GIUSTI, Giuseppe
Nacque a Monsummano, in quel di Pescia, il 13 maggio 1809, d'agiata e nobile famiglia. Fece i primi studî sotto la guida di un prete del paese, rozzo e manesco, presso il quale stette a dozzina dai sette ai dodici anni. Per la sua educazione furono particolarmente efficaci dieci mesi che passò - fra il '21 e il '22 - a Firenze nell'istituto Zuccagni, dove trovò due maestri che seppero meritare il suo affetto e dei quali si ricordò sempre con gratitudine, Andrea Francioni e Lorenzo Tarli; di scarsa utilità gli fu invece il tempo che trascorse, dal '22 al '25, prima nel Seminario di Pistoia e poi nel Collegio dei nobili a Lucca: da allora datano i suoi primi tentativi poetici. Nel 1826 il cav. Domenico suo padre lo mandò a Pisa a studiare il diritto "di contraggenio". Quivi lo attrasse, assai più che l'università, il Caffè dell'Ussero, sul Lungo Arno, dove convenivano gli studenti a far baldoria, e dove cominciò subito ad accomJagnarsi coi più spensierati dei suoi compagni, aprendo a tutti le braccia e il cuore, senza il minimo sospetto che fra tanta gioventù potesse aggirarsi qualche ipocrita del tipo di quello che molti anni più tardi ritrasse in Gingillino. Quella vita spensierata, ma sana, e tutta piena d'un contenuto fervore e d'impulsi generosi, il G. più tardi esaltò con nostalgica gaiezza nelle Memorie di Pisa. In quella scioperataggine più apparente che reale si venivano intanto formando l'uomo e il poeta. Nel mondo studentesco il G. notava tipi e macchiette; rallegrava i compagni con i suoi frizzi mordaci; e a poco a poco, messe da parte le petrarcherie degli anni di collegio, dalle strofette pungenti e spesso licenziose delle quali aveva rubato prontamente il segreto al verseggiatore aretino Antonio Guadagnoli (v.), allora popolarissimo in Toscana, spiccava i primi voli verso forme più alte di poesia. Ma nell'estate del 1829 Giuseppe fu richiamato in famiglia ove rimase tre anni. Rimandato poi a Pisa, riuscì a laurearsi soltanto nel giugno del 1834, perché nel carnevale del 1833 gli fu vietato, per ragioni politiche, di presentarsi a un esame speciale.
Con la laurea s'iniziò pel G. il periodo - meno chiassoso e più meditativo - della vita fiorentina (1834-1841), sempre variata da riposi nella Val di Nievole natia. Gli avvenimenti politici di Francia e d'Italia fra il '30 e il '31 avevano svegliato in lui l'estro epico - è di quel tempo un'enfatica Tirata contro Luigi Filippo -; ma fu un'ispirazione illusoria: ben presto il G. tornò ai suoi "Scherzi", un genere di poesia in apparenza briosa e gioconda, ma in realtà grave e pungente, in cui il poeta andava ritraendo gli aspetti tipici della smidollata società toscana e l'impressione che suscitavano nel suo animo gli avvenimenti contemporanei. Fin dal 1836 aveva conosciuto Gino Capponi (v.) e si era legato a lui d'un'amicizia che si fece sempre più affettuosa e fraterna. L'influsso che quell'intelletto alto e sereno esercitò sul G. fu tale da segnare di un'impronta indelebile l'anima e l'arte di lui.
Il 1841 sembra portare, con una delusione amorosa, l'inizio d'un periodo più serio e più raccolto nella vita spirituale del G.; che si diede, da allora, con più ardore agli studî, e cominciò a esercitare più laboriosamente la lima sugli scritti già compiuti. Anche certi avvenimenti familiari di quel tempo - specialmente la malattia e poi la morte d'uno zio - commossero vivamente il G., e ne scossero la fibra. Il suo sistema nervoso, impressionabilissimo, lo faceva adombrare d'ogni minima cosa e un velo di mestizia gli offuscò ormai per sempre la serenità pensosa dell'animo. Così, proprio sul fiore della virilità, il G. cominciò a essere cagionevole di salute. Nel 1844, per distrarsi, visitò, con sua madre, Roma e Napoli: il poeta, ormai noto in tutta Italia, fu accolto assai festosamente nella società colta e liberale di quelle città; ma anche quel viaggio gli giovò poco, e forse lo strapazzo gli nocque.
Salute e buon umore cominciarono un poco a rifiorirgli nell'estate del 1845, a Pisa. Nella città della sua giovinezza frequentò il salotto della marchesa Luisa Blondel d'Azeglio, che aveva con sé la Vittorina, figlia di Alessandro Manzoni. Alla seconda moglie dell'Azeglio, il G. fu legato da un'affettuosa amicizia, sulla quale non poco malignarono i contemporanei e poi i critici e i biografi, fino ai nostri giorni. Ma un gruppo notevole di lettere del G. alla marchesa, già credute smarrite, servirono, ritrovate, a Ferdinando Martini per sfatare definitivamente la leggenda. Nell'agosto del '45 la marchesa d'Azeglio e la Vittorina riuscirono a trascinare il G. dalla Spezia, dov'era andato a salutarle col suo amico G. B. Giorgini, più tardi sposo della Manzoni, fino a Milano; e quivi rimase circa un mese, ospite del Manzoni. Questi si legò a lui d'una salda amicizia; la quale s'aggiunse a quella del Capponi e ad altre autorevoli per finir di allontanare il G. dalle forme d'arte onde aveva preso prima le mosse, inducendolo a dare ai suoi versi un'intonazione e una contenenza sempre più elevata. Ora egli cercava di accostarsi come meglio poteva, per il fine civile, al Parini, mentre nella familiarità coi Milanesi del circolo manzoniano (Grossi, Torti, L. Rossari, ecc.) s'iniziava a gustare la poesia dialettale di Carlo Porta; lo studio della quale gli rafforzò la potenza dell'osservazione, e valse ad assenargli l'arguzia delle trovate e l'arte di segnar nitidi e sicuri i contorni di quadretti briosi in un breve giro di versi. Si vedano il Sant'Ambrogio, il Delenda Cartago e altri componimenti di quel periodo.
L'inverno tra il 1845 e il 1846, trascorso ancora a Pisa, in vita comune con quattro amici degli anni universitarî - Montanelli, Frassi, Biscardi e Giacomelli - sembrò riportare un'ondata di giovinezza e di salute al corpo e all'anima del poeta. Quell'inverno pisano fu fervido di studî e di lavoro. L'orizzonte politico cominciava a rischiararsi, e il G., che fino dalla sua giovinezza aveva cooperato a preparare il nuovo ordine di cose, ne spiò con occhio avido la lenta maturazione: e si sentì rinascere l'energia a mano a mano che si appressava il tempo di poter passare dal pensiero e dalla propaganda all'azione. Dalla primavera del 1846 fino all'estate del 1847 visse in gran parte fra la casa paterna e quella ospitale del Capponi; salvo l'inverno, che passò ancora a Pisa. Nel settembre del 1847, istituita la Guardia civica, il G. impugnò con gioia il fucile, raggiungendo il grado di maggiore. Il suo nome non destava più sospetti; e lo scrittore, ormai famoso in Toscana e fuori, ebbe, nell'aprile del 1848, una consacrazione ufficiale, con la nomina ad accademico della Crusca. Ma la salute, ancora cagionevole sebbene alquanto rinfrancata, non gli consentì di guidare il suo battaglione alla guerra; e questo fu per lui un grandissimo dolore. Pure non si avvilì; e spiegò in vantaggio della causa liberale, a fianco del suo amico Capponi, un'attività infaticata. Si prodigò a predicare la concordia fra principe e popolo, la dimenticanza d'ogni rancore; e in questa sua opera d'altissimo sentimento civile portò eccezionale purezza d'entusiasmo e sincerità di fede. Fu (dal giugno del 1848) deputato per il collegio di Borgo a Buggiano nella prima e nella seconda Assemblea legislativa toscana; e dal seggio parlamentare continuò a svolgere l'attività per la quale si era prima segnalato nel paese. Nella terza Assemblea, nominata per scrutinio di lista il 15 marzo 1849, il G. fu tra gli ultimi eletti per il compartimento di Pistoia, al quale la Val di Nievole era stata aggregata; e avrebbe potuto entrarvi, per la rinunzia di altri deputati della medesima lista, essendo stata la sua elezione convalidata il 30 marzo dall'Assemblea intitolatasi fin dal 25 Costituente; ma non fece in tempo, ché il 2 d'aprile furono interrotte le sedute, e poco più di otto giorni dopo s'iniziava la restaurazione granducale.
In mezzo a quel tumulto d'eventi cominciato dal 1847, il "caratterista", come a lui stesso era piaciuto definirsi, seguitò a vedere dapprima il lato comico della vecchia società che si sgretolava; e prese a canzonare argutamente le spie disoccupate, i birri, i vecchi impiegati messi decentemente a riposo; mentre il poeta cittadino dava corpo a un suo vecchio sogno, e ricercava nel cuore la corda eroica per celebrare Leopoldo II vero principe e vero padre (ode A Leopoldo II). Quando poi cominciarono le delusioni, e l'ambizione soverchiò in molti l'amore del bene comune; quando, fuggito il granduca, i demagoghi arraffarono il potere, e la notizia della sconfitta piemontese a Novara ebbe aumentata la confusione, il G. seppe rimanere al suo posto; e si mantenne fedele ai suoi principî, per quanto si vedesse ingiuriato, vilipeso, accusato come venduto, come apostata, come traditore della causa del popolo. L'amarezza gli crebbe nell'animo allorché rientrò in Toscana (maggio 1849) il granduca accompagnato dai Tedeschi. Da Pescia, dove s'era ritirato, deplorando le asprezze dei giornali contro il Montanelli e il Guerrazzi, come prima aveva deplorato gli eccessi di quei capipopolo, si recò, nell'agosto, a Viareggio; poi tornò a casa e trascorse la fine dell'estate e il principio dell'autunno con la sua famiglia a Montecatini. Raccolto nel suo dolore, non disperò mai della resurrezione d'Italia. Morì a Firenze, nell'ospitale palazzo dell'amico Gapponi, dov'era venuto fin dall'ottobre, il 31 marzo 1850.
La fama dello scrittore - un tempo esagerata, poi, per naturale reazione, eccessivamente depressa - resta affidata agli Scherzi, per i quali principalmente la figura del G. spicca, nella storia letteraria italiana del sec. XIX, con un'impronta ben definita di simpatica originalità. In questo genere di componimenti, rapidi e per lo più spiritosi, l'arte del G. si venne a mano a mano affinando, e raggiunse il grado più alto nell'ultimo quinquennio della sua vita. Negli Scherzi, satire originalissime di tutte le magagne e le sventure della vita italiana nel decennio innanzi al '49, la lirica pare unirsi all'epica, nelle facete o ironiche o sarcastiche riprovazioni dirette o nelle rappresentazioni riuscitissime di figure in cui s'inearnarono quelle condizioni sociali e politiche. Girella, Gingillino, Becero e altri personaggi di larga ed eterna umanità, vivono la vita dell'arte in quelle poesie spumeggianti d'arguzia e di brio, piene d'efficacia nell'energia espressiva della lingua e nella snellezza dei metri svariatissimi.
Le liriche amorose e poche altre di carattere serio, nonostante la gentilezza dei sentimenti che le ispirano e un certo decoro di forma, non arrivano a essere vera poesia. Certi tentativi drammatici che il G. fece negli ultimi anni (specialmente le due scene de I discorsi che corrono) riuscirono felicemente; ma per una commedia, come in genere per un ampio componimento organico - resta anche qualche curioso documento della tentazione che il G. ebbe di scrivere un romanzo storico di soggetto fiorentino trecentesco - al G. sarebbe mancata la lena.
Nell'imperversare del manzonismo linguistico fu data troppa importanza alle prose, specie alle lettere. Parve, in esse, semplicità e naturalezza quello che era spesso sfoggio di toscanesimo, e che il Carducci definì argutamente "pedanteria in maniche di camicia" e il Martini "accademia vernacolare". Eppure qualche pagina si legge ancora volentieri per la sua scioltezza briosa; e l'Epistolario in molte sue parti conserva un notevole valore come documento dei tempi e d'un animo nobilissimo di scrittore e di cittadino. In generale la prosa giustiana ha più nerbo e maggiore schiettezza in una Cronaca dei fatti di Toscana dal 1845, a...., che F. Martini pubblicò sotto il titolo di Memorie inedite (1845-1849) (Milano 1890). Molto tempo il G. dedicò a una raccolta di Proverbi toscani, che fu pubblicata postuma dal Capponi, insieme con una serie di argute Illustrazioni; molto pure "almanaccò" con Dante, e qualche traccia non trascurabile dei suoi studî sul grande poeta ci è pervenuta. Per un'edizione di versi e prose del Parini compose un discorso (Della vita e delle opere di G. P.), che è un garbato profilo, infiorato di aneddoti e di considerazioni morali.
Ediz.: Tutti gli scritti editi e inediti di G.G. a cura di F. Martini, Firenze 1924; Poesie scelte con commento di P. Carli, Firenze 1912; Poesie con intr. e note di E. Bellorini, Torino 1921; Epistolario raccolto, ordinato e annotato da F. Martini, nuova ed. in 4 voll., Firenze 1932.
Bibl.: F. Martini, varî articoli in Simpatie, 2ª ed., Firenze 1909; T. Parodi, Poesia e letteratura, Bari 1916; B. Croce, Poesia e non poesia, Bari 1923; E. Bellorini, G.G., Roma 1923 (con bibl.).