MANCINI, Giuseppe
Nacque a Firenze il 20 sett. 1777 dal conte Pietro e da Adola Ridolfi Fedini da Ponte.
Formatosi nel locale seminario e completati gli studi presso il collegio Cicognini di Prato, interruppe, forse a causa degli eventi rivoluzionari, gli studi appena iniziati presso l'Università di Siena. Sostenitore fin dalla giovinezza dell'ancien régime e fiero oppositore dei giacobini, non tardò a far sua, di fronte all'incedere della secolarizzazione, l'idea della religione tutrice dell'ordine e del diritto e, con la Chiesa scossa dalla deportazione e dalla morte di papa Pio VI, abbracciò la carriera ecclesiastica. Fu ordinato sacerdote nel 1806, e nel febbraio del 1808 accettò l'incarico di vicario generale della diocesi di Fiesole, il cui titolare era stato allontanato forzatamente. Le autorità imperiali, ritenuto violato il concordato dal rifiuto del pontefice di conferire l'investitura canonica ai presuli nominati dall'imperatore Napoleone, imposero ai vicari capitolari - cui competeva per diritto la giurisdizione episcopale - la rinuncia e la delega della potestà vescovile a favore dei propri designati; e quando il M. comunicò al nuovo arcivescovo di Firenze, A.-E. d'Osmond, già vescovo di Nancy, che il collegio prelatizio in ottemperanza alle disposizioni pontificie, ne rifiutava la nomina, fu raggiunto nel 1811 dall'ordine di arresto e deportazione alla fortezza di Fenestrelle, in Piemonte, la stessa in cui da alcuni mesi era detenuto il cardinale B. Pacca.
Il M. restò in prigione tre anni, dopo i quali seguì un breve esilio in Francia: l'esperienza gli minò il fisico ma gli temprò il carattere. Tornato a Firenze, la fedeltà dimostrata alla S. Sede e ai Lorena gli valse nel 1815 la designazione a membro della commissione per il ristabilimento degli ordini religiosi in Toscana: sotto la presidenza del cardinale A.F. Zondadari, arcivescovo di Siena, ebbe così modo di mostrare la sua perizia sia nell'intricata vicenda delle vendite dei beni appartenuti ai regolari e passati a privati in seguito alla soppressione napoleonica, sia nella complessa questione dei rapporti tra Stato e Chiesa in merito all'abrogazione delle leggi sulla manomorta.
Più volte sul punto di essere interrotti per le incomprensioni tra il delegato apostolico e i rappresentanti del governo, i lavori giunsero a conclusione per la tenacia e il senso della misura del M.: se le cessioni di immobili furono ritenute eccessive, il ricavo di maggiori quantità di denaro permise di arrivare in tempi brevi alla riapertura dei conventi e al collocamento dei numerosi frati estromessi e forzatamente secolarizzati.
Il contributo dato dal M. alla soluzione del problema convinse il granduca Ferdinando III a proporne nel 1818 la nomina a vescovo della diocesi di Massa Marittima e Populonia. Non si trattava di una destinazione comoda, con una natura selvaggia e dove lungo era stato il periodo di assenza del vescovo; si trattava inoltre di un luogo isolato, con un clero rozzo e lontano dai bisogni della popolazione. Agendo con determinazione, il M. riuscì a scuotere le coscienze avviando una concreta riforma pastorale in cui ebbero rilievo la preparazione del clero e l'istituzione del seminario, la visita alle parrocchie e il rapporto diretto con i fedeli, nel tentativo di accrescerne la devozione persino dove, come nell'isola d'Elba, compresa nella giurisdizione episcopale massetana, la popolazione era poco propensa ad accoglierlo.
Prese così piede in lui, attraverso questo tipo di ministero, il rifiuto di atteggiamenti indifferenti, che per lui potevano costituire un rischio di disgregazione sociale. Ciò lo portò a diffidare anche della moderazione del sovrano, nel timore che una popolazione lasciata troppo libera perdesse il rispetto verso la religione, e che il giurisdizionalismo degli Asburgo-Lorena finisse per favorire lo sviluppo di quello spirito libertario nel quale non sempre poteva trovare posto l'osservanza dei precetti divini.
Il M. iniziò a tessere scambi sempre più stretti con l'episcopato toscano per il raggiungimento di un accordo tra il Granducato e la S. Sede che superasse il riformismo leopoldino, sul quale si dirigevano da sempre gli anatemi del papa per quello spirito razionalista che era visto alle origini delle aggregazioni settarie. Alle idee dei sovvertitori dell'ordine e ai loro miti, il M. contrapponeva il principio dell'equilibrio degli Stati e della legittimità dinastica dei regnanti sotto il comune denominatore del cattolicesimo.
Il 12 luglio 1824, il M. fu nominato arcivescovo di Siena, dove per circa trent'anni dispiegò la stessa visione rigidamente ancorata al passato e avversa alle novità del secolo.
L'obiettivo che perseguì attraverso la ricerca di una rinnovata concordanza tra impegno pastorale e rapporti con le istituzioni civili fu quello di restaurare la centralità della Chiesa nella vita dello Stato. L'impulso che fornì, come catechizzatore, moralizzatore, castigatore o penitente, toccò tutti i settori della vita religiosa e improntò soprattutto le visite pastorali, rispetto alle quali, più che di viaggi compiuti a scadenze annuali, si può parlare di una filigrana di scambi con le vicarie al fine di promuovere o verificare di volta in volta l'attuazione di una riforma generale.
Tra il 1825 e il 1850 la diocesi fu solcata in lungo e in largo; lettere, avvisi e notificazioni si susseguirono a ritmo incessante, e furono l'estremo tentativo di un uomo ormai fuori dal tempo di frenare ciò che gli eventi umani stavano determinando a ritmo incessante: la fine della Restaurazione e dell'assolutismo. L'affermazione in Toscana, e dunque anche a Siena, delle idee politiche cui era stato sempre avverso produsse nel M., durante l'ultimo decennio della sua vita, una profonda delusione. Negli eventi del 1848-49, con la fuga di Pio IX e di Leopoldo II a Gaeta, il M. vide la conferma della validità del suo giudizio negativo su quell'evoluzione costituzionale di stampo liberale che per lui aveva radici nel lassismo e nella superficialità dei governi.
Nella restaurazione della dinastia dei Lorena il M. vide l'occasione giusta per costruire un fronte contro la dilagante diffusione di atteggiamenti antireligiosi e promuovere un'azione per cementare l'alleanza tra trono e altare. Nel sinodo provinciale riunito a Siena dal 30 giugno al 7 luglio 1850 fu espressa una linea ferma in merito alla cura pastorale e furono fissati criteri riguardanti l'evangelizzazione, la stampa, la propagazione della fede, la formazione e la disciplina del clero che portarono al concordato di Toscana del 25 apr. 1851 con la S. Sede.
Il M. morì a Siena il 15 febbr. 1855 e fu sepolto in cattedrale, nella navata sinistra vicino all'altare Piccolomini.
Lasciò numerosi scritti, tra i quali: Dell'arte poetica di Q. Orazio Flacco e di altre poesie del medesimo. Versioni di Filodemo Cefisio [nome arcadico del M.], Siena 1833; Poesie liriche, ibid. 1835; Istruzioni catechistiche e morali da leggersi al popolo nelle domeniche e feste in alcuni tempi dell'anno, ibid. 1837; Altre poesie liriche che servono da appendice a quelle stampate l'anno 1835, s.l. [ma Fiesole] 1840; L'Ecclesiastico di Gesù figliolo di Sirach volto in terza rima, Siena 1845; Cenni biografici su Lorenzo Mancini, Firenze 1848; Raccolta di istruzioni pastorali, Siena 1848; Meditazioni per gli ecclesiastici, ibid. 1854.
Fonti e Bibl.: G. Cappelletti, Le chiese d'Italia dalla loro origine sino ai giorni nostri, XVI, Venezia 1862, pp. 514 s.; G. Catoni - S. Fineschi, L'Archivio arcivescovile di Siena, Roma 1970, pp. XII, 13, 25, 41, 167, 248, 263; Lettere pastorali dei vescovi della Toscana, a cura di B. Bocchini Camaiani - D. Menozzi, Genova 1990, pp. 165, 305; A. Mirizio, I buoni senesi, Brescia 1993, p. 430; A. Fiorini - F.D. Nardi, Contrade e Chiesa nell'Ottocento, in Il Carroccio di Siena, XLV (1993), pp. 8 s.; F.D. Nardi, L'arcivescovo M., in Storia di Siena, II, Siena 1996, pp. 295-308; Id., G. dei conti M. arcivescovo di Siena, Siena 2002; Id., La diocesi senese nell'età della Restaurazione, in Chiesa e vita religiosa a Siena dalle origini al grande giubileo, Siena 2002, pp. 395-418.