatori e librai fecero a confidenza col pubblico e con me, stampando in un fascio roba mia e non mia, lieti di poter accozzare un libro purché fosse e di mandarlo fuori a mio nome o espresso o sottinteso".
Per quanto alieno dall'impegno politico, non poté sfuggire al turbine patriottico che si levava sempre più forte. Nel settembre 1847 entrò a far parte della guardia civica col grado di maggiore e nel giugno 1848 si ritrovò eletto deputato per il collegio della Val di Nievole. Partecipò così alla prima e poi alla seconda legislatura appoggiando i governi moderati di C. Ridolfi e di G. Capponi. "A me" - scrisse poi nella Cronaca dei fatti di Toscana (ed. P. Pancrazi, p. 279) - "per aver dato fuori quelle quattro strofe è toccato fare il maggiore di battaglione, l'accademico della Crusca e il deputato all'assemblea toscana, tutte faccende che mi distolsero da quella che è proprio mia".
I sogni dei moderati, nonché le aspirazioni cattoliche dei neoguelfi, cozzavano con l'esigenza della guerra contro l'Austria e la spinta dei democratici che non si accontentavano delle riforme e deprecavano la mancanza di una mobilitazione nazionale e popolare nella guerra di liberazione.
La situazione precipitò nell'estate del 1848, quando il governo del Capponi, grande amico del G., fu costretto alle dimissioni dall'opposizione democratica, sospinta da G. Montanelli e da F.D. Guerrazzi. Il G., sempre più sofferente per la malattia e sempre più disincantato, si rese conto del precipitare degli eventi, come scrisse a L. Marini nell'aprile 1849: "Tra il Febbraio e il Marzo 1848, tempo di progresso, girava gente tra noi (gente intesa con i rivoluzionari di Parigi) a screditare il governo rappresentativo; e dire che esso non è altro che un freno dato all'entusiasmo dei popoli; che libertà e principato non possono accordarsi tra loro; che i principi avrebbero ritolto con frode ciò che avevano dato per necessità, e così via discorrendo; tantoché fino dal nascere, ci avvelenarono le libertà riaffermate e suscitando la bramosia del meglio, ci fecero non curanti del bene" (Epistolario, III, p. 300).
Il G. era un liberale e un realista; considerava G. Mazzini un teorico e non nutrì mai troppe speranze nell'ideologia giobertiana (cfr. Il papato di prete Pero, in Poesie, I, pp. 313-317). Era molto amico di Montanelli, cui riconosceva il grande merito di aver impedito il ritorno dei gesuiti in Toscana, ma ne dava un giudizio caustico: "Il Montanelli non ha né forte sentire né forte pensare. È uno di quegli animi che si caricano a furia di emozioni cercate, come l'uomo fiacco cerca la forza nel vino e il malinconico l'esilarazione dell'oppio" (Cronaca dei fatti di Toscana, p. 254).
L'ingovernabilità della situazione spinse Leopoldo II a conferire il mandato al Guerrazzi e al Montanelli, che il 27 ott. 1848 si insediarono a palazzo Vecchio. Pressato dalle componenti democratiche che, ancorché minoritarie nel Consiglio generale toscano, mettevano in crisi le istituzioni rappresentative appoggiandosi alle manifestazioni di piazza, il granduca prima abbandonò Firenze, poi fra il 7 e l'8 febbr. 1849 fuggì verso Gaeta. Lo sviluppo di questi eventi e la condotta del Guerrazzi furono rappresentati dal G. a tinte fosche nella Cronaca dei fatti di Toscana e nella prefazione agli Scherzi: "Dall'agosto al novembre 1848 accaddero cose, in Toscana, da rivoltare lo stomaco a chi lo avesse avuto di bronzo. Io che le vidi a nudo in tutta lo loro schifezza, avrei potuto in cinquanta facciate di scritto strappare la maschera dal muso a parecchi che erano portati in palmo di mano da una vera ciurma di bricconi invasati. Sdegnava di tuffare la poesia in questo orribile sterco, per quanto l'avessi tuffata e rituffata in quello dei birri e delle spie; ma ebbi dei momenti nei quali lo sdegno ne poté più del disprezzo e della dignità, e non potei fare a meno di sciupare questi poveri versi nell'infamia di quattro o sei furfanti che contaminavano il paese" (Poesie, I, p. 13).
Detestando la violenza e la demagogia, si rifugiava sempre più spesso a Montecatini Alto o a Pescia. Intanto i giornali democratici lo attaccavano incessantemente e il Calabrone - un giornale satirico livornese ispirato dal Guerrazzi - il 16 ott. 1848 scriveva che "il poeta del popolo [era] morto". Quando si accorse che persino la libertà di stampa era diventata scomoda per i democratici al governo e che il Guerrazzi non sopportava le satire della Vespa e dello Stenterello, il G. ne prese le difese e scrisse a L. Guidi-Rontani, prefetto di Firenze e seguace del livornese, che chi aveva sopportato il Popolano, il Calabrone e il Corriere livornese doveva sopportare la Vespa e lo Stenterello (Epistolario, III, p. 272).
Nella Cronaca sottolineò il doppio gioco politico del Guerrazzi, che da un lato si teneva a galla grazie alla piazza, peraltro temendola, ma dall'altro cercava il compromesso con i moderati per tentare di salvare prima di tutto se stesso. Ideata già nel '48, ma conclusa tra il '49 e i primi mesi del '50, la Cronaca dei fatti di Toscana è anche una gustosa galleria di personaggi e ambienti, tratteggiati con grande scioltezza e con tratti ironici e pungenti, che ricordano gli Scherzi più riusciti. Mentre scriveva la Cronaca, il G. era già corroso dalla tisi. Nell'estate del 1849 si era recato a Viareggio per respirare l'aria di mare; ritornato a Firenze, ospite del Capponi, quando poteva lavorare si dedicava al Commento a Dante, l'autore che più amava. Con un accostamento audace, E. Montazio affermò che Dante era, insieme con P.-J. de Béranger, una delle "balie del suo ingegno".
Il G. morì a Firenze il 31 marzo 1850 e il 1° aprile il suo corpo fu portato alla chiesa di S. Miniato al Monte. Accompagnavano il feretro U. Peruzzi, gonfaloniere di Firenze, l'abate R. Lambruschini, D. Valeriani, segretario dell'Accademia della Crusca, G.B. Giorgini e G. Capponi, l'uomo che più aveva apprezzato e valorizzato l'ingegno del poeta pesciatino.
La produzione poetica del G., le cui prime prove (una serie di sonetti d'argomento personale e d'intonazione classicistico-foscoliana) risalgono alla fine degli anni Venti, trovò assai tardi e sotto la spinta di circostanze estranee alla sua volontà la strada di una parziale pubblicazione. Solo nel 1844, infatti, apparve a Livorno una sua smilza raccolta di sei liriche classicheggianti (Versi), preceduta da una lettera dedicatoria a Luisa d'Azeglio in cui il poeta lamentava la comparsa, quello stesso anno a Lugano, a sua insaputa e con una prefazione di C. Correnti, dell'antologia Poesie italiane tratte da un testo a penna, nella quale alcune sue composizioni satiriche, presentate per lo più in forma scorretta, erano mescolate a testi di intonazione sentimentale e a versi spuri. L'anno dopo, anche per contrastare il successo della raccolta luganese (che continuava a essere ristampata), il G. si decise a pubblicare, fuori di Toscana e in forma anonima, una scelta (32 composizioni) delle sue poesie satiriche, ancora con il titolo di Versi (Bastia 1845). Infine, altri 18 testi tra seri e satirici furono raccolti dal G. in Nuovi versi (Firenze 1847).
A questa parziale e tardiva sistemazione scritta corrispose una precoce e larghissima diffusione orale della produzione poetica del G. anche al di fuori della Toscana. Ciò generò "l'equivoco di una facilità di scrittura, che tiene dell'improvvisazione e dell'immediatezza, mentre, al contrario, l'officina del Giusti è delle più complicate" (Luciani, 1990, p. 45), come dimostrano sia i numerosi inediti (solo parzialmente pubblicati dopo la morte dell'autore da G. Capponi e dai suoi collaboratori), sia le diverse redazioni autografe di molti componimenti, irti di numerosi e complessi problemi filologici, che non hanno ancora trovato soluzione in un'adeguata edizione critica. E se tale ritrosia del G. a pubblicare i suoi testi (specie quelli d'argomento satirico) va probabilmente attribuita a "un immedicabile complesso di inferiorità culturale destinato ad accompagnare come un controcanto" (Ghidetti, p. 246) la sua intera attività letteraria, un'altra manifestazione di tale senso di insicurezza è forse da indicare nell'ostinazione con cui, lungo tutto l'arco della sua carriera poetica, tentò i modi, in verità a lui meno congeniali, della poesia seria e classicistica, con un "percorso accademico" certo importante per l'affinamento della sua straordinaria perizia tecnico-metrica, ma che "durò parallelo all'altro", forse anche "perché corrispondeva alla sua candida e costante nostalgia di un mondo innocente" (Nencioni, p. 290).
Ad ogni modo, la pubblicazione delle prime due raccolte, che coincise cronologicamente con l'amicizia con A. Manzoni e il lusinghiero (anche se non incondizionato) riconoscimento da parte di quest'ultimo dei meriti letterari del G. satirico, segna una linea di discrimine abbastanza netta nella produzione poetica giustiana, nella quale, prescindendo dai già ricordati episodi di apprendistato classicistico o dalle prime prove nel genere giocoso-satirico (nei modi della poesia di A. Guadagnoli, cui è dedicata una lunga composizione giovanile), si può individuare un primo periodo, che abbraccia il decennio 1832-43. In questa fase il posto centrale è tenuto dall'invenzione, dalla definizione e dalla valorizzazione espressiva di quelle sbrigliate composizioni satiriche impostate su metri brevi, serrati e inusuali come il quinario (forse quello prediletto) e/o su vorticosi cambiamenti di metrica, che il G. nell'epistolario indica usualmente con il termine "scherzi", che andrà inteso più in riferimento alla loro caratteristica ritmicità travolgente e briosa (con valore quindi assai prossimo a quello della terminologia musicale) che non alle modalità giocose con cui il poeta mette in scena e interpreta il loro contenuto. Dunque, una satira politica e, più spesso (e forse più incisivamente), di costume, il cui contenuto "ha da essere cercato nelle sue sonorità, nei suoi ritmi più che nei suoi discorsi, poiché lì sta, quando non vi si esaurisce addirittura, in quella straordinaria invenzione (che diventa significante) di misure insolite e "urtanti" (Portinari, p. 436). In essa, tuttavia, la realizzazione, la denigrazione del bersaglio, non assume i modi aspri e risentiti dell'invettiva o dell'attacco frontale, ma, piuttosto, quelli ironici del paradosso e della canzonatura, secondo uno schema ricorrente basato su situazioni narrative e strutture argomentative di valore antifrastico, che, con un capovolgimento di ruoli e situazioni, attraverso una finta esaltazione o apologia di fatti o personaggi negativi, ne mettono a nudo e ne analizzano i caratteri di intrinseca negatività.
Così, la serie degli "scherzi" politici si apre con l'ironica promessa di Rassegnazione e proponimento di cambiar vita (1833), autobiograficamente legata alla surreale invenzione di La guigliottina a vapore (in cui è trasfigurato il ricordo delle esecuzioni di Modena nel 1831), ma è anticipata dalle Parole di un consigliere al suo principe (1832, il sovrano in questione è Luigi Filippo d'Orléans), in cui il fallimento dei moti del 1831 è visto come l'inizio di un lungo periodo di restaurazione e conformismo politico. E, infatti, gli "scherzi" successivi sembrano rivolti, attraverso la lente deformante della satira, più alla descrizione/denuncia dei vizi del momento e della intrinseca malizia di personaggi e istituzioni del mondo contemporaneo, irrigidito dalla reazione, che alla propaganda politica e alla parenesi patriottica (Lo stivale, 1836, allegoria delle vicende della storia d'Italia in chiave risorgimentale, è un episodio isolato in questa prima fase della produzione del Giusti). Così, la situazione politica italiana e della Toscana in particolare è l'argomento di composizioni quali: Il dies irae (1835, antifrastico elogio funebre dell'imperatore d'Austria Francesco I); Legge penale per gl'impiegati (1835, sulla rapacità, l'inefficienza e il malaffare della burocrazia toscana); L'incoronazione (1838, satirica galleria dei principi italiani che s'immaginano convenuti a Milano per l'incoronazione del re del Lombardo-Veneto, l'imperatore d'Austria Ferdinando I); Il re Travicello (1841, favola esopica nella quale si riconosce il granduca di Toscana Leopoldo II); La terra dei morti (1842, dedicata a G. Capponi, rivendicazione polemica della vivezza dello spirito nazionale italiano). Testi di per sé non riconducibili a un'ottica patriottica, ma attraversati da una vena (più viscerale che propriamente nazionalistica) di avversione nei riguardi dello straniero (in particolare degli Austriaci, dal G. sempre indicati come "Tedeschi", epiteto al quale nel 1849 finì anche per dedicare un'intera composizione, il sonetto Una volta il vocabolo "Tedeschi"), che ne determinò la recezione in senso risorgimentale.
Rispetto agli "scherzi" d'argomento politico, ben più incisive e personali risultano le composizioni del G. propriamente satirico (cioè "poeta di quella critica del costume non individuale, non demolitrice della persona, ma mossa, come quella del maestro Parini, da sdegno generoso e da nobile severità contro il vizio e del vizio demolitrice", Nencioni, p. 291): in esse, impegnandosi in una catalogazione di tipi e situazioni, crea un vera e propria galleria di ritratti della società contemporanea, visti dalla prospettiva di una concezione moderata dell'esistenza e dei rapporti umani.
Nascono così, quasi preannunciati dalle programmatiche ottave di Costumi del giorno (1835) "scherzi" quali: Il mondo peggiora (1835-37, poi diventato Preterito più che perfetto del verbo "pensare"), sul torpido e inerte conformismo dei laudatores temporis acti; il celeberrimo Brindisi di Girella (1835-40), uno dei vertici della satira sociale del G., dedicato "al signor di Talleyrand buon'anima sua", quintessenza e patrono dei voltagabbana e del trasformismo politico; A un amico (1840), contro l'ostentazione di una religiosità non sentita, che si traduce in romanticismo conservatore e, sul piano politico, in posizioni neoguelfe e intolleranti; Gli umanitari (1840), contro l'utopismo e il cosmopolitismo dei sansimoniani; Il mementomo (1841), contro la moda delle iscrizioni funebri ampollose e menzognere; Le memorie di Pisa (1841-42), rimpianto della "scapataggine" della vita studentesca, ben presto degenerata nel perbenismo e nell'ipocrisia della vita da adulti nella società del tempo; e soprattutto La chiocciola (1841), esposizione in forma allegorica e in efficacissimi quinari di un ideale di vita moderata, ritirata, governata da un realistico ed equilibrato buon senso e pertanto radicalmente divergente dalle mode e dai vizi della società contemporanea. Dei riti e delle mode dominanti, poi, il G., con sguardo realistico e dissacratorio insieme, offre un'analisi che penetra nella quotidianità in un gruppo di composizioni satiriche di concezione più complessa ("sociali in senso sociologico e polimetre", la cui "architettura metrica colloca Giusti tra i metricisti di cui fu ricco l'Ottocento": Nencioni, p. 296) e di proporzioni più vaste (dalle dimensioni e respiro di poemetti): Il ballo (1837-42), "contro il bon-ton e contro questa licenza di ammetter tutti, purché abbiano una giubba a coda di rondine" (lettera del G. a E. Meyer del 28 apr. 1840, in Epistolario, I, p. 251), descrizione realistica e caricaturale di una delle occasioni di incontro più caratteristiche e importanti di una società fatua e inetta; La vestizione (1839), in cui, contro l'usanza allora diffusa di conferire dietro compenso gli ordini cavallereschi a esponenti della nuova "aristocrazia di borsa", si ritrae con sdegno l'investitura di un arricchito droghiere "spazzaturaio d'anima", di soprannome Bécero; La scritta (1842), descrizione, contro i cacciatori di doti e di onorificenze, del matrimonio tra la figlia di un usuraio plebeo e un nobile decaduto. La complessità strutturale di questi testi li distingue dalla lineare e dinamica scorrevolezza degli "scherzi" e la risentita (e talora livida) indignazione che li percorre si esprime in un pluristilismo (mimetico dei diversi livelli di degradazione sociale e morale messi a nudo dal poeta) ben lontano sia dallo stile, in complesso medio e appena venato da coloriture regionali delle altre composizioni satiriche, sia soprattutto dal registro aulico e "sublime" delle sue poesie di genere propriamente lirico, concretizzazioni della sua permanente esigenza (quasi esistenziale, come s'è chiarito) di classicismo: "il levigato sonetto sulla Fiducia di Dio [1836] di Lorenzo Bartolini, l'edulcorato Affetti di una madre [1837-39], il melodico A una giovinetta [1843], cui si possono aggiungere altre odi, All'amica lontana [1836], Il sospiro dell'anima [1841], Per il ritratto di Dante [1841], All'amico nella primavera del 1841 e la nona rima A Gino Capponi [1847]", componimenti che "i metri tradizionali tradizionalmente cadenzati, la poeticità convenuta della lingua, la levigatura a volte stucchevole della forma, il discreto ricorso ad antichi stampi retorici […] tolgono dal percorso innovativo della poesia giustiana e li appartano in quello del cercarsi come artista" (Nencioni, pp. 289 s.).
Con l'insorgere, nel 1843, di disturbi fisici e nervosi, e con la connessa necessità di viaggiare nella speranza di trovare sollievo, si apre una nuova (estrema) e meno copiosa stagione nella produzione poetica del G., caratterizzata, pur tra frequenti sbalzi umorali, da una ironia più rattenuta e da una pensosità sempre più raccolta, cui corrisponde, anche in seguito alla frequentazione quotidiana del Capponi, un avvicinamento agli ideali del liberalismo moderato. Così, la sua satira morde non tanto tipi sociali, come nel polimetro Gingillino (1844-45, caricatura della figura dell'arrampicatore politico, dedicata all'amico A. Poerio), ma si sofferma, con attenzione non scevra di accenti di simpatia, a descrivere la vita domestica borghese nel suo immobilismo (come nella novella in versi L'amor pacifico, 1844-45, in cui i tipi di Taddeo e Veneranda, che ebbero una certa popolarità nell'Ottocento, incarnano le virtù e i limiti dello stile di vita del borghese placido e benpensante, in un'atmosfera vicina al Biedermeier). Altrove il G. tenta di delineare un percorso di moderato realismo, demistificando le illusioni dei "liberali da panca di caffè" (Il poeta e gli eroi di poltrona, 1844), dei "grilli" mazziniani e giobertiani (I grilli, 1845) o ridicolizzando l'utopismo e l'impraticabilità delle posizioni neoguelfe (Il papato di prete Pero, 1845; La rassegnazione, 1846). Tale realismo, se viene precisandosi nelle forme di un costituzionalismo in cui finisce tuttavia per confluire anche il nativo nazionalismo antiaustriaco del G. (Il Delenda Carthago, 1846-47), può, d'altra parte, essere percorso da accenti manzoniani di umana compassione verso i dominatori (come nel pensoso e umoristico finale di Sant'Ambrogio, 1846, tanto ammirato da L. Pirandello) o, per converso, essere spinto sino a invocare, con accenti ormai tipicamente quarantotteschi, il ricorso alle armi (La guerra, 1847), mettendo in guardia da spie e "birri" (Storia contemporanea e Il congresso dei birri, 1847), incitando i "don Abbondio" liberali (Alli spettri del 4 sett. 1847) e dando, infine, espressione a un intenso quanto momentaneo entusiasmo per la proclamazione dello statuto a Firenze (Brindisi, 1848). Un entusiasmo, tuttavia, ben presto rientrato dinanzi allo spettacolo della disordinata elezione e della inconcludente attività dell'Assemblea legislativa toscana (L'elezione; Il deputato), e rovesciato in commossa e risentita rievocazione della figura dell'amico A. Poerio, caduto nella difesa di Venezia (A Radeschi).
Espressione di tale delusione per il corso degli eventi del Quarantotto e insieme documento "del clima di sbandamento e di incertezza che quella prima esperienza rivoluzionaria aveva messo in luce nelle file dei moderati" (Nicoletti, 1988, p. 808) è l'incompiuta Cronaca dei fatti di Toscana(1845-48), pubblicata postuma (Milano 1890) da F. Martini con l'improprio titolo di Memorie inedite di G. Giusti (1845-48), che tuttavia bene ne sottolineava la natura e il taglio di testo memorialistico dalla prospettiva essenzialmente personale. Essa, infatti, più che come una narrazione organica (forse anche per la sua incompiutezza), si presenta come "un suggestivo montaggio di riflessioni, aneddoti e ritratti" delineati con vivacità di osservazione e spesso fortemente carichi di umori e risentimenti privati, come nel caso della valutazione della personalità e dell'operato di F.D. Guerrazzi, additato come il maggior responsabile, con la sua demagogia tribunizia, del fallimento della Repubblica e contrapposto all'austera figura del Capponi, "di cui è tracciato un ritratto in piedi come d'intemerata coscienza socratica" (Nicoletti, 1988, p. 880). Di là da queste inarcature polemiche, peraltro, la Cronaca è, nel suo complesso, un documento sia di quelle stesse capacità narrativo-espositive che animano l'epistolario del G., sia, per la sua prosa "schietta, lucida, rapida, senza fronzoli; a tratti […] mirabile di efficacia; esempio a chi voglia oggi dir tutto e tutto bene ed essere inteso da tutti" (F. Martini, 1890, cit. in Nencioni, p. 282), dei caratteri della sua scrittura saggistica e degli ideali linguistici di cui era attuazione.
A proposito degli orientamenti linguistici del G., poi, anche a prescindere dal suo "troppo lamentato toscanismo", peraltro "non monotono, né incombente, ma distribuito con accorta discrezione nella sua varia produzione letteraria; e soprattutto schivo di pretese d'imposizione" (Nencioni, p. 298), va rilevata la sua sostanziale convergenza con le idee manzoniane nell'aspirazione a una lingua viva (cioè rigenerata e modellata nel rapporto costante con il parlato), comune a tutti gli Italiani ("che cioè fosse anzitutto strumento di comunicazione e di unità sociale": Nencioni, p. 279). Da tale attenzione alle espressioni correnti nell'uso vivo, decisiva naturalmente anche per la formazione della sua lingua poetica, prende le mosse la sua opera di appassionato raccoglitore e di attento studioso del patrimonio di espressioni popolari, che doveva nelle sue intenzioni concretarsi nella compilazione di una raccolta di proverbi toscani, trascritti "non come a volta si trovano nei libri, ma come li dice il popolo" (lettera a S. Giannini, 1839, in Epistolario, I, p. 181) e distinti dai "modi di dire" (cioè dalle espressioni idiomatiche).
I materiali messi insieme dal G. per questo progetto (circa 3000 proverbi variamente trascritti, con ampi apparati esplicativi e una lunga lettera all'amico A. Francioni, che doveva costituire la prefazione della raccolta) furono riordinati e pubblicati da Capponi (Raccolta di proverbi toscani, con illustrazioni cavate dai manoscritti di G. Giusti ed ora ampliata e ordinata, Firenze 1852), che, però, finì per snaturarne i criteri, arricchendo la raccolta con cospicui prelievi da preesistenti repertori a stampa.
Inoltre, nell'ambito delle sue prose saggistiche, sempre lucide e misurate nei giudizi e nell'espressione, vanno ricordati: il profilo Della vita e delle opere di G. Parini (composto come prefazione), in cui l'analisi, spesso puntuale, delle opere pariniane è nel contempo un importante momento e documento di poetica, e al cui interno G. riflette sui meccanismi e sulla storia della poesia satirica; e gli Studi e commenti intorno alla Divina Commedia, pubblicati postumi dalle sue carte, frutto della quotidiana frequentazione con la poesia dantesca, ammirata come punto di riferimento centrale per l'ingenuo classicismo del G., discussa nella corrispondenza con i maggiori intellettuali del tempo (da Giordani a Manzoni, a Capponi) e di cui si rilevano tracce evidentissime nella sua produzione poetica (specie in quella lirica). Tale attività di studio ed esegesi, se non giunse a una compiuta e unitariamente organizzata lettura del poema, si concretò in diversi abbozzi e spunti critici ricchi di osservazioni originali nell'illustrazione dei procedimenti allegorici danteschi, nel raffronto del testo di Dante con quello dei cronisti fiorentini e dei più antichi commentatori, e soprattutto nel rifiuto di costrittive premesse politiche (specie neoguelfe) nella ricostruzione del pensiero dantesco.
Analoghi caratteri di "intelligenza, di onestà, di libertà, di misura" si rilevano nella prosa dell'epistolario, che nell'Ottocento ebbe fortuna come testo di lingua esemplarmente in linea con le teorie manzoniane (talora smussandone con opportune glosse le punte di troppo stretto toscanismo, come nella scelta scolastica postillata "per uso de' non toscani" da G. Rigutini, Firenze 1864), ma di cui oggi si apprezzano piuttosto "la chiarezza e la vivacità del pensiero, la freschezza e i colori del lessico, la spigliatezza e la fluenza sintattica" attraverso le quali si esprime spontaneamente la personalità dello scrittore, rivelandosi "inquietamente sfuggente agli stereotipi delle figure risorgimentali" (Nencioni, p. 281), anche per quella corrente di ipocondriaca depressione che ne percorre, in modo talora opprimente ma caratteristico, tante pagine.
Opere: Le carte del G. furono affidate, dopo la sua morte, dal padre a G. Capponi con pieni poteri di revisione e pubblicazione, che questi utilizzò ampiamente, sovrintendendo per l'editore Le Monnier a una prima edizione delle opere del poeta. A M. Tabarrini Capponi affidò la cura della produzione poetica, che vide la luce nel 1852 nel vol. Versi editi ed inediti; a G. Frassi toccò, invece, la cura dei Frammenti autobiografici del G. (da riorganizzare in una biografia del poeta, poi non realizzata) e, soprattutto, della pubblicazione dell'Epistolario, edito, con diversi rimaneggiamenti e in forma assai parziale, in due volumi nel 1859. Lo stesso Capponi curò, nel 1852, l'edizione della Raccolta dei proverbi toscani.
Le carte giustiane in possesso del Capponi (che, d'accordo con la famiglia del G., provvide a far distruggere diversi documenti - soprattutto lettere - relativi alla vita privata del poeta) furono poi depositate (nel 1929, con il resto del fondo Capponi) alla Biblioteca nazionale di Firenze, dove sono tuttora, in condizioni di catalogazione e ordinamento assai approssimativi: cfr. P. Luciani, Sulle carte giustiane, in G. G.: il tempo e i luoghi, Atti delle giornate di studi, Firenze… 1994 - Monsummano… 1995, a cura di M. Bossi - M. Branca, Firenze 1999, pp. 17-28. I manoscritti degli studi su Dante e sui proverbi toscani sono conservati presso l'Accademia della Crusca (Carte Giusti), cui furono donati dal Capponi. Diversi autografi e alcuni cimeli giustiani provenienti dal lascito di F. Martini (altro editore delle opere e dell'epistolario del G.) si trovano presso la Biblioteca Forteguerriana di Pistoia: per i quali v. Da autografi, libri, ricordi della Biblioteca Forteguerriana di Pistoia (catal. della mostra, Monsummano Terme… 1973), Firenze 1973. Altri quaderni con copie manoscritte di poesie sono nella Biblioteca civica di Pescia (cfr. P. Luciani, Sulle carte giustiane, cit., p. 19) e nel Museo di Casa Giusti a Monsummano Terme (cfr. il catalogo della sezione documentaria: G. G.: le opere e i giorni, a cura di P. Luciani, Monsummano Terme 1990). Le carte della famiglia Giusti (tra cui numerosi inediti di lettere e composizioni poetiche del G.) sono in gran parte presso l'Archivio di Stato di Pistoia: v. l'inventario analitico con l'ed. di diversi testi a cura di E. Altieri Magliozzi, Carte della famiglia Giusti e lettere del poeta conservate nell'Arch. di Stato di Pistoia, in Studi in onore di L. Sandri, Roma 1983, pp. 1-53 (ma v. anche A. Marucelli, Le carte della famiglia Giusti, in G. G.: il tempo e i luoghi, cit., pp. 29-39, che dà notizia di altri materiali documentari rinvenuti e in corso di acquisizione). Nel 1995, infine, il Comune di Montecatini ha acquisito 156 lettere del G. fino ad allora in possesso dell'erede A. Babbini-Giusti (cfr. la segnalazione nella rubrica "Cronache" in Poesia, n. 82, 1995, p. 71).
Per le edizioni delle opere, v. M. Parenti, Bibl. delle opere di G. G., I-II, Firenze 1951-52.
Un'approfondita ricognizione degli autografi delle poesie del G. conservati presso la Bibl. nazionale di Firenze, con la pubblicazione di diversi testi inediti e con la correzione di numerose imprecisioni delle edizioni precedenti, fu condotta da N. Mineo, Nuovi inediti del G., in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, classe di lettere, storia e filosofia, s. 2, XXVII (1958), 1-2, pp. 23-71. Sulla base di queste ricerche (e di studi precedenti di Q.V. Fanucci, in Il Ponte, VII [1951], pp. 28-30; VIII [1952], pp. 979-989; IX [1953], pp. 46-59), fu approntata, a cura di N. Sabbatucci, un'ed. delle Poesie del G., I-II, Milano 1962, che, pur non essendo critica, resta la più completa e attendibile. Da tale ed. lo stesso Sabbatucci trasse per la raccolta G. Giusti, Opere, da lui curata (Torino 1976) una scelta di testi meno ampia (pp. 61-600), ma nella quale teneva conto dei materiali nel frattempo segnalati da G. Falaschi, Un quaderno sconosciuto di poesie del G., in Il Bimestre, gennaio-aprile 1973, n. 24-25, pp. 5-9. Importante per l'introduzione e il commento la scelta antologica di L. Baldacci in Poeti minori dell'Ottocento, II, a cura di L. Baldacci - G. Innamorati, Milano-Napoli 1963, pp. XIII-XXII, 751-942. Tra le edizioni più recenti: Poesie di G. G. illustrate da A. Matarelli…, Milano 1982 (rist. anast. dell'ed. Firenze 1868); Poesie e prose, a cura di F. Giannessi, Milano 1995; Versi, [Firenze] 2000 (rist. anast. dell'ed. Bastia, 1845).
Dopo la prima, infelice edizione curata da G. Frassi, un'edizione più ampia, parcamente commentata, ma non sempre affidabile dell'Epistolario fu preparata da F. Martini, I-IV, Firenze 1932, completata nel 1956 da un quinto volume a cura di Q. Santoli. Integrazioni a tale ed. (oltre che nel cit. catalogo Da autografi, libri, ricordi, pp. 1-22) in: Nuove lettere inedite ai familiari, a cura di F. Bonanni Paratore, in Atti dell'Accademia dei Lincei. Memorie, classe di scienze morali, storiche e filologiche, s. 8, XXII (1978), 5, pp. 483-579; E. Savino, Supplemento all'Epistolario di G. G., con qualche informazione archivistica, in Poliorama, IV (1985), pp. 195-205.
L'edizione più recente della Cronaca, pubblicata postuma da F. Martini, con il titolo Memorie inedite di G. Giusti (1845-1849), Milano 1890 (e da lui ristampata, con il titolo Cronaca dei fatti di Toscana (1845-1849), in Tutti gli scritti editi e inediti di G. Giusti, a cura dello stesso Martini, Firenze 1924, pp. 248-294), è in G. Giusti, Opere, a cura di N. Sabbatucci, cit., pp. 601-700. Da segnalare anche l'edizione a cura di G. Trombatore in Memorialisti dell'Ottocento, I, Milano-Napoli 1953, pp. 377-453.
La Raccolta di proverbi toscani è stata ristampata in edizione anastatica da A. Falassi, Palermo [1981], con un'ampia introduzione, e da C. Lapucci, Firenze 1993; la Prefazione e le Illustrazioni ai Proverbi toscani poste dal G. in appendice si leggono anche in Tutti gli scritti, cit., pp. 295-303, 304-329. V. anche: G. Giusti - G. Capponi, Diz. dei proverbi italiani, s.l. 1994; F. Bellonzi, Proverbi toscani, Firenze 1996.
Tra le prose critiche del G., il saggio Della vita e delle opere del Parini è raccolto in Tutti gli scritti, cit., pp. 219-245, insieme con Studi e commenti intorno alla Commedia (ibid., pp. 333-362) e alle Note e osservazioni sopra la Commedia (ibid., pp. 363-391). Per gli altri studi danteschi del G. si deve ancora ricorrere a: Postille alla Divina Commedia, a cura di G. Crocioni, Città di Castello 1898; Nuove postille alla Divina Commedia, pubblicate da G. Pedrotti, Girgenti 1904.
Fonti e Bibl.: Le più recenti monografie sul G. sono: M. Zeni, L'uomo poeta G. G., Pisa 1979 (imperniata su una larga esemplificazione antologica); M.A. Balducci, La morte di Re Carnevale. Studio sulla fisionomia poetica dell'opera di G. G., Firenze 1989.
Fondamentali nella letteratura critica sul G. sono: il volume G. G. e la Toscana del suo tempo. Atti del Colloquio, Pescia - Monsummano Terme,… 1973, Roma 1974, con interventi di A.M. Ghisalberti (Relazione introduttiva, pp. 9-15), E. Sestan (G. nella Toscana granducale del suo tempo, pp. 19-39), C.A. Mastrelli (Il tono popolaresco nella lingua del G., pp. 41-56), L. Baldacci (Il G. dal punto di vista letterario, pp. 63-70); alcuni contributi di L. Baldacci tra cui G. G. e la società fiorentina, in Id., Letteratura e verità, Milano-Napoli 1963, pp. 37-62, e la voce G., G., in Diz. critico della letteratura italiana, a cura di V. Branca, Torino 1986, I, pp. 396-402; e, soprattutto, il volume G. G.: il tempo e i luoghi, cit., con scritti, tra gli altri (oltre a quelli già ricordati), di: L. Baldacci, Destino del G., pp. 3-16; R.P. Coppini, Economia e società nella Toscana dell'Ottocento, pp. 43-54; A. Salvestrini, Autorità, convenzioni e ideali di libertà nella Toscana della Restaurazione, pp. 93-100; C. Pazzagli, La nobiltà pesciatina tra XVIII e XIX secolo, pp. 101-114; Z. Ciuffoletti, La censura e la satira politica, pp. 115-125; N. Mineo, La poesia di G. G., pp. 153-174; F. Franceschini, "Eccoti pochi appunti presi cammin facendo": la "lingua parlata" in tre "lettere" e nelle note lessicali di G. G., pp. 191-234; E. Ghidetti, Preliminari all'epistolario del G., pp. 235-258; G. Nicoletti, Le forme del racconto negli scritti autobiografici del G., pp. 259-275; G. Nencioni, La lingua in G. G., pp. 277-298; L. Felici, L'ambigua presenza del G., pp. 299-309.
Tra gli studi più recenti: G. Finzi, G. rivoltato, in Belfagor, XXXVI (1981), 4, pp. 399-410; G. Leone, Nota bibliografica giustiana, in Rass. di cultura e vita scolastica, XXXVI (1982), 5-7, pp. 13 s.; N. Laurin, Formazioni personali nell'"Epistolario" di G. G., in Filologia moderna. Facoltà di lingue e letterature straniere, Università di Trieste, V (1982), pp. 213-256; N. Mineo, Umorismo, scherzo, satira: Pananti, Guadagnoli, G., in N. Mineo - G. Nicastro, G. e il teatro del primo Ottocento, Roma-Bari 1985, pp. 3-54; G. Nicoletti, Firenze e il Granducato di Toscana, in Letteratura italiana (Einaudi), Storia e geografia, II, L'età moderna, 2, Torino 1988, pp. 802-809; G.F. Vené, G.: il sarcasmo di un "democratico", in Id., Letteratura e capitalismo in Italia dal Settecento ad oggi, Milano 1992, pp. 178-185; F. Portinari, G. G. e la poesia comico-satirica, in Storia della civiltà letteraria italiana (UTET), IV, Il Settecento e il primo Ottocento, Torino 1992, pp. 429-445; Scrittura dell'uso al tempo del Collodi. Atti del Convegno, Pescia… 1990, a cura di F. Tempesti, Firenze 1994, ad indicem; V. Papini, Il Quarantotto del G. nei versi e nella "Cronaca", in Il Vieusseux, VII (1994), 20, pp. 33-47; L. Trenti, "Un'ombra di quel brio": G. ed Orazio, in Antico Moderno, I (1995), pp. 79-87; T. Cherdantseva, Proverbio e modo di dire, in Studi di grammatica italiana, XVI (1996), pp. 339-343; G. Genovesi, La scuola come romanzo. I memorialisti italiani (1755-1905), Gaeta 1996, ad indicem; F. Fedi, Leopardi e G.: un incontro pisano, in Leopardi a Pisa (catal. della mostra), a cura di F. Ceragioli, Milano 1997, pp. 327-329; F. Audisio, Postilla linguistica ad alcuni ottocentisti toscani, in Rass. della letteratura italiana, CI (1997), 2-3, pp. 95-111; Q. Marini, La letteratura del pieno romanticismo e del Risorgimento, in Storia della letteratura italiana (Salerno), VII, Il primo Ottocento, Roma 1998, pp. 871, 926-932, 948; G. Capovilla, Per un'analisi dell'esperienza metrica del G., in Studi e problemi di critica testuale, aprile 1998, n. 56, pp. 63-89; G. Nuvoli, G. G. e la poesia satirica del primo Ottocento, in Storia generale della letteratura italiana (Motta), VIII, L'Italia romantica. Il primo Ottocento, Milano 1999, pp. 607-646; Linguaggi della prima metà dell'Ottocento: dalla Casa Giusti alla Toscana del tempo, a cura di M. Branca - P. Luciani, Firenze 2000.
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